Candele e mongolfiere.

Il fatto è che sono un segno di aria, una Bilancia. Il segno della diplomazia, dell’armonia, che ricerca giustizia e bellezza nel mondo. Come se non bastasse, sono ascendente Leone, un segno di fuoco, che si contraddistingue per il coraggio, la sicurezza e una vanità infinita. Quindi se la giornata è buona il fuoco riscalda l’aria e come una mongolfiera elegante e imponente riesco a volare verso orizzonti infiniti, se va male mi capita qualcosa come vedere la fiamma di una candela platealmente spenta dall’aria che si fa agitata e resto al buio, a cercare a tentoni una torcia nell’anima.

Il secondo piano della Asl era completamente vuoto, ma sentivo dei rumori. Il dottor P sta al secondo piano, vada a vedere, mi aveva detto la guardia giurata sulle scale in assetto da combattimento, camicia fuori dai pantaloni, sudore percettibile, mani in avanti pronte a respingere gli attacchi di anziani esasperati. A vedere cosa, mi dico. Qui non c’è nessuno. Decido di seguire i rumori. Nell’ultima stanza trovo un uomo intento a fare pulizie. In genere mi spaventa rivolgere la parola a chiunque lì dentro: l’Asl della mia cittadina è come una sorta di castello stregato avvolto in una nebbia di rabbia, arroganza e strafottenza e tutti ne sembrano soggiogati e alla fine riescono ad intossicare anche te. Ehm buonasera, sto cercando il dottor P, sa se è arrivato? domando con voce sorridente che non so da dove mi esce dal momento che sono ansiosissima. L’uomo si gira verso di me. Spalle curve, pelato, occhi azzurri di cui uno soltanto sembra puntare nella mia direzione. Questo qui mi manda a quel paese, ho pensato. Stava per concludersi il conto alla rovescia nella mia testa quando posa il detergente spray nel carrellino, mi si avvicina e a mezza voce mi dice no, non ancora. Ma ho appena fatto la sua stanza con il tono di chi invece pensa di aver pronunciato qualcosa del tipo da un grande potere deriva una grande responsabilità. Mi dice di seguirlo. Gli sorrido da sotto alla mascherina riconoscente e pronunciando un grazie più allegro di quanto io lo sia in realtà.

Carte, burocrazie, mi mettono ansia. Non c’è nulla di preciso, controllabile, affidabile. Entra nella stanza del dottor P, ancora vuota. Nota che aveva dimenticato qualcosa e mormora che ha fatto bene a tornare. Mi mostra le sedie fuori in corridoio, dice che la gente in genere aspetta lì. Decido di restare in piedi, ho il terrore mi si attacchi addosso quella nebbia mangia emozioni. Dal foglio affisso fuori alla porta con