Nuvole di vapore.

Nina aspira aria dal cilindretto di metallo rosa e dalle labbra schiuse fuoriesce del vapore che sa di fragole, mandorle e vaniglia.
Le avevano detto di non lasciarlo andare subito, ma non capisce come. Riprova, aspira di nuovo, ma questa volta chiude la bocca. Quando la riapre il vapore che esce è pochissimo.

Nina guarda il cilindretto perplessa. Non ha mai capito cosa provano le persone che fumano. A lei quel fumo chiude le narici, disturba. Qualche volta è stata investita da altri fumi che poi ha saputo essere vapori, di diversi aromi, non sempre gradevoli. Tuttavia Nina è sempre stata attratta da quei gruppetti di fumatori che si appartano in ogni luogo. Quelle persone che interrompono una conversazione per accendersi una sigaretta sul balcone, i colleghi che escono dall’ufficio per fumare all’aperto, i clienti di un centro commerciale che sfidano il freddo sulla terrazzina dietro alla porta antipanico. In qualche modo nonostante le avessero inculcato che il fumo fa male, le invidiava. Si era sempre chiesta cosa avessero in comune. La maggior parte delle volte si trattava di sconosciuti che però in qualche modo sembrava si fossero dati un appuntamento preciso, come se l’ansia, l’inquietudine possano essere sincrone in persone che non si sono mai viste prima, e per motivi diversi.

In ufficio Nina aveva notato che i colleghi fumatori avevano come dei permessi speciali per prendersi più pause. Lei era riuscita a seguirli al massimo due volte, per i soli due caffé della sua giornata. In un paio di occasioni si era unita al gruppo con la scusa di prendere un po’ d’aria, ma si era rivelata una cattiva idea perché l’aria era la loro, molto poco piacevole da respirare cercando di mantenere anche una distanza che permettesse brevi conversazioni. Chi non fuma come scarica lo stress? Troppi caffè non sono il caso, il cibo la farebbe ingrassare, le caramelle senza zucchero dopo la seconda ci si stufa.

Nina aspira di nuovo dal cilindretto, è una sigaretta elettronica usa e getta. La prima gliel’aveva mostrata un’amica, ne aveva parlato molto bene, ha un ottimo sapore dolce e fresco. Una sera dopo lavoro Nina si era recata dal tabaccaio con la coda tra le gambe come se stesse per commettere un delitto imperdonabile. Era troppo curiosa di provarne una. Dalle varie descrizioni lette aveva scelto l’aroma che somigliava a quello di una torta.

Questa volta modula il respiro per far uscire il vapore lentamente. Nina alza lo sguardo e si perde ad osservare i volteggi delle lingue di vapore che salgono e svaniscono o i ghirigori che ruotano in senso antiorario in giri sempre più stretti. Al tiro successivo il vapore esce tutto insieme in una nebbia fitta. Nina si rilassa tra quelle nuvolette effimere che sembrano portarsi via qualcosa dalla sua mente affollata. Le vengono in mente le curanderas ecuadoriane che puliscono le persone dalle energie negative soffiando fumo di tabacco su tutto il corpo e ripetendo litanie in lingue antiche.

Piano piano capisce come respirare quel vapore che sembra dare alla testa una piacevole sensazione di leggerezza. Lo posa sulla scrivania, per oggi basta. Nina sorride pensando che con quel cilindretto tra le dita potrebbe avere accesso a quelle misteriose riunioni di sconosciuti, ma non riesce ad immaginare le sue nuvolette mischiarsi con quelle degli altri, le sue lingue di vapore arrotolarsi con fumi estranei, fare a botte per conquistarsi spazio per salire ed evaporare in santa pace. Annuisce gelosa dei suoi sbuffi di vapore, come se nel loro volteggiare potessero raccontare storie che vuole tenere solo per sé.

Candele e mongolfiere.

Il fatto è che sono un segno di aria, una Bilancia. Il segno della diplomazia, dell’armonia, che ricerca giustizia e bellezza nel mondo. Come se non bastasse, sono ascendente Leone, un segno di fuoco, che si contraddistingue per il coraggio, la sicurezza e una vanità infinita. Quindi se la giornata è buona il fuoco riscalda l’aria e come una mongolfiera elegante e imponente riesco a volare verso orizzonti infiniti, se va male mi capita qualcosa come vedere la fiamma di una candela platealmente spenta dall’aria che si fa agitata e resto al buio, a cercare a tentoni una torcia nell’anima.

Il secondo piano della Asl era completamente vuoto, ma sentivo dei rumori. Il dottor P sta al secondo piano, vada a vedere, mi aveva detto la guardia giurata sulle scale in assetto da combattimento, camicia fuori dai pantaloni, sudore percettibile, mani in avanti pronte a respingere gli attacchi di anziani esasperati. A vedere cosa, mi dico. Qui non c’è nessuno. Decido di seguire i rumori. Nell’ultima stanza trovo un uomo intento a fare pulizie. In genere mi spaventa rivolgere la parola a chiunque lì dentro: l’Asl della mia cittadina è come una sorta di castello stregato avvolto in una nebbia di rabbia, arroganza e strafottenza e tutti ne sembrano soggiogati e alla fine riescono ad intossicare anche te. Ehm buonasera, sto cercando il dottor P, sa se è arrivato? domando con voce sorridente che non so da dove mi esce dal momento che sono ansiosissima. L’uomo si gira verso di me. Spalle curve, pelato, occhi azzurri di cui uno soltanto sembra puntare nella mia direzione. Questo qui mi manda a quel paese, ho pensato. Stava per concludersi il conto alla rovescia nella mia testa quando posa il detergente spray nel carrellino, mi si avvicina e a mezza voce mi dice no, non ancora. Ma ho appena fatto la sua stanza con il tono di chi invece pensa di aver pronunciato qualcosa del tipo da un grande potere deriva una grande responsabilità. Mi dice di seguirlo. Gli sorrido da sotto alla mascherina riconoscente e pronunciando un grazie più allegro di quanto io lo sia in realtà.

