#21: Storie di alberi

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Nina si aggira frenetica per casa. Non deve dimenticare nulla. Il caffé l’hanno preso tutti, qualcuno si è già avviato. I fiori finti sono sul tavolo. Le manca di infilare il nastrino intorno al piccolo albero della vita che vorrebbe appenderci vicino, qualcuno le ha mormorato che forse non glielo faranno tenere ma a lei non importa. E’ già tutto così ingiusto cazzo, almeno avrà diritto di mettere dove diavolo le pare quei due centimetri quadrati di legno bianco. Nina cerca le forbici mentre un rumore fastidioso di motore viene da fuori. Chissà cos’è, avranno deciso di tagliare l’erba pensa. Pochi minuti dopo sente un tonfo forte. Corre al balcone e il cuore le va in pezzi. Inizia a balbettare e tremare, a urlare dei no, dei non è possibile. Arriva sua zia che la prende per le spalle e la tiene costringendola a calmarsi, Nina si dimena disperata. Alla fine scoppia in lacrime. Il pino secolare che fino a due minuti prima arrivava con i rami al suo quarto piano giaceva a terra in un modo innaturale. “Era malato Nina, dicono che era malato. Era pieno di parassiti che avrebbero fatto male a tutti” le ripeteva sua zia. Nina si calma anche se la spiegazione le sembra povera e cerca di affacciarsi ma le vengono le vertigini. L’albero copriva il suo balcone alla strada principale e ora si sente all’improvviso completamente nuda. Quei rami le avevano fatto compagnia tante volte, il profumo di pino le arrivava al naso nei giorni di vento, si era distesa a riposare complice di quella chioma e si era divertita a vedere uccellini vari andare e venire da quel folto fogliame ad aghi. Nina pensava che la compagnia di quell’albero fosse una delle cose più belle della casa. Il suo cervello va in loop, non riesce a smettere di ripetersi se ne è andato anche lui e il pensiero a tratti sostituisce, a tratti rafforza quelli che già la affollano riguardo sua madre. Se ne erano andati quasi insieme.
A Nina viene in mente la magnolia nel cortile della vecchia casa. Quando lei era piccola regnava maestosa davanti al balcone della cucina con quei fiori bianchi che sembravano piccole corone preziose. Un giorno tornò da scuola e non c’era più. Il padrone di casa disse che stava rovinando le fondamenta e lei nemmeno ci riusciva ad immaginare come una cosa invisibile come delle radici sottoterra potevano crescere e distruggere la piccola palazzina.
La quercia nel campo di noccioli invece l’aveva buttata giù un fulmine, almeno. Nina ricorda ancora quella tempesta. Era rimasta incollata con il naso al vetro del balcone. La quercia si distingueva bene nel buio e nelle raffiche di vento e di pioggia. Aveva combattuto bene eppure un pezzo di cuore se ne era andato anche quella notte.
Qualche giorno dopo Nina rovistando tra le cose in disordine in camera sua trova una pigna. Sorride e la stringe come se fosse la cosa più preziosa che ha. Era sua, di quel pino, l’aveva raccolta lo scorso periodo di Natale. Prova una piccola soddisfazione nell’aver sottratto alla furia degli operatori comunali almeno quella. La osserva a lungo e le si accendono gli occhi nel sapere e nel promettere a se stessa che un’immagine, un ricordo, una fantasia sempre potrà sottrarre lei dalla furia di qualsiasi tempesta.

ComeDiari #20: Resistenza

Nina tiene la testa sulle mani, le braccia poggiate sul banchetto. Gli occhi spalancati nel buio come quelli di un gatto in allerta. Non deve farsi scoprire. Gli altri bambini sono cascati come pere cotte. Le maestre si muovono silenziose ma solerti da un banchetto all’altro a zittire e controllare. Poco fa hanno abbassato le persiane dell’aula, momento che sancisce l’inizio dell’ora di riposo. Tre o quattro bimbi si ribellano platealmente, piangono e fanno i capricci. Le maestre a loro danno le brandine. Questa cosa Nina non la capisce, fanno i cattivi e però stanno più comodi. Quattrocentoventidue, quattrocentoventitre, quattrocentoventiquattro… Nina li osserva di traverso. Neanche a lei va di dormire a comando, ma non fa tutte queste storie. I capricci sono cose da bambini. Poi vuoi mettere il disonore di essere ripresa dalle maestre. Un paio di assegnati alle brandine sembrano addormentati. Quattrocentocinquantasette, quattrocentocinquantotto… Nina è ancora sveglia e sottilmente soddisfatta, nessuno se ne è accorto. L’unico problema è che si annoia da morire, allora conta nella testa, ecco una buona occupazione: trovare il numero più grande di tutti, quello a cui non è mai ancora riuscita a pensare.

