A occhio e croce qualcuno va a naso.

Finito di lavorare mi sono messa scarpe e giacca e sono scesa per fare un paio di commissioni.
Ho pensato che tra poco sarà un anno che la mia farmacista non mi vede in faccia. E anche il panettiere, i tizi del negozio di casalinghi e tutti gli altri. La prima volta che sono uscita con la mascherina non riuscivo a vedere nemmeno dove mettevo i piedi, il che è molto pericoloso per una come me che inciampa pure sui pavimenti di ceramica. Oddio ho quasi qualcosa nell’occhio. Questa mascherina mi sta larga. Stringi qua, tira là. La prossima volta lego i capelli. Un macello.
In tutti questi mesi credo di averla dimenticata una volta sola, una delle pochissime sere che sono riuscita a vedere degli amici. Mentre mi preparavo, sceglievo la cosa giusta da mettere, sistemavo i capelli e il trucco, mi dimenticai di tutto. Chissà come. Azzerai completamente le ultime settimane di precauzioni. Quando me ne accorsi chiamai un’amica, per fortuna ne aveva una da prestarmi.
Ormai però mi ci sento comoda.
A parte che ho risolto il problema del naso che si gela d’inverno.
Mediche, non mediche, lavabili, di stoffa, natalizie, nere e colorate. Le ho di tutti i tipi. Mi ci sono abituata. Cerco qualcosa di diverso nell’aria mentre esco dalla farmacia e mi sembra che arrivi come una sensazione di piacere nel sapere che nessuno a vedermi così può leggere le mie emozioni. Nemmeno accorgersi di quanto sono indecisa davanti allo scaffale dei biscotti al supermercato.
In tutti questi mesi non si è parlato che degli occhi. Comunicare con lo sguardo, sorridere, mostrare rabbia, disapprovazione e allegria con la metà dei muscoli della faccia rimasta scoperta. Eppure si sa, gli occhi sono poco obbedienti. Sono famosi per essere traditori di emozioni. Invece a me è capitata una cosa diversa. Il modo che abbiamo per osservare il mondo d’un tratto si è ritrovato libero dalle labbra che cercano di mormorare qualcosa per scusarsi di uno sguardo che indugia, spensierato rispetto al naso che freme di fastidio, del tutto estraneo alle mascelle che cercano di contrarsi dalla rabbia. Gli occhi si sono liberati di ogni convenzione alla quale spesso ci si piega per sembrare meno indiscreti o più interessati. Si sono ripresi la curiosità, i dettagli e il tempo. Almeno i miei.
Ho notato che spesso la gente abbassa la mascherina per ascoltare meglio l’interlocutore, nonostante le orecchie siano del tutto scoperte. Praticamente una resa di fronte a qualcosa che nemmeno occhi e orecchie insieme vogliono provare a decifrare. Una realtà assurda e inaccettabile. A loro serve il naso. A tutti i costi. Per orientarsi tra il banco dei salumi e quello del pesce, per riconoscere il vicino che si sbraccia per salutarli, per ascoltare. Non si fidano di nient’altro di ciò che forse è l’istinto per muoversi nel mondo.
Allora immagino che ogni giorno sotto la mascherina avvenga in continuazione una piccola guerra tra anima e istinto. Mi stringo nella giacca e sorrido, di nascosto, solo per me.

La leggenda di Artaban

Artaban. La leggenda del quarto Re

Mi dispiace che dell’Epifania se ne parli poco.
Forse è perché sembra una festa totalmente legata ai bambini e laddove son tutti grandi ormai non si festeggia più. A me l’età non è mai importata e ho appena finito di riempire le calze delle persone che amo. Mi diverto a tenere vive le tradizioni.
L’Epifania come anche il Natale ha origini pagane che secondo me sono affascinanti. E’ legata ai cicli della Natura, alle tradizioni contadine, ai riti per cacciar via il buio e la stagione fredda e all’idea antica che delle ninfe o dee passassero sui campi durante la notte per renderli fertili e pronti per la Primavera. La Befana sarebbe la rappresentazione della Madre Terra vecchia e stanca del freddo periodo invernale che lascia nelle case gli ultimi doni del raccolto. Lancio uno sguardo fuori, piove e tira vento freddo da giorni. Penso che in fondo servano molto di più a noi adulti i significati e le leggende che ci sono dietro le festività.