Carte, burocrazie, mi mettono ansia. Non c’è nulla di preciso, controllabile, affidabile. Entra nella stanza del dottor P, ancora vuota. Nota che aveva dimenticato qualcosa e mormora che ha fatto bene a tornare. Mi mostra le sedie fuori in corridoio, dice che la gente in genere aspetta lì. Decido di restare in piedi, ho il terrore mi si attacchi addosso quella nebbia mangia emozioni. Dal foglio affisso fuori alla porta con gli orari per il disbrigo delle pratiche noto che sono cinque minuti in anticipo. Lo smartwatch ci tiene a confermarmi che sono agitata con una specie di misuratore di stress. Mi guardo i piedi nei sandali poco alti di cuoio marrone chiaro. Devo somigliare ad una tedesca in vacanza, con i pantaloni grigio chiaro alla caviglia, la camicetta color verde acqua, zainetto e occhiali da sole pure loro vintage come le scarpe. L’uomo esce dalla stanza e fa per allontanarsi quando arriva quello che sembra il dottore. Un tipo alto, capelli bianchi, rasato. L’uomo me lo indica, eccolo è lui e lo segue nella sua stanza a parlare di non so che. Nel frattempo arriva una donna, alta, abbronzata, capelli corti, chiede all’uomo se è possibile aprire i bagni, sembra una dottoressa anche lei. Mi passa davanti senza nemmeno guardarmi. L’uomo si mette a disposizione, prende le chiavi e la fa entrare, poi si gira verso di me e abbassandosi la mascherina mi fa una smorfia che vuol dire è una pesantona, mammamia. Io stavolta ridacchio davvero, non stento a crederlo dai modi e quando mi passa davanti per andare via lo ringrazio e credo non solo per le indicazioni.

Osservo il dottore che si mette il camice e con una lentezza infinita sistema le sue cose per prepararsi a ricevere i pazienti. Cioè me, perché non c’è nessun altro. Nell’attesa mi guardo intorno. Mi rendo conto che la battaglia tra la candela e la mongolfiera sta andando a favore della seconda. Raddrizzo la schiena, sistemo gli occhiali sulla testa. Scrollo un po’ di ansia dalle spalle. Temo un no signorina, non è possibile, non posso aiutarla. Eppure sento un vento che si alza e inizia a farmi staccare un po’ da terra. Fingo per un attimo che in quel camice ci siano altri volti più gentili e sorrido. Immagino i muri tetri che in un racconto potrebbero fare da metafora a qualche stato d’animo e diventare del tutto innocui. Il dottore mi fa cenno di entrare.
Quando vado via scendo le scale veloce, contenta di aver fatto in fretta e con la speranza di non aver perso solo tempo. Sento un piccolo vuoto d’aria nel petto, esco sulla strada. Capita mi dico, quando la paura è più alta dell’ostacolo tanto da coprirlo del tutto e nasconderne l’entità e ci si lancia a saltare da un po’ troppo in alto.

La Notte di Natale

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Prima parte, La Notte di Halloween.

Ho fame. Ho le dita congelate. E questa dannata serratura si è bloccata.
Si sta facendo buio ed è saltata la luce. Mi guardo intorno per cercare qualcosa in camera mia che possa aiutarmi. Mannaggia tutto.
Prendo il cacciavite dal cassetto della scrivania e inizio a smontare la serratura. Sono entrata qui per incartare un po’ di regali di nascosto. Tra poco sarà la Mezzanotte. Questa porta raramente viene chiusa a chiave. Forse per questo si è bloccata. Butto un occhio al balcone. La luce naturale scarseggia. Non ricordo come fosse il tempo fuori quando sono entrata, ma adesso l’aria sembra spessa e bianca. Ho provato a chiamare aiuto quando ho scoperto di esser rimasta chiusa in camera mia, ma nessuno mi ha risposto. Non è possibile che non mi abbiano sentita. Quando la corrente elettrica è andata via è calato il silenzio. Porca miseria. Ho freddo e non riesco a fare forza, lo scrocco è a forma di uncino e si è incastrato. Tiro un calcio alla porta. Provo a bussare e a chiamare di nuovo. Solo il vento tenta una timida risposta.
Mi avvicino al balcone. Le lucine blu e rosse che decorano i balconi del palazzo di fronte sono sfocate. Vado a cercare il telefonino. Nessun messaggio. Per un attimo mi manca il respiro quando mi rendo conto che questa Vigilia lui non scriverà. Mi guardo intorno, ma stavolta cerco con gli occhi un appiglio. Non è colpa mia. In fondo non ci ha messo molto a dimenticarmi. Tra il poco e il niente, voleva che scegliessi per il niente, è evidente. Non posso vacillare adesso. Mi siedo sul ciglio del letto. Gli occhi finiscono di nuovo sulle luci di Natale oltre i vetri appannati della mia stanza. Le imploro di restare lì. Di non andarsene. Almeno loro. Solo un momento, ancora. Finisco automaticamente tra i messaggi di un anno fa. Questo però è rimasto senza mittente.
“C’era qualcosa che volevi stasera. Se ti sbrighi sei ancora in tempo. La notte è appena iniziata”. Qualsiasi persona sana di mente seguirebbe le indicazioni provenienti da messaggi anonimi ricevuti durante la notte di Halloween, come no. Non ricordo nulla di quella notte, solo che presi ad inseguire risate di bambini nella nebbia. Mi risvegliai il giorno dopo nel mio letto. Sul telefono trovai un suo buongiorno. È ancora lì. Era il suo solito modo di rispondere senza rispondere. Sbuffai, ma un calore piacevole come al solito si diffuse dalla mano al cuore. Eppure, chissà, quella volta svanì in fretta. Un po’ come la paura di guardare attraverso la nebbia. Il vento annuisce lasciando oscillare le luci sfocate. Mi alzo. Torno velocemente verso la porta. Tiro forte. La porta si apre. L’albero di Natale in corridoio è acceso. Sento rumori di bicchieri, risate, profumi dolci, una luce calda abbraccia tutto il salone. Questa volta penso che la ricorderò, la magia.