Nina si aggrappa alla ringhiera del balcone e fissa lo spicchio di Luna crescente nel cielo. Sente il naso che freme, gli occhi che si gonfiano. Un pensiero la trafigge irrazionale e crudo, chissà se c’è qualcosa dentro di lei che somigli a quella luce a forma di sorriso, che sappia elevarsi, ingrandirsi, crescere e splendere. Cambia posizione poggiando solo i gomiti sul ferro e tenendo le mani come ad abbracciarsi. Ha paura di essere diventata arida, fredda, calcolatrice, una brutta persona. Di aver resistito in silenzio per troppo tempo, di aver sviluppato sensi paralleli che le consentono di saltare da una difficoltà all’altra, riuscire a soddisfare i suoi bisogni ma tenendosi sempre ben nascosta dietro la sua gigantografia che sorride a tutti. Teme di aver costruito la sua vita tutta in cunicoli e stanze segrete al riparo dagli occhi degli altri, per esprimere la sua libertà dove nessuno può giudicarla. Le lacrime le fanno sembrare quella luce ancora più nitida e luminosa, che la tristezza è necessaria tanto quanto la gioia. Avrebbe dovuto urlare, ribellarsi e non cercare di far felice nessuno. Doveva diventare capace di tirarsi addosso facce deluse invece dei sorrisi che ogni volta la costringevano a impacchettare altro da portare nel suo mondo segreto. Nina ricorda la sua vita come un’avventura fantastica che si è svolta dietro una televisione spenta, gli unici spettatori sono quelli che erano lì dietro con lei e si contano sulle dita di una mano.
Non appartengo a nessuno e a nessun posto, si ripete, quel pensiero la inorgoglisce di solito, ma questa sera la frantuma in mille pezzi perché sente forte che nessuno la conosce davvero. Un vento passa ad asciugarle il viso. Nina si accuccia con la testa in quell’abbraccio, inizia a calmarsi e a respirare. Forse può ancora salvarsi e fermare quel buio che sente la sta ingoiando, smettere di resistere, di nascondersi, smettere di cercare il numero più grande che esiste in silenzio.

ComeDiari #19: Quattro anni dopo

picture by Yaoyao

Nina gira la testa verso il balcone chiuso. Chissà quanto ci vuole a piedi e poi in treno ad arrivare al mare. Ha deciso, andrà sabato. Venerdì sera preparerà la borsa con un asciugamano, un libro e una bottiglia d’acqua. Basta rimandare. Gli orari dei treni, sì, quelli li vedrà direttamente venerdì. Ora basta perdere tempo, gli appunti non si studiano da soli. Un ultimo sguardo al Sole che brilla solo fuori dalla sua stanza. Arriva un tonfo dalla stanza accanto e lei sussulta, non vistosamente, ma il cuore inizia ad andarle a mille. Si sarà fatto male? Nessun altro rumore. Aspetta qualche istante, così magari si risparmia di andare di nuovo a controllare. E se non fa nessun rumore perché è successo qualcosa come l’altra volta? Le trema qualcosa dentro, si alza quasi buttando via la sedia e corre di là, ma a pochi passi dalla porta si avvicina piano. E’ tutto ok, è solo caduta della roba. Entra, la raccoglie e gliela sistema a portata di mano. Torna alla scrivania, dov’era rimasta? Ah si, al Sole. Forse sabato può approfittarne per fare quelle commissioni che aveva rimandato, pensa. Sì dai, l’estate è lunga, al mare ci andrà un altro giorno. E magari una di queste sere va ad ubriacarsi come non ha mai fatto. Anche se non servirebbe a nulla, insomma, facendo mente locale, quale uomo al mondo ha risolto qualcosa facendosi del male? Mettiamo pure che si faccia male, ma proprio per bene. Uccidendo ogni speranza, ogni luce dentro di sé, toccando il fondo. Ecco. Nina è quasi sicura che al mondo sono stati toccati già tutti i fondi possibili. Non è rimasto un solo modo originale di farlo. Ne ripassa a mente alcuni senza accorgersi che nella stanza inizia a farsi più buio. Invece, riflette, è molto più probabile che esista ancora un modo di essere felice che nessuno ha sperimentato mai. Si ripromette che l’indomani si metterà più presto sui libri, ormai si è fatta sera.

