“[…] Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
[E. Hemingway]
Il fatto che il recarsi in chiesa ogni domenica per essere un buon cristiano fosse un obbligo non mi è mai piaciuto. Ho sempre creduto che servisse qualcosa di più per farlo, come un bisogno, una necessità di qualsiasi tipo. L’idea che ho della religione è abbastanza complicata, ma un po’ si basa su questa idea qui, semplice e logica e negli anni ho cercato di esserle fedele. Le ricorrenze sono alcune di quelle occasioni in cui ci vado, magari per l’atmosfera di festa o anche soltanto per ricordare certi principi che al di là di ogni credo sono sempre validi e coincidenti con quelli delle festività pagane che un tempo erano al posto di quelle religiose che conosciamo di più. La Pasqua, ad esempio, dovrebbe ricordarci che alla fine la luce vince sul buio. Anche questa un’idea semplice, confortante, attorno la quale si possono costruire dei discorsi immensi, usando giri di parole sempre nuovi e diversi.
Questa cosa non valeva per il prete del paese in cui vivevo prima. No. Lui, al momento dell’omelia, ripeteva sempre, ogni benedetto anno, lo stesso discorso. Non credo mancasse di fantasia, anzi, ero arrivata a credere che lo facesse apposta per far si che quei pochi e necessari concetti potessero davvero restare nelle teste distratte di chi, a detta sua, si trovava lì trascinato più dalla coscienza collettiva del paese che dalla propria volontà. Per cui quando la scorsa Pasqua mi sono ritrovata in un’altra chiesa, con un nuovo prete e l’occasione di ascoltare un discorso diverso, sono stata tutta orecchie, in cerca di una sfumatura, un guizzo geniale da portare via con me.
Adesso, ripeto, ci sono tanti modi diversi di spiegare un’idea e altrettanti di recepirla. Quella che non mi aspettavo e su cui spesso sono tornata a riflettere in questi giorni è stata la sensazione di perplessità e disagio che ho provato nonostante il messaggio in generale fosse positivo e rassicurante. In pratica, il cuore del discorso riguardava il dolore fisico e quello dell’anima. Di quanto fossero diversi. Quello fisico ha un limite in quanto il corpo stesso, ad un certo punto sviene, per difendersi. Il dolore dell’anima invece sarebbe infinito, non esiste un limite, un fondo, un meccanismo di sicurezza che interviene al nostro posto per salvarci, no. Ci si deve salvare da soli prendendo coscienza del fatto che essere felici è un diritto. Punto. Tutto qui. Ciò equivale a dire che si possono trascorrere le giornate a pensare che nulla va come dovrebbe o, al contrario, che tutto è esattamente al suo posto o che comunque lo sarà nei tempi e nei modi più giusti. Tutto dipende dal nostro atteggiamento mentale che condiziona tantissimo il modo in cui osserviamo la realtà. Un evento positivo può diventare ai nostri occhi negativo così come può accadere il contrario, per cui se stiamo male, in fondo, è un po’ colpa nostra.
Tutte queste belle cose non sono una novità, spesso se ne perde consapevolezza, ma tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo già sentito parlare. Ricordare che la felicità è un diritto lì per lì mi ha fatta sentir meglio. Poi, si sa, quando viene spinta da un impulso diverso la mente parte, va senza freni tra pensieri impervi e disastrati ed è impossibile fermarla. Mi sono sentita in colpa. Terribilmente. Per tutte le volte che non mi sono salvata e ho preferito pensare a me stessa come la persona che non sono e a quel che non stavo facendo, soffrendo inutilmente.
Non so, forse ci sta anche questo. Rientra nella normalità dell’eterno scontro tra bene e male che avviene dentro di noi ogni giorno prima che in qualsiasi altra parte del mondo, nell’ovvietà del fatto che le vittorie vanno all’uno o all’altro alternandosi e che nonostante tutto la vita va presa con le giuste dosi di responsabilità e leggerezza, sempre. Chissà allora se non esiste da qualche parte anche un certo diritto al dolore, perché come mi disse una persona qualche tempo fa, è inutile crucciarsi quando non si è pronti, per una cosa qualsiasi, fosse pure semplicemente la felicità.
Un discorso ad hoc, per questo periodo 😀
Come al solito, del resto…
Sto ancora mettendo insieme il senso delle ultime due righe, ma ci sono quasi 😀
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Ahah ma come! Semplicemente significa che va bene anche star giù alle volte, non importa, senza star male perché si sta male 🙂
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Ah ecco! Grazie per la delucidazione ahah
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😛
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Mettendo i mezzo la felicità, si rischia spesso di confonderla come una più acuta contentezza, non è il tuo caso ovviamente. Star giù va bene, certo, basta prendere coscienza che si può risalire. E trovare ogni appiglio per farlo.
Mancavi bloom, un abbraccio
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Grazie scrittore 🙂 Sono stata via dal blog più del previsto, un po’ per tutta questa confusione che avevo nella testa, un po’ per altro. Vengo a trovarti presto!
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Sei sempre la benvenuta, lo sai bene☺️
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🙂 🙂
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Eccoti dolce Bloom, felice di leggerti, lo sai che gli alti e bassi fanno parte della nostra vita, io e’ un bel po’ che non vado in chiesa, a no, cosa dico, dall’anno scorso, alla cresima di un nipote di mio marito, 😀 bacioni cara, buonanotte e buona settimana, ❤
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Hai ragione 🙂 Il problema sta nel riconoscerli appunto come tali, sono momenti e basta…
Grazie Laura ❤
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Baci carissima, ❤
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ciao 🙂
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D’accordo con ciò che hai condiviso, grazie 🙂
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Io, cristiano dubbioso e ondivago come molti, ho iniziatoa frequentare la messa di un altro quartiere dopo aver scoperto Don Carlo.
Un sacerdote 80enne che condisce le sue prediche in dialetto, fa battute spiritose, ma ti fa capire che la religione può anche essere insita in piccole azioni quotidiane che magari noi diamo per scontate.
5 minuti di predica (non il solito 15-20 minuti) e ti rinfranchi con la religione.
Ciao
K!
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E’ una fortuna grandissima trovare delle persone così. In fondo i preti sono uomini e la capacità di esprimersi e comunicare dipende dai modi di fare, dal carattere, dal modo in cui a loro volta hanno recepito certi insegnamenti. Hanno i loro difetti e i loro limiti. In chiesa si va quando ci si sente attirati, incuriositi, è un dato di fatto… Basta con questi obblighi!
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espongo un pensiero generalizzato scaturito da quanto ho letto:
io faccio un sacco di difficoltà mentale perchè spesso ci distruggiamo l’esistenza alla ricerca della felicità oppure ce la disintegriamo in nome del dolore.. perchè non possiamo semplicemente considerarle fasi di cui la vita è fatta. Troppo spesso noto che ciò che separa i momenti da uno stato “normale” ad uno stato “felice” o “triste” vengano considerati come transitori in attesa di giungere a destinazione… quei momenti sono vita.. perchè snobbarli e considerarli solo come sentiri tra due apici opposti? è un concetto che spesso diventa automatico… la felicità come la tristezza sono due momenti, entrambi sono due doni, nessuno dei due avrebbe senso verso l’altro… i maggiori cambiamenti della mia vita (anche e forse sopratutto) sono arrivati dopo momenti difficili, di tristezza… i più bei ricordi della mia vita sono composti (probabilmente) da picchi di felicità… ma la mia vita non è tutta qui, tutto quello che sta nel mezzo ha permesso entrambe le situazioni ed è vita, pura.. e nel mezzo tra un picco e l’altro che c’è tutto….
in quel mezzo mi sento di dire che adoro la frase finale, la filosofia che si porta dietro, “è inutile crucciarsi quando non si è pronti” rispetta esattamente il mio modo di vedere e pensare… viviamo nel desiderio di dominare e decretare l’incidere del tempo, tutto ruota attorno al concetto di vita e morte perchè entrambi sono argomenti su cui possiamo determinare poco, per assurdo meno per la vita rispetto alla morte…
io credo nel credere, non so associarlo ad una religione perchè pur rispettandone l’ideologia di fondo diffido della sua applicazione umana portata sempre in direzione di “uno a molti” che di fatto snatura la sua origine..
non accettare la nostra condizione forse ci illude di poterci permettere di stabilirne le sorti ma accettarla e costruire su di essa una o più strade ci fornisce la possibilità di pensare di poterle percorrere o meno…
ma non so se ho reso l’idea… :)))
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Questa volta sono totalmente d’accordo 🙂
Il problema appunto è che non accettiamo certi stati d’animo, fasi, momenti per paura che ci condizionino troppo e che determinino quel che saremo un attimo dopo. Dimenticando che si tratta di “fasi” e “momenti”. Siamo sempre insoddisfatti, timorosi, insicuri. Dovremmo capire che la nostra interiorità ci appartiene, che dobbiamo prendercene cura si, ma nemmeno sottoporla a cadute libere di autostima…
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niente da aggiungere.. 🙂
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Anche il dolore dell’anima ha i suoi meccanismi di difesa, dalla rimozione, al superamento fino alla rinascita. È un diritto prendersi il tempo per soffrire a volte 🙂
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Infatti, si…
Forse è una questione di percezione più che altro, soffrire dentro è come finire in un pozzo sempre più profondo, in quel momento senti che si può andare sempre e ancora giù, mentre il dolore fisico è più “statico” sta lì e speri smetta da un momento all’altro..
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