La Notte di Halloween

“E dai lo sai che ti amo”
Stavolta digito in fretta.
“Dici davvero?”
Il telefono resta muto in un tempo sospeso che ormai mi è familiare. Un giorno di questi farò finire tutto questo, penso. La fiamma della candela che abita nella zucca ha un guizzo. Hai ragione. Lo dico e non lo faccio. Tanto s’è capito, spetta a me uccidere questa speranza. Ogni volta questo pensiero abbassa di un tono tutti i colori del mondo, anche se adesso il Sole sta lanciando l’ultimo raggio, il più rosso di tutti prima di sparire nella notte. Ne approfitto per posizionare la zucca sul balcone, cerco un punto che la renda visibile dalla strada. Butto uno sguardo sugli altri balconi e sembra che neanche quest’anno ce ne siano altre. Insomma perché nessuno sente questa magia? La fine dell’estate, la Natura che si addormenta e quel confine che si assottiglia tra questo mondo e l’altro. Come ogni anno mi chiedo come sia festeggiare davvero Halloween, ma alla fine mi limito a lanciare uno sguardo implorante alla mia zucca. Per una volta vorrei davvero provare la magia. Mi stringo nel cardigan, l’umidità diventa troppa per me. Rientro in casa e vado in camera mia. Ho lasciato il PC acceso. Mi siedo alla scrivania per spegnerlo, ma mi fermo a valutare se magari può servirmi per mettere su qualche film di Tim Burton. Percorro con lo sguardo la sagoma nera delle montagne che si staglia su un cielo notturno pieno di stelle d’argento che occupa la maggior parte dello schermo. Il telefono vibra.
“Cercami al confine”.
Il numero non lo conosco. Leggo il messaggio più volte. Cercami… al confine. Confine? Quale confine? E poi chi dovrei cercare? Lui è in linea. Sarà una di quelle frasi che butta lì senza un prima e soprattutto senza un dopo solo allo scopo di suscitare in me una reazione qualsiasi. Si ma perché avrebbe dovuto scrivermi da un altro numero? Ma no, sarebbe troppo un rebus. Di sicuro qualcuno ha sbagliato numero. Torno sulla linea netta che definisce la morfologia delle montagne sul mio PC. Mentre lavoro alle volte provo ad immaginare cosa ci sia oltre. L’idea che ha sempre la meglio sulle altre è che proteggano un paesino, totalmente nascosto dalla loro maestosità. Sento di nuovo vibrare.
“L’hai toccato con gli occhi, sfiorato con la mente. Adesso sono qui, ti aspetto”
Io ho toccato… Cosa? Adesso basta però.
“Scusa, hai sbagliato numero.” Invio. Ecco qua. Lascio di nuovo il PC ad aspettarmi e vado a dare uno sguardo alla zucca. Quante volte mi è capitato di trovarla spenta per una folata di vento improvvisa. Ormai si è fatto buio e caspita, l’umidità è diventata una nebbiolina bassa che offusca la luce dei lampioni in strada. Da queste parti se ne vede solo in inverno già inoltrato. Sorrido, in fondo la nebbia ad Halloween è come la neve alla Vigilia di Natale. La zucca è ben illuminata. Il cielo oltre i palazzi di fronte è sereno e ci sono un mucchio di stelle, più del solito.
“Dai che lo sai chi sono. Smettila di far finta di nulla. Hai fatto una domanda e io qui ho la risposta”
Mi passo tra le mani il telefono come se scottasse. Lui è offline. Ha deciso di farmi definitivamente impazzire? Può essere? L’unica domanda che ho fatto… Insomma, si, ma… Non ha senso. Perché non mi scrive dal suo numero? Ha il telefono scarico? Rileggo i messaggi precedenti. Un confine… Che avrei toccato, immaginato. Beh, nella nostra storia c’è molto di immaginato, su questo non c’è dubbio. Suona il campanello. Sussulto. Arrivo alla porta in punta di piedi e guardo nello spioncino. Ci sono una strega e un vampiro in miniatura. Che stupida, ma dai sono i soliti bambini. Qui nessuno festeggia però i cioccolatini gratis vengono a prenderseli.
-Che belli i vostri costumi! Da dove venite bimbi?
-Da un paesino, lì più avanti dopo le montagne.- Metto un po’ di cioccolatini nelle loro bustine.
-Ah ah. Si… Le montagne. Forse intendet… – non finisco la frase che sono giù di corsa per le scale verso altri appartamenti. Chiudo la porta e faccio un respiro profondo. Che stavo facendo? Ah si, i messaggi. Anche volendo stare al gioco non capisco di che parla. Sono finiti i tempi delle mille congetture, del rimurginare. Basta. Decido che non farò proprio niente a riguardo. Torno al PC, vada per il film. Clicco subito sull’icona di Netflix, non so perché ma voglio coprire in fretta quelle montagne. Inizio ad inserire qualche parola chiave nella barra di ricerca e scorro i risultati. Il telefono vibra ancora.
“Mi ignori, ma sei tu che hai iniziato. C’era qualcosa che volevi stasera. Se ti sbrighi sei ancora in tempo. La notte è appena iniziata”
Fisso quelle parole per qualche minuto. Le domande smettono di affollare la mia mente. Se desideri una cosa poi devi anche riconoscerla quando ce l’hai davanti. E non sempre ci riusciamo. Il cielo, le stelle. I bambini. Devono essere ancora in giro. Forse se mi sbrigo… Infilo gli stivaletti e mi avvolgo in una sciarpa. Metto il telefono in tasca e scendo. La nebbia confonde i dintorni del mio palazzo già dopo il portico appena fuori il portone di ingresso. Distinguo delle figure che corrono dall’altro lato della strada, il movimento accompagnato da risate di bambini. Non ci vedo molto ma cerco di seguirli.
“Eccoti finalmente”.