Nina alza la testa verso il balcone chiuso. A quell’ora, quando finisce di lavorare, la luce che entra da lì attraversa il living e inonda la sua piccola palestra nell’ingresso come una lingua dritta di fuoco. Sembra che il Sole offra una specie di sentiero a lei che pedala da ferma e la proietti direttamente fuori. Il cuore inizia ad andare a mille e lo legge bene sullo smartwatch al polso. Nelle orecchie la musica copre qualsiasi rumore, anche quello un po’ cigolante dei pedali che avrebbero bisogno di un po’ d’olio. Muove le labbra sulle parole straniere che la inebriano. Accelera sempre di più, abbassa le spalle come se dovesse tagliare meglio l’aria. Tenta di seguire gli intervalli del ritmo tabata che si è data, quaranta secondi di sprint e dieci di recupero, ma questi ultimi alle volte se li scorda quando arriva la canzone che la scatena più di tutte. Quella che la fa sentire bella, forte e selvaggia. Le gambe nemmeno le fanno male, saranno dolori dopo, ma non le importa, anzi. Saranno il segno che ha faticato per bene. La lingua di fuoco diventa tutte le strade del mondo, sono tutte lì davanti a lei. Niente le sembra più impossibile. Le passano i nervi, le paure, i dubbi. Il benessere la invade come una droga, sempre lì, sempre disponibile, bastano le cuffie, i suoi pesi e le scarpe da ginnastica.
Dopo si metterà sui libri, ormai si è fatta sera.

ComeDiari #18: Chilometri di tempo.

Non ricordo il giorno in cui l’ho deciso. Anzi, in realtà non è stata una decisione presa in un giorno soltanto, quindi ricordarlo sarebbe un esercizio inutile della memoria. E’ stato un po’ come quando sei in ritardo alla stazione, il treno è già fermo alla banchina e le porte stanno per chiudersi da un momento all’altro. Allora ti avvicini alla prima, che è l’ultima del convoglio, pronta per salire su. Poi pensi che se affretti il passo forse riesci a raggiungere la porta successiva con il vantaggio di evitare la folla che si è creata in fondo al treno. Arrivi alla penultima porta, ma di nuovo ti stuzzica l’idea che correndo un po’ ce la fai a salire sulla carrozza centrale dove aumentano le probabilità di trovare un posto a sedere. E così via, corri di porta in porta, finché il fischio del capotreno ti ricorda che devi prendere una decisione e salire.

Mi sono ritrovata a correre sulla linea del tempo, di giorno in giorno, senza fermarmi. Non è da me e sinceramente non credevo nemmeno di avere tutto questo fiato. Far mente locale per rendersi conto di quanto fiato sia rimasto nei polmoni è una cosa che di solito fa chi ha deciso da subito quanto lontano vuole andare. Insomma, lo fa chi ha una destinazione. E’ la differenza tra chi viaggia e chi invece scappa e io non avevo idea di dove sarei voluta arrivare.

Ho sempre trovato che la fuga sia un’alternativa tra le peggiori. Sono una che resta fino alla fine, il che però forse dipende più dal fatto che faccio fatica a riconoscerne una e questo è il motivo per cui il mio inconscio ce l’ha a morte con me e mi mette i bastoni tra le ruote in continuazione.

Giorno dopo giorno mi sono accorta di aver messo una distanza tra me e quella brutta sensazione. Una distanza temporale. Quella vera, fisica, c’era già e l’avevo già invano combattuta. Io non mi accorgo nemmeno di quando qualcosa mi ferisce nel profondo. Se me ne accorgo in genere ci metto tempo, altrimenti uso quei cieli neri per appenderci le stelle come più mi piace. Ieri ho fissato un punto azzurro sopra i palazzi della mia città e mi è preso un colpo quando mi sono resa conto che da quel punto l’Universo mi osserva una volta ogni ventiquattro ore e che quindi non è fisso, altroché, il cielo è l’inganno più riuscito della Natura.

La sensazione era ed è ancora che non sarebbe mai cambiato niente.

Sarei rimasta invisibile e incastrata in un eterno eccitante inizio a cui non seguiva niente. Avrei continuato a sperare di vedere, toccare, sentire quella persona così come si era presentata all’inizio. Mi ero ritrovata ad inseguire parole e gesti che esprimevano desideri e sentimenti per me, a dipendere da quelle brevi e intense felicità, intervallate da silenzi lunghissimi, incomprensibili, dolorosi. Mi dicevo ogni volta che forse non avevo usato le parole giuste, che dovevo amarlo meglio. Insomma, che era colpa mia se di nuovo se ne era andato.

