Candele e mongolfiere.

Il fatto è che sono un segno di aria, una Bilancia. Il segno della diplomazia, dell’armonia, che ricerca giustizia e bellezza nel mondo. Come se non bastasse, sono ascendente Leone, un segno di fuoco, che si contraddistingue per il coraggio, la sicurezza e una vanità infinita. Quindi se la giornata è buona il fuoco riscalda l’aria e come una mongolfiera elegante e imponente riesco a volare verso orizzonti infiniti, se va male mi capita qualcosa come vedere la fiamma di una candela platealmente spenta dall’aria che si fa agitata e resto al buio, a cercare a tentoni una torcia nell’anima.

Il secondo piano della Asl era completamente vuoto, ma sentivo dei rumori. Il dottor P sta al secondo piano, vada a vedere, mi aveva detto la guardia giurata sulle scale in assetto da combattimento, camicia fuori dai pantaloni, sudore percettibile, mani in avanti pronte a respingere gli attacchi di anziani esasperati. A vedere cosa, mi dico. Qui non c’è nessuno. Decido di seguire i rumori. Nell’ultima stanza trovo un uomo intento a fare pulizie. In genere mi spaventa rivolgere la parola a chiunque lì dentro: l’Asl della mia cittadina è come una sorta di castello stregato avvolto in una nebbia di rabbia, arroganza e strafottenza e tutti ne sembrano soggiogati e alla fine riescono ad intossicare anche te. Ehm buonasera, sto cercando il dottor P, sa se è arrivato? domando con voce sorridente che non so da dove mi esce dal momento che sono ansiosissima. L’uomo si gira verso di me. Spalle curve, pelato, occhi azzurri di cui uno soltanto sembra puntare nella mia direzione. Questo qui mi manda a quel paese, ho pensato. Stava per concludersi il conto alla rovescia nella mia testa quando posa il detergente spray nel carrellino, mi si avvicina e a mezza voce mi dice no, non ancora. Ma ho appena fatto la sua stanza con il tono di chi invece pensa di aver pronunciato qualcosa del tipo da un grande potere deriva una grande responsabilità. Mi dice di seguirlo. Gli sorrido da sotto alla mascherina riconoscente e pronunciando un grazie più allegro di quanto io lo sia in realtà.

Carte, burocrazie, mi mettono ansia. Non c’è nulla di preciso, controllabile, affidabile. Entra nella stanza del dottor P, ancora vuota. Nota che aveva dimenticato qualcosa e mormora che ha fatto bene a tornare. Mi mostra le sedie fuori in corridoio, dice che la gente in genere aspetta lì. Decido di restare in piedi, ho il terrore mi si attacchi addosso quella nebbia mangia emozioni. Dal foglio affisso fuori alla porta con gli orari per il disbrigo delle pratiche noto che sono cinque minuti in anticipo. Lo smartwatch ci tiene a confermarmi che sono agitata con una specie di misuratore di stress. Mi guardo i piedi nei sandali poco alti di cuoio marrone chiaro. Devo somigliare ad una tedesca in vacanza, con i pantaloni grigio chiaro alla caviglia, la camicetta color verde acqua, zainetto e occhiali da sole pure loro vintage come le scarpe. L’uomo esce dalla stanza e fa per allontanarsi quando arriva quello che sembra il dottore. Un tipo alto, capelli bianchi, rasato. L’uomo me lo indica, eccolo è lui e lo segue nella sua stanza a parlare di non so che. Nel frattempo arriva una donna, alta, abbronzata, capelli corti, chiede all’uomo se è possibile aprire i bagni, sembra una dottoressa anche lei. Mi passa davanti senza nemmeno guardarmi. L’uomo si mette a disposizione, prende le chiavi e la fa entrare, poi si gira verso di me e abbassandosi la mascherina mi fa una smorfia che vuol dire è una pesantona, mammamia. Io stavolta ridacchio davvero, non stento a crederlo dai modi e quando mi passa davanti per andare via lo ringrazio e credo non solo per le indicazioni.