Quest’anno ho scoperto che esiste un’altra leggenda, quella del quarto Magio. Artaban sarebbe dovuto partire con gli altri Magi per andare a far visita a Gesù. Aveva venduto tutti i suoi averi per comprare pietre preziose da regalare al nuovo Re di Israele. Durante il viaggio però rimase indietro ad aiutare le persone povere e in difficoltà che trovò lungo la strada e non arrivò in tempo a Betlemme e rimase pure a mani vuote. Fece tardi, ma continuò a cercare Gesù per tutta la vita. La storia dei Magi mi ha sempre affascinata. Erano astrologi e credettero in quel che fu un grandioso evento astronomico, il passaggio di una cometa o forse una rarissima congiunzione di pianeti (che si sarebbe ripetuta anche quest’anno intorno al 21 dicembre).
Insomma, fecero un viaggio lungo e faticoso per inseguire una stella. Il povero Artaban ci provò, ma alzi la mano chi non sa cosa significa arrivare tardi ad un evento eccezionale o sentire il bisogno di cercare qualcosa o qualcuno che nemmeno si conosce davvero.
Ecco, sarebbe bello se almeno ogni 6 Gennaio ci ricordassimo almeno di Artaban e magari di accendere una candela per scaldarci un po’ il cuore.
Senza dimenticare di metterci vicino un dolcetto, ovviamente.

Vi lascio qui la storia di Artaban che ho trovato a questo link:

La storia del quarto Re Magio

tratta da “L’altro Re Magio” di Henry Van Dyke (1852-1933) Testo di Gthamban Traduzione Geppe Inserra

Nell’antica Persia,
in una città di nome Ecbatana,
viveva un uomo
chiamato Artaban.

Artaban faceva parte
di una remota comunità
di studiosi zoroastriani
conosciuti come Magi.

Gli Zoroastriani erano
astrologi e credevano
nella ricerca
del bene e della luce.

All’apparire di una Stella
più lucente delle altre,
Artaban annunciò alla sua comunità
che presto avrebbe raggiunto
altri tre Magi, per cercare con loro
il Re d’Israele appena nato.

Venduti tutti i suoi beni,
Artaban comprò tre preziosissimi
gioielli: uno zaffiro, un rubino
e una perla.

Voleva portarli con sé
per farne omaggio
al Re. Cominciò così
il viaggio di Artaban.

Quando partì, aveva solo
dieci giorni per incontrarsi con
i tre compagni al monte di Nimrod,
presso il Tempio delle Sette Sfere.

Ma, mentre Artaban si avvicinava
al Tempio, il giorno dell’incontro,
vide sulla strada un uomo agonizzante,
che si lamentava.

Che fare? Dare una coppa d’acqua
a quell’uomo morente
o proseguire, affrettandosi
per raggiungere gli altri Magi?

Dato che i Magi non erano
solo astrologi, ma anche
medici, Artaban si fermò.

Con la sua perizia e la sua sapienza
assistette per ore l’infermo, lo curò,
fin quando non gli tornarono le forze.

Dopo essere ripartito e dopo
aver raggiunto il luogo dell’appuntamento,
Artaban scoprì che i suoi amici
se n’erano andati.

Fu così costretto a vendere
lo zaffiro per comprare
una carovana di cammelli per
affrontare il prosieguo del viaggio.

Arrivò a Betlemme proprio mentre
i crudeli soldati di Erode stavano
massacrando i bambini innocenti
di quella città.