Avevo arredato così bene quel cielo che quando sentivo la sua mancanza mi bastava guardare le stelle per sentirmi vicina a lui. Le ripassavo una ad una con lo sguardo, l’avrò fatto decine e decine di volte. Ogni tanto di notte mi capita di risentire la magia che pensavo ci unisse, che lui diceva ci unisse.

Quando mi sveglio però tutte le sensazioni implodono nel petto schiacciate dall’evidenza dell’esperienza. E fa male.

Quando la quarantena ci ha rinchiusi tutti ognuno nella propria tana ho potuto notare che la sua non faceva poi così schifo come raccontava. E la differenza tra ciò che è e ciò che pensavo che fosse si è fatta così evidente che non sono riuscita a fermarmi più. La dissonanza aveva un’unica spiegazione, quel che dice non coincide con quel che è. Lui non esiste. Ho corso ancora e cercando di non guardarmi indietro. In fondo sarebbe stato contro natura restare ancora a lungo immobile nel suo cielo.

ComeDiari #17: Fiato sospeso

Mi accorgo del tempo che passa perché sul legno liscio dei mobili si è posata di nuovo la polvere. Se non fosse per quella direi che oggi è lo stesso giorno di ieri. Almeno dentro di me sembra essere così.
E se le luci della città non brillassero così tanto in lontananza non sarei nemmeno così sicura del fatto che, no, sui miei occhi non c’è nessun velo opaco e grigio. Fuori da me il mondo è acceso e la Luna mi prende alla sprovvista quando alzo un po’ di più lo sguardo, nel caso il concetto non mi sia abbastanza chiaro.
Le labbra mi bruciano e se così non fosse penserei ancora che la questione sia chiusa tutta in una bocca che non parla, un’assenza silente e una strada lunghissima cosparsa di briciole di parole e di sguardi.
Riesco a sentire l’Amore sotto ai polpastrelli e la musica bollire nelle orecchie nonostante a volte ancora mi precipitano dentro vorticando furiosamente cadendo dalla soglia della Paura e sprigionando immagini che arrivano alla mente senza passare dai sensi.
Succede allora che una mente affollata appesantisce il cuore e tutti gli altri organi e l’Anima trattiene il respiro per allontanare da sé il prossimo istante.

ComeDiari #16: Sensi vietati

foglia autunno pioggia

Com’è che aveva detto quella tipa alla tv? Ah si. La vita ad un certo punto ti mette davanti ad un bivio: devi decidere se restare nel passato o andare avanti.

Pure Paolo Fox mi ripete da settimane qualcosa del genere. Non sarà facile, dice. L’ambiente, le insidie. Venere opposta, tanto per cambiare. Una certa malinconia che ti fa sentire tutto più profondamente, ma sulla superficie di ricordi e sensazioni che stanno ancora più giù, ancora più indietro. Nel passato, appunto.

L’odore di nuovo mi piace e mi fa paura allo stesso tempo. Non so se è perché la vita è una zuppa, mentre io sono una forchetta, come recitava una massima letta da qualche parte su Facebook, per cui percepisco sbagliate le cose giuste e mi affeziono alle versioni obsolete di me stessa.

Non contenta sono andata a leggermi pure Brezny. Dice di immaginarmi come un essere che rompe un guscio, un germoglio che sboccia da un seme. Una cosa che in autunno va  un po’ controsenso.

E forse, sapete, è proprio questo ciò che non voglio. Scontrarmi con le gocce di pioggia che cercano il suolo per riposare abbracciate.

Allora va bene, dite, se risalgo la strada del nuovo e poi ogni tanto mi lascio andare su una foglia che volteggia nel senso opposto, anche solo per seguirla nel suo futuro che è il mio passato e vedere dove va e sentire che profumo ha e poi risalire ancora e ricominciare il giro daccapo senza che nessun guardiano del tempo mi multi per aver infranto l’ordine delle cose? Che poi non facevo nulla di male agente, sa, tolgo qualche virgola qua e là ma il mio pensiero non andava nemmeno così veloce.