La pasticceria

foto personale

“Sono rimasta nel traffico. Cazzo è tutto bloccato stasera! Va beh dai, sto arrivando.”

Ho messo le scarpe sbagliate oggi. Non sono adatte per aspettare in piedi, per strada, sui sanpietrini. E tira un vento che porcamiseria, non ho messo la sciarpa e nemmeno il cappello, domenica c’era la primavera, l’avete-vista-anche-voi, vero? E non so che fare adesso. Penso che potrei fare shopping. Entro in un negozio di abbigliamento. Mi sento troppo scocciata perfino per chiedere alla commessa il prezzo di quella giacca. Esco.

Ma si, quella pasticceria all’angolo. C’ha pure i posti a sedere. E’ proprio carina, ti metti lì, ti rilassi e poisaihovishiauialaosh.. La voce nella mia memoria si affievolisce. Non ricordo né dove l’ho sentita né da chi. Il vento continua a tirarmi giù dalla testa il cappuccio del cappotto. Attraverso la strada illuminata dalle luci gialle, bianche e rosse delle auto e proseguo sulla destra fino alla pasticceria. Mi affaccio dentro per vedere se ci sono posti liberi. La signora alla cassa mi invita ad entrare indicandomi l’ultimo tavolino in fondo. Mi siedo sulla poltroncina di pelle grigia chiara davanti ad un tavolino rettangolare che parte direttamente dal muro sotto la finestra alla mia sinistra. Le tende rosse sono raccolte ai lati della finestra e un pilastro dietro la poltroncina di fronte alla mia mi nasconde dal resto del locale. Dal mio posto posso sbirciare la vetrina lunghissima piena di dolci di tutti i tipi e buttare un occhio sulla strada da dietro al vetro che inizia a puntinarsi di gocce d’acqua microscopiche.

Non ho fame e ordino una tisana di un arancio carico che sa di mela, carota e zenzero. E poi, forse, devo essermi suggestionata come un’Alice che legge messaggi su bottiglie e su dolcetti dopo essere finita in una casetta cadendo in un pozzo profondissimo, mentre osservo invece sul talloncino alla fine della bustina della mia tisana la scritta Emozionami.

Pochi minuti e ho dimenticato il vento e il tempo e il vuoto che mi zavorra. Caspita, queste scarpe mi danno un’aria così sofisticata. Che belle le luci della città. Mi trovo in tutti i posti del mondo in un istante. Sono nell’Orient Express che sfreccia veloce di notte chissà attraverso quali terre, in un bar di Londra pieno di persone tutte sole e tutte parte comunque di qualcosa, in un caldo pub in Belgio e anche nel cuore di Napoli, ricordi quel posto? Dicemmo che ci saremmo tornate. E ovunque sto buttando giù idee su fazzoletti di carta con una penna trovata nella mia borsetta. Idee che diventeranno un racconto o magari un romanzo. E sono bella e forte e so stare con chiunque, se capita, altrimenti mi lascio cullare da una calda e sottile malinconia. Riesco a fare quello che mi piace e a non sentirmi in debito con la mia felicità quando faccio invece ciò che devo. Sto bene. Sto così bene.

“Ehi sono quasi arrivata”

L’ultimo sorso di tisana è freddo. Mi alzo, riprendo la borsa e lo zaino, pago ed esco. Una signora mi viene addosso mentre lotto con il vento per rimettermi il cappuccio. Scorgo da lontano le frecce d’emergenza e l’auto accostata al marciapiede. Il sogno si è infiltrato nelle trame della mia realtà e la città sembra più bella anche senza più quel vetro davanti.

Distorsione

Escher

Mentre parla cammina su e giù davanti alla finestra. Non riesco ad ascoltarla: ad ogni passo cadenzato e fintamente casuale le scarpe nere stridono sul finto parquet di ceramica. Devono essere nuove. I pantaloni che indossa sono di una taglia in meno a quella che serve, ma in compenso il maglioncino le cade morbido all’altezza dei fianchi. Ha tutta l’aria di esser diventata qualcosa di diverso prima che avesse il tempo di accorgersene.

In certi momenti tutto sembra darmi nausea. Mi fisso su dettagli inutili che mi fanno cortocircuito lungo la strada che dagli occhi porta al cervello. Alice continua a parlare. Mi chiedo se qualcun’altro in platea nota la distorsione nell’armonia che di solito è invisibile e intrecciata alle cose del mondo o sta davvero ascoltando il suo discorso.

Chissà se alla natura, all’Universo frega qualcosa delle nostre sensazioni. Il disagio e la rabbia assistono impotenti ogni volta che l’aria si ricompone dopo il passaggio di un tuono e mentre il suono si affievolisce disperdendosi disturbando ad ogni metro sempre un po’ meno il silenzio.

La distorsione un po’ alla volta si riassorbe e Alice diventa parte del momento e del contesto. E no, le sensazioni poi dobbiamo rimettercele a posto da soli. L’armonia ingloba, trasforma, cambia sagoma ai pezzi affinché tutto possa combaciare di nuovo. Opporsi significa condannarsi a ferirsi di continuo tra gli spigoli delle cose che prima erano in un modo e adesso non più.

Mi ritrovo che sto ascoltando Alice. Dopo l’impaccio iniziale la sua voce è diventata cadenzata e musicale e attira piacevolmente le mie orecchie. Deve averci lavorato parecchio su. Chissà quali spigoli l’hanno costretta a cambiare. Lo immagino e prometto a me stessa che le mie scelte saranno diverse. Sempre che ci si possa adattare e allo stesso tempo cercare di diventare la persona che si desidera essere.


Il gioco di Cristina

Cristina prende dalla borsa della mamma un cagnolino di peluche e una pallina di gomma trasparente, puntinata solo di brillantini colorati che riflettono in modo diverso la luce facendole assumere ogni istante sfumature diverse. Dalla pallina parte un filo che Cristina lega ad una delle zampine del peluche. Con una mano prende cane, con l’altra tiene il filo della pallina, perché ad una prima verifica non sembra poi attaccato così bene. Cane si sposta volando, portando con sè la pallina tra il divanetto del salone del parrucchiere e la sedia vuota davanti al primo specchio sulla sinistra. È elegante e sembra non accusare il peso della zavorra che si porta dietro. Sarà grazie ai movimenti graziosi di Cristina, penso. 
Ha gli occhi all’ingiù e timidi simili ai miei, ma sono marroni. I suoi capelli sono raccolti in una coda, come i miei, ma i suoi sono dorati e ricci. Lancia uno sguardo a sua mamma: sembra che ne avrà ancora per un po’. Si stropiccia gli occhi. Prende cane e pallina e torna con loro a poggiarsi sul divanetto di fianco a me che aspetto il mio turno seduta. Mi elegge a spettatrice delle sue piccole avventure guardando le mie reazioni. La sua leggerezza mi contagia e le sorrido. Cerco l’espressione del viso più appropiata alle diverse fasi della storia che inventa a braccio. Cristina diventa pian piano padrona del piccolo mondo fantastico che va dal divanetto alla sedia vuota e in pochi minuti ne sono già fuori. Ridacchia da sola ai risvolti buffi delle vicende che lei stessa sta inventando.

Ne resto ammirata. Un tempo sentivo una sicurezza simile alla sua, ma la mia forse era un po’ meno elegante. Concedevo pochi baci e pochi sorrisi. Il mio mondo fantastico si adattava a tutti gli ambienti e poco se ne faceva della quantità e della qualità del pubblico presente. Anzi. 

Il buio è subdolo. Insomma, dipende dall’interpretazione che ne fai. Se lo prendi così com’è allora inizi a credere di dover imparare in qualche modo a volare, con una zavorra attaccata ad una caviglia in un posto che non ha né cielo né terra ma solo vuoti così incolmabili che rischi di implodere in te stessa e speri che avvenga pure in fretta prima che qualcuno ti sorprenda a piangere durante l’orario di lavoro. 

Se disegni una linea, una soltanto, e ne fai il confine tra ciò che esiste e ciò che no, allora ti ci metti su e speri che qualcuno ti sorrida un po’ e che continui a guardarti e ad ascoltarti mentre progetti, disegni, cancelli e riscrivi pezzi di te e della tua realtà ovviamente dal lato giusto di quella linea. Pallina è caduta giù dal divanetto e cane sta cercando di tirarla su con la corda. Sembra un momento difficile.

A volte si pensa erroneamente che nel momento in cui si avrà qualcuno al proprio fianco allora tutto sarà più facile. Le relazioni però non sono idee pure e perfette. Impossibile trovare qualcuno che non ti faccia sentire sola almeno una volta, anche se accade per sbaglio e non si può passare la vita a condannare, distruggere e ricostruire legami e fiducie nel genere umano. Una relazione non è un’assicurazione a vita sul bisogno d’affetto.  

Tuttavia non credo si possa vivere in qualche modo prescindendo da ogni idea di perfezione, come può esserlo l’amore, l’armonia e anche il buio stesso, pur facendo il nostro gioco, da soli, sia che qualcuno ci guardi e ci apprezzi, sia che scelga di restare a giocare per poco o molto tempo con i suoi giochi nel nostro spazio, sia che alzando lo sguardo ci accorgiamo che no, ormai non è rimasto più nessuno a guardare.

La fata che intervistò l’unicorno: l’Intervista, parte 2

[continua da La fata che intervistò l’unicorno  ,  L’Incontro e L’intervista-parte 1]

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-Beh adesso allora capisco che tipo di spasimanti hai! Senti un po’… Tu sei un unicorno social. In particolare utilizzi Instagram. Perché? Insomma, perché la gente dovrebbe seguire un unicorno?

-Non ti passi neanche un secondo per la testa, mia dolce bipede, che possa fare la fine di quegli stramaledetti fenicotteri rosa di questa estate. Io non sono una moda!
Sono social solo perché i tempi lo richiedono. Non dimentichiamoci che sono portatore di verità e non conta il mezzo quanto il messaggio. Ma quanti riescono ad accedere a quest’ultimo? Potrei sembrare schivo , saccente, permaloso, superbo, presuntuoso…
Ma così disse anche la volpe che non era riuscita a raggiungere l’uva.

Gaetano accavalla –si può dire, sì? Anche se è un unicorno?– le gambe e posa il suo bicchiere vuoto sul tavolino. Io mi alzo e a grandi passi giro per il grande salone poco ammobiliato guardandomi intorno.

-Senti Gaetano, secondo me qualcuno lì fuori scuote ancora la testa. Facciamo così. Io di solito quando devo convincere qualcuno che credo davvero in una cosa, ne parlo male. Eh si. Parlo dei suoi difetti. Niente di più reale. Chi ti vende la perfezione di solito vuole imbrogliarti. Dicci il tuo difetto più grande e un motivo per cui le persone non dovrebbero seguirti affatto. 

-Non dovrebbero seguirmi e non lo fanno perché hanno paura di guardarsi dentro. Di abbandonare la grotta delle loro illusioni… Difetti? Che significa?

-Giustamente. Dai, proponimi un viaggio. Qui su due piedi, adesso.

-Penso lei non sappia volare signorina… Oppure si? Perché in tal caso le proporrei un viaggio sul lato oscuro della Luna…

-Mmh ho capito che ti piacciono le citazioni. Vin Diesel in The Fast and the Furious dice che vive la sua vita un quarto di miglia alla volta. E tu? Quanto vai veloce?

-Spazio e tempo sono assiomi creati dall’uomo. Io non ho vincoli. Non dico di essere immortale, non fraintenda… Semplicemente non sento scorrere su di me il tempo…saprebbe dirmi quanti anni ho?

-A occhio e croce diciamo…  Beh, no. No. Effettivamente non saprei.

La smetto di gironzolare e mi siedo di nuovo sul pouf. Con la coda dell’occhio vedo che il bicchiere di Gaetano è di nuovo pieno. M.. Ma come ha fatto? Se io sono sempre stata qui e lui.. Vabé. Osservo i suoi occhi. Ad un tratto è come se fossi anni luce lontana da lui e allo stesso tempo praticamente tra le sue braccia. E’ questo l’effetto che fa il mito infuso nella realtà? Sprigiona un profumo familiare ed estraneo insieme e mi accorgo solo ora che quello di bagnoschiuma ormai è svanito. Come il Bourbon dal mio bicchiere. Ops.

-Quand’è che invece rallenti, ti fermi..? 

-Mi fermo quando vedo violenza. Violenza gratuita. L’uomo è capace di troppo male. Non è come gli altri animali che se attaccano lo fanno per necessità o autodifesa…
Tutto assume dei contorni troppo sanguinolenti. Lì mi fermo e piango. Si dice che le nostre lacrime bevute dalla terra abbiano il potere di far rinascere a vita nuova.

-Sono d’accordo. Ti è mai capitato che fosse la vita a fermarti? E come hai reagito quella volta? 

-Quando ho perso mio padre. Centinaia di anni fa… Provi a fare un salto al Metropolitan di New York. Mia madre ha tessuto col suo crine gli arazzi che voi umani definite “La caccia dell’unicorno”. Beh… Quello era mio padre… E mia madre è morta di crepacuore…Serve aggiunga altro?

Rivolgo di nuovo lo sguardo all’arazzo alla sua sinistra. Allora l’unicorno raffigurato è… Cavolo. Avverto un brivido che mi ricorda la sensazione di spavento e incanto che l’immagine mi aveva suscitato all’inizio.

-Cos’è che ti ispira? 

-L’amore. L’amore è l’unica cosa che può donare vita eterna…

-Scopriti, Gaetano. Qual.. No! No, insomma… Oh! Dicevo… Mostraci come sei.. Dentro. Una paura, un incubo. Cosa turba i sogni di un unicorno?

-I miei sogni in realtà sono salti nel tempo. Rivivo le gesta dei miei antenati. Faccio mie le loro passioni e la mia paura è quella di morire della loro morte ad ogni risveglio.

-E invece qual è il tuo sogno?

-L’età avanza e sento la necessità di dover lasciare un segno del mio passaggio nel vostro mondo. Forse è il caso che inizi a cercare la mia futura ex moglie, madre dei miei… Dodici cuccioli? Pare che come numero abbia portato bene in passato…

-Gaetano e questo invece cos’è? E’ un sogno o è la realtà? 

Mi guarda negli occhi per un tempo che non so definire. Lo osservo anch’io. Ad un tratto mi accorgo che non sto aspettando una sua risposta, ma solo che quest’ultima pian piano affiori da me, stavolta.

Finiamo per ridere. Poi si congeda portando con sé il bicchiere di nuovo vuoto e sparisce alla destra del salone, nella penombra.

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Arazzo medioevale appartenente al ciclo “Caccia all’unicorno” – Metropolitan Museum of Art, New York

Se volete sapere di più su Gaetano, insomma conoscerlo meglio, lui è su Instagram come gaetanounicornonapoletano, OPPURE lo trovate QUI –> Gaetano Unicorno Napoletano
Per info e curiosità scrivete nei commenti 🙂 

 

La fata che intervistò l’unicorno: l’Intervista, parte 1

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[continua da La fata che intervistò l’unicorno  e  La fata che intervistò l’unicorno: L’Incontro]

Con la coda dell’occhio noto un altro arazzo alla sinistra della finta libreria. E’ in stile medioevale e raffigura un unicorno circondato da persone armate. Un tempo antico. La paura dell’uomo davanti a ciò che è diverso. Quell’immagine è spaventosa e attraente. Insomma fa un certo effetto. Come se non fosse già tutto abbastanza misterioso, oltre che fuori le righe. La voce di Gaetano riporta la mia attenzione su di lui.

-Bourbon anche per te.

Poggia un altro bicchiere di liquore ambrato sul tavolino. Ma che c’ha i bicchieri già pronti? 

-Io in realtà preferirei un caffè, ma pure l’acqua va ben..

-Solo liquore pregiato nel mio tempio. Sapori di paradiso. Profumo di… donna.

-Quella è di Al Pacino.

-No tesoro. Parlavo del tuo…

-GAETANO, dunque.

-Dai su, presentati come si deve. I miei lettori a questo punto o mi hanno presa per pazza o sono lì in attesa, curiosi di sapere chi sei.

-Io sono Gaetano, Unicorno Napoletano. Sono sempre esistito. Erano i vostri occhi non pronti ad accettarmi. Sono sempre stato al fianco dei miei bipedi preferiti.

Punta lo sguardo nel vuoto.

-Iscrizioni rupestri … Animali strani. Il nostro rapporto con la comunità umana è sempre stato molto.. stretto. In molti sensi. Purtroppo.

-Da dove vieni? Ti prego non dirmi seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino che ti mollo qua e…

-Non sei andata poi così tanto lontana…
In origine galoppavo nell’infinito spazio-tempo. Poi è nata la luce e il mio corpo ha preso forma. E’ nato il fuoco e mi è stata insufflata l’anima. E il suono …  mmh. Non era che il rumore dei miei zoccoli.
Sono la nota stonata dell’armonia originaria del cosmo, quella suonata dalle stelle quando collidono. Poi è stata la volta del corno… Su per giù quando si è formata la Terra.

-Facci capire. Sei un po’ come Tarzan al contrario? Sei finito nella giungla urbana mentre eri ancora in fasce e poi sei stato allevato da esseri decisamente diversi da te?

-Io sono un umano, ma con qualcosa in più. Tradizionale ed emblematico simbolo di saggezza, l’unicorno nell’immaginario cristiano poteva essere addomesticato solo da una vergine, simbolo di purezza … ma oggi non ci sono più le vergini di una volta!

-Beh ma un unicorno cos’è che fa tutto il santo giorno?

-Io divoro cultura e cammino spesso tra la gente. Mi avvicino alle anime in pena. Cerco di riportarle in vita prima che sia troppo tardi…

-E sei sicuro sicuro di essere l’ultimo unicorno sulla Terra? E se ce ne fossero altri oltre a te? Nemmeno una.. femmina?

-Sono l’ultimo esemplare di unicorno maschio italiano. Sono in contatto con alcune comunità di unicorni in giro per il mondo. Più volte mi hanno chiesto di raggiungerli ma il mio posto è qui…
Ahimé femmine no. Non in Italia. Al momento grazie ai social sono entrato in contatto con una unicorno inglese. Niente male, ma il suo british humor, credimi, fa appassire ogni mia velleità.

Ti è mai capitato di perdere la testa -di unicorno, ndr- per femmine di altre, ecco, diciamo così… Specie? 

Mediamente mi innamoro dalle quindici alle venticinque volte al giorno. La leggenda narra che i miei antenati, per quanto focosi e passionali, usavano addormentarsi sul grembo di una vergine.
Ecco, il problema è che io non riesco a prendere sonno… E non perché soffra di insonnia quanto piuttosto per il mio amore per la.. patata. In sincerità penso che sia quanto di peggio inventato dal vostro Dio. Mi spiego. Non è possibile starle lontano. Per quanto paffuta, barbuta essa sia, non si può fare a meno di venerare tanta perfezione.
Da lì nasciamo e… lì vogliamo far ritorno ogni qualvolta ci sentiamo soli. E indifesi…

-E al contrario? Mai avuto spasimanti? Del tipo tu sei l’ultimo unicorno italiano e io mi prenderò cura di te?

-Le femmine della razza umana sono una cosa incredibile. L’unica cosa al mondo che ancora non sono riuscito a decifrare. E’ capitato spesso che si proponessero di donarsi a me per la sopravvivenza della mia specie… Ma così, per spirito di sacrificio? Continuo a chiedermelo.

-Sinceramente anch’io. Parliamo di cose serie, Gaetano. Viviamo in un’epoca in cui gli uomini hanno paura delle donne e le donne hanno paura degli uomini. Emancipazione male interpretata da un lato, residui di maschilismo bieco ed ignorante dall’altro. Tu cosa ne pensi?

Le donne urlano all’emancipazione e quando ce l’hanno tutto quello che di meglio riescono a fare è risultare una copia sbiadita dei difetti degli uomini. Ma dico… Dove sono finite la dolcezza e l’amor cortese?
Dove è finito il maschio italiano? MI SI RIZZA IL PELO QUANDO li vedo più depilati di una lolita e poi si affannano a  mostrarsi violenti per farsi rispettare. Non concepisco l’idea di gelosia e possesso. Sembra una lotta alla sopravvivenza della loro specie ma non considerano che per riuscirci devono appunto smettere di lottare. Insomma, di cercare un modo per prevaricare sull’altro.

-Mi sembra interessante. Sai l’anno scorso la parola più cercata e di cui si è più discusso è stata “resilienza”. Quest’anno invece sembra sia “empatia”. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi, cosa significano queste parole per te.

-Resilienza? Sono un essere superiore… La mia testa e il mio cuore sono di unicorno, il mio corpo, la mia carne, di umano. Ad ogni battito per me si accende una sfida di sopravvivenza tra le due specie. La lotta genera dolore…
Empatia… Deriva da ‘emo-pathos’ e per me è una maledizione. Gli uomini ci hanno sempre dato la caccia per i nostri corni, per il nostro latte e il nostro sangue, spingendoci ben oltre le soglie di estinzione. Mi sono sempre sempre sentito ospite. La mia diversità ha fortemente attratto ed altrettante volte allontanato. Le persone si avvicinano per curiosità senza mai fermarsi a chiedere cosa ho da raccontare…

-Sei un personaggio mitologico, epico. Con quale dio greco organizzeresti un party sul monte Olimpo?

-Ancora credi a queste cazzate? Gli dei dell’Olimpo non esistono… Tutti sono potenzialmente esseri divini. Solo che pochi lo sanno.

-Ah beh mi hai stupita! Non mi aspettavo una risposta del genere. Una cosa che proprio ti fa girare i.., ehm, gli arcobaleni?

Le puttanelle sapientone. Loro mi fanno davvero girare gli arcobaleni.

-Allora adesso mi odierai… – mi viene da ridere, ma mi sforzo di rimaner seria. -Per dire che qualcosa è impossibile dico sempre una cosa tipo “Si guarda, sta passando un unicorno!”. Per un unicorno invece cosa è impossibile?!

-“Uh guarda. Una donna che dice una cosa sensata…”

-Adesso si spiega che spasimanti hai! Sei forte. Senti un po’… Tu sei un unicorno social. In particolare utilizzi Instagram. Perché? Insomma, perché la gente dovrebbe seguire un unicorno?

Continua …

 

Se vi va di seguirlo, Gaetano è su Instagram come gaetanounicornonapoletano, OPPURE lo trovate QUI –> Gaetano Unicorno Napoletano
Per info e curiosità scrivete nei commenti 🙂 

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La fata che intervistò l’unicorno: l’Incontro.

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[continua da La fata che intervistò l’unicorno]

Quasi quasi me ne vado.

Sarà pure l’ultimo unicorno maschio rimasto sulla faccia della Terra, ma non si fa aspettare così una donna. Tamburello con la penna sul ginocchio destro. Nella mano sinistra ho il foglio con le domande. Ci sono molti scarabocchi. In fondo cosa cavolo gli chiedi ad un unicorno? Che tempo fa tra gli arcobaleni? Se davvero iniziano in corrispondenza di una pentolaccia piena di monete d’oro lasciata lì da uno gnomo di passaggio? Bah.

So cosa state pensando. Cosa cavolo ci fai tu lì, Bloom. Tu hai messo su questa storia. Tu hai parlato di cose divertenti, un po’ folli, forse verosimili. Tra realtà e illusione, fantasia e verità. Adesso sta’ lì e non lamentarti. Lo so. E’ che sono curiosa e la curiosità mi ha portata fin qui. Insieme a voi.

Davanti a me c’è un tavolino basso di legno scuro e dietro un divano di pelle bordeaux. Io sono seduta su un pouf color crema. Scomodo. Appeso al muro, sopra al divano, c’è un arazzo che raffigura una libreria. Insomma, è una libreria finta, disegnata. Per carità, i gusti son gusti. Mi aspettavo profumi esotici. Incenso, vetiver, legno antico. Invece mi arriva al naso giusto una scia di note dolci. Sembra bagnoschiuma da donna. Seguita da una risata femminile. Leggermente stridula, pure. Da quel lato l’ambiente è illuminato ancora meno.

Un fruscio. Uno svolazzo di tessuto liscio, tipo seta. Mi ricompongo.

Eccolo qui! Alla buon’ora. Si siede sul divano bordeaux. Indossa un kimono blu scuro con dei draghi stampati all’altezza del petto. Nella mano sinistra stringe un bicchiere di un liquore ambrato. Scuoto la testa. Quasi quasi la cosa dello gnomo gliela chiedo davvero.

-Carissima Bloom!

-Gaetano…

Ci stringiamo la mano.

-Allora, cominciamo?