Osservo il dottore che si mette il camice e con una lentezza infinita sistema le sue cose per prepararsi a ricevere i pazienti. Cioè me, perché non c’è nessun altro. Nell’attesa mi guardo intorno. Mi rendo conto che la battaglia tra la candela e la mongolfiera sta andando a favore della seconda. Raddrizzo la schiena, sistemo gli occhiali sulla testa. Scrollo un po’ di ansia dalle spalle. Temo un no signorina, non è possibile, non posso aiutarla. Eppure sento un vento che si alza e inizia a farmi staccare un po’ da terra. Fingo per un attimo che in quel camice ci siano altri volti più gentili e sorrido. Immagino i muri tetri che in un racconto potrebbero fare da metafora a qualche stato d’animo e diventare del tutto innocui. Il dottore mi fa cenno di entrare.
Quando vado via scendo le scale veloce, contenta di aver fatto in fretta e con la speranza di non aver perso solo tempo. Sento un piccolo vuoto d’aria nel petto, esco sulla strada. Capita mi dico, quando la paura è più alta dell’ostacolo tanto da coprirlo del tutto e nasconderne l’entità e ci si lancia a saltare da un po’ troppo in alto.

Sulla canzone che stavo aspettando

Ci sono giorni magici in cui accade che ti metti alla guida e alla radio passano proprio la canzone che ti eri dimenticata di cercare su YouTube il giorno prima. In quella canzone trovi sublimate tutte le novità che senti in te stessa. Perfino quella di portare di nuovo gli anelli alle dita, l’ultima volta che ne ho portato uno forse avevo dieci anni. Lo persi per averlo tolto prima di lavare le mani e in genere già non sopportavo la sensazione di averlo ancora al dito anche quando a sera lo rimettevo nel suo cofanetto. Mi urtava che la pelle conservasse la sensazione di costrizione per poi guardarmi le mani e non trovarlo. Li guardo invece adesso mentre scrivo e mi sembrano un’armatura niente male.

Scrivile, scemo, stanotte non dormi, tu chiamali sogni, ma sono ricordi
Scrivile, scemo, è colpa del vino, se basta uno sguardo e ritorni bambino
Scrivile, scemo, ci vuole coraggio, nel ’94 ad essere Baggio

Ci sono giorni magici in cui accade che ti svegli al mattino e si realizza esattamente l’ultima cosa che avevi sognato, sorridi come una bambina che ha ricevuto il regalo più bello e pensi che allora l’Universo non è solo quella spirale che mangia e ingoia tutte le cose belle che ti capitano nella vita, ma ogni tanto si espande per comprenderne altre al suo interno.

Ma dove sei? Dicono che sei un po’ cresciuta oramai
E non sei più quella bambina che baciava Harry Styles in TV
E pesano, uccidono, ‘sti cazzo di “ti amo”, ballano dentro la bocca un ritmo cubano
Il sangue, le lacrime, un grido blasfemo, tu fatti coraggio, poi scrivile, scemo

Ci sono giorni magici in cui accade che ti senti bella, che la bilancia dice che mancano tre chili al tuo sogno che poi non è un sogno ma un racconto che stai scrivendo ogni giorno, da quando ti sei accorta che avevi il potere di cancellare le righe che non ti piacevano, di costruire una trama diversa, di accorgerti delle abitudini e di usarle a tuo vantaggio. Forse non è una gran scoperta quella di potersi alzare al mattino non per dovere, ma anche per ritagliarsi del tempo libero extra prima di qualsiasi impegno per fare qualcosa di bello per se stessi, ma è una delle migliori.

E scusa per l’ansia, mi mangia da dentro e per il cane che scappa con il cancello aperto
Vedi, non sono bravo a fare restare chi mi vuole bene, però so aspettare

Ci sono giorni magici in cui accade che non solo scopri che è fondamentale che ti parli bene, sì, che tu parla bene a te stessa, ma lo metti anche in pratica, perché le cose che pensi diventano i collegamenti più ricorrenti tra i tuoi cazzo di neuroni che si abituano alle parole che più ti ripeti e quella che ti racconti diventa esattamente la realtà che ti circonda. Allora ti vedi in un modo così nuovo, così inebriante, ti senti così padrona di te, ti guardi da fuori e ti piaci mentre cammini per strada e mentre balli in auto sulla canzone che stavi aspettando.