 

ComeDiari #15: Ti Sento

lontananza distanza amore

Non ti penso. No. E’ da un po’ che non lo faccio.
Ti ho già pensato tutto. Ogni punto. Ogni singola parte di te. Dentro e fuori. Presunto e vero. Realtà e fantasia, parole e idee, sogni e telefonate, baci e distanze. Non saprei cosa pensare ancora.

Poi capita che all’improvviso, ti sento.

Come se fossi una continuazione di me. E il mondo ti attraversa e mi arriva e la mia ombra oscilla per qualche istante sull’asfalto, come se cercasse di cogliere anche la tua figura insieme alla mia. Ti sento come se fossi un altro senso con cui scoprire la vita. Non è una cosa che parte dal cervello, ma arriva ad esso e non so da dove parte.
Non so da dove parti.
Ma i desideri e le sensazioni viaggiano, sai, anche se io e te non ci stiamo toccando.


[Questo post è nato un po’ di tempo fa, l’ho ritrovato tra le bozze da poco. Lo pubblico da lettrice, nel senso che avevo perfino dimenticato di averlo scritto. Lo pubblico quasi come se fossi io stessa ad aver bisogno di leggerlo, stasera.]  

 

ComeDiari #14: Essere amore

fenice cenere amore

È una cosa abbastanza da narcisi, lo so, ma a volte mi perdo ad immaginare il momento in cui avrò da scrivere i ringraziamenti in calce alla mia tesi di laurea magistrale e penserò a delle frasi – che non mi azzarderò mai a riportare davvero tra quelle pagine – sugli esami di fronte ai quali si viene messi dalla vita, sui riferimenti che saltano, sui pomeriggi trascorsi con la mia migliore amica a fissare il fuoco del suo camino perché sembra l’unica cosa davvero presente e sicura di un mondo che all’improvviso si è messo a girare più velocemente, ma soprattutto perché nel rivolgere lo sguardo in un qualsiasi altro punto mi sono accorta di essere terribilmente miope, specie se si tratta del futuro.

Insomma, immagino un momento in cui, tirando le somme di ciò che ho e non ho fatto, in qualche modo il conto mi restituisca un’immagine di chi sono diventata, come sono cambiata in questi anni, in cosa sono migliorata e in cosa invece sono ancora pessima.

Mi sono resa conto, in questi giorni, che non c’è bisogno che io aspetti quel momento.

Un po’ come se la resa dei conti stesse accadendo adesso, proprio ora, mentre sto scrivendo. Un po’ come quando nei film accade che l’eroe ormai moribondo e sanguinante si sta lasciando andare alle proprie paturnie e d’un tratto arriva il suo aiutante con l’armatura speciale o l’arma più figa di tutte e gliela consegna, fiducioso che con questa tra le mani può finalmente rialzarsi ma soprattutto portare a termine la battaglia, essendo della potenza necessaria per distruggere il nemico. Ecco, in quel momento lo spettatore – ma anche l’eroe – si chiede perché diamine l’amico non è arrivato prima o perché non ha tirato fuori l’escamotage per vincere la battaglia fin dall’inizio. L’aiutante o l’amico gli rivolge uno sguardo saggio e gli dice qualcosa del tipo soltanto adesso sei pronto. L’eroe lì per lì annuisce ma non capisce davvero cosa vuol dire, ma afferra comunque l’arma e si rialza.

Allo stesso modo mi sento un po’ spiazzata. La mia vita sta cercando di restituirmi pezzi di me stessa adesso, prima degli ultimi esami. Vuole ricordarmi adesso dei gusci che ho rotto, dei cieli che ho tirato giù e dei prati nuovi di zecca che ho srotolato davanti ai miei piedi per andare in posti che non avevo visto ancora. Dei treni, dei litigi, delle cuffie nelle orecchie per non sentire cosa si dicevano nell’altra stanza, delle volte che ho capito e di quelle che non ho capito niente ma ho fatto finta di sì. Dei giorni in cui mi sono disperata inutilmente, delle lacrime, dei mai più, dei ci provo ancora. Delle cose che mi sono piaciute, ma poi ci ho ripensato. Di quelle che ho odiato e poi dopo amato alla follia.

In particolare mi sta ricordando di tutti gli specchi che ho trovato nelle persone che senza troppi complimenti hanno riflesso le parti peggiori di me e dei conti che ho dovuto fare con quelle immagini. Che mica sempre ci si può migliorare. Ho imparato a dire io sono fatta così. Se ti piaccio bene, altrimenti puoi anche andar via. Mi sono affezionata a qualcuno dei miei spigoli, perché sono la mia storia. A patto che segnino delle distanze, ma non facciano male a nessuno.