L’uscio di una casa era
aperto, e Artaban poter ascoltare
una mamma che cantava
la ninna nanna al suo bambino.

La donna gli disse
che i suoi amici Magi erano
giunti a Betlemme
tre giorni prima.

Avevano trovato Giuseppe
e Maria e il loro bambino,
e avevano lasciato i loro doni
ai suoi piedi. Quindi erano scomparsi
misteriosamente com’erano arrivati.

Giuseppe aveva preso sua moglie
e suo figlio ed era partito in segreto.
Girava voce che fossero andati
molto lontano, in Egitto…

All’improvviso, all’esterno della casa,
rumori, grida, confusione, pianti di donne.
E poi un grido disperato:
“I soldati di Erode
stanno uccidendo i bambini.”

Artaban si affacciò all’uscio
e vide una banda di soldati che
correva per strada, con le spade sguainate
e le mani insanguinate.

Il capitano raggiunse la porta,
ma Artaban lo fermò e gli diede
il rubino, chiedendogli di lasciare
in vita la mamma e il suo bambino.

Quindi Artaban, sempre seguendo il Re,
raggiunse l’Egitto, cercando dappertutto
le tracce della piccola famiglia
che era fuggita prima che arrivasse a Betlemme.

Per 33 anni, Artaban continuò a vagare
alla ricerca del suo Re, spendendo
la sua vita aiutando i poveri e i malati.
Alla fine, arrivò a Gerusalemme,
nei giorni della Pasqua.

C’era una grande commozione
a Gerusalemme. Improvvisamente,
una donna, fatta schiava per debiti.
mentre veniva trascinata in catene dai soldati,
si gettò ai piedi di Artaban.

Prendendo l’ultimo dei suoi tesori,
la perla, lo diede alla ragazza:
“È per la tua libertà, sorella!
È l’ultimo dei tesori che avevo
tenuto per il mio Re”.

Mentre Artaban parlava,
un forte terremoto scosse la città.
Fu colpito da una tegola.

Artaban seppe
che stava per morire
senza aver trovato il suo Re.
La ricerca era finita,
ed egli aveva fallito.

La giovane schiava riscattata, abbracciando
quell’uomo vecchio e morente,
udì una voce dolcissima, e poi vide
che le labbra di Artaban si muovevano
lentamente.

Artaban: “Ah, Maestro, ti ho tanto cercato. Dimenticami.
Una volta avevo preziosi regali da offrirti.
Adesso non ho più nulla.”
Gesù: “Artaban, tu mi hai già dato i tuoi doni.”
Artaban: “Non capisco, mio Signore.”

Allora quella voce inconfondibile
tornò a farsi sentire, e la donna
poté udirla chiaramente.

Gesù: “Quando ero affamato,
mi hai dato da mangiare,
quando avevo sete,
mi hai dato da bere,
quando ero nudo,
mi hai vestito.
Quando era senza un tetto,
mi hai preso con te.”

Artaban: “Non è così, mio Salvatore.
Non ti ho mai visto affamato,
e neanche assetato.
Non ti ho mai vestito.
Non ti ho mai portato nella mia casa.
Per trentatré anni ti ho cercato,
ma non ho mai visto il tuo volto
e non ti ho mai aiutato, mio Re.
Non ti ho mai visto fino ad oggi.”

Gesù: “Quando hai fatto queste cose
per l’ultimo, per il più piccolo
dei miei fratelli – tu le hai fatte per me.”

Artaban si rivolse alla donna
che aveva liberato dalle catene:
“Hai sentito che dice Gesù?
Abbiamo trovato il Re.
L’abbiamo trovato
ed egli ha accettato tutti i miei doni.”

Un lungo sospiro di sollievo
esalò flebilmente
dalle labbra di Artaban.

Il suo viaggio era finito.

I suoi regali
era stati accolti.
L’altro Re Magio
aveva trovato il Re.