Mi sono confrontata con la ragione e con il torto – anche mio -, con la paura e con ciò che non avrei voluto ammettere mai.

La cosa più importante di tutte però l’ho capita da poco.

L’essere amore.

Chi è amore, fuori di me. Cosa è amore, dentro di me. Come si diventa amore, quando dentro e fuori non si distinguono più.

Il resto a confronto sbiadisce all’istante. Mi rifletto per qualche istante nella spada tirata a lucido.

Prometto a me stessa che difficilmente, ma molto difficilmente sarò meno di ciò che sono in questo momento.

ComeDiari #13: Ostacoli

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Se un ostacolo ti capita davanti ai piedi due volte, allora vuol dire che c’è una qualche lezione che dovevi imparare e alla prima occasione non l’hai fatto.

Così si dice, almeno.

Non è il fatto in sé per sé che mi urta, ma proprio il suo ripetersi. Con tempi, circostanze e attori diversi. Perché?

Ah sì, la lezione.

Ci ho pensato su tutto il giorno. Non proprio in quest’ordine mi è venuto in mente:

-Non dare più fiducia a nessuno, nessuna persona di nessun genere, età, sesso e condizione sociale. L’idea più immediata e ovvia.

-Mai più distrazioni di nessun tipo. Niente progetti per il futuro, niente shopping, letture, social, modi alternativi di conoscere la vita oltre l’università. Insomma, se succedono certe cose è perché faccio passare troppo tempo distraendomi. 

-Piangermela da sola. In solitudine completa. Che però è più una conseguenza del primo punto.

-Perdonare. E prendersi non troppo sul serio. Arrabbiarsi non serve a niente. E tutti possono sbagliare.

-Imparare ad incassare ed essere pronta poi a ripartire. La vita vuole che io da carne ed ossa diventi di plastilina. Possibilmente profumata e di un colore sgargiante. La storia della resilienza ce la dimentichiamo? E su. 

Ma cos’è una lezione?

Nel senso, davvero c’è sempre una morale? Una e una sola, che ci aspetta paziente alla fine di lunghe telefonate e imprecazioni insensate? Aspetta davvero che passi l’ultima lacrima sul viso o l’ultimo pensiero di fumo dalla testa?

E’ che, capite, due volte. Due volte lo stesso ostacolo. Qualcosa deve pur significare, no?

Beh, ho capito una cosa. La morale dipende da noi. Non facciamo che sceglierci quella che più ci piace di volta in volta e quella ci da’ la direzione che avevamo perso e che ci serve per raggiungere il prossimo obiettivo. Insomma, dipende dalle nostre intenzioni. Quali azioni vogliamo giustificare. Dal modo in cui vogliamo vedere la realtà.

Oggi però di morali non ne ho scelte. Ho cercato una soluzione e basta.

Dove c’è un ostacolo, c’è anche una soluzione.

E questo mi ha fatta star bene più di qualsiasi altra grande verità nascosta.

 

 

ComeDiari #12: Senza Dubbio

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In fondo quel che ti fotte è il dubbio. 

Quando invece sai, è diverso.

Non ci verrebbe l’ansia uscendo di casa al mattino se sapessimo che, qualunque sia la condizione di traffico e di salubrità mentale delle persone che incontreremo per strada, il treno o l’autobus sarebbero lì ad aspettarci comunque e potremo arrivare in sede in tempo, all’orario giusto.

Nel bene o nel male, quando sai, stai meglio. Almeno, sei più tranquillo. Puoi concederti il lusso di essere consapevole e regolarti di conseguenza. Perfino se è giorno di sciopero.

Perfino se lui non vuole più vederti.

Se non vuole più sentirti.

Se sai, allora finalmente tutto quadra e il dubbio sparisce. 

Capisci.

Non ne valevi la pena. 

Percorrere dei chilometri.

Rispondere al cellulare.

Scrivere un messaggio.

Azioni chiamate pretese nonostante non sia stata tu a chiederle.

Non è molto meglio, invece, sapere? 

Non le farebbe. Cose, così. Per te. 

Quando sai, non ti preoccupi più. Dormi serena e ti svegli concedendoti a colazione il lusso di essere consapevole. 

Il cellulare non squillerà.

Non vibrerà brevemente, nemmeno.

Non dovrai attendere nessun momento giusto.

Non devi prendere nessun treno.

E non c’è neanche sciopero.

Senza dubbio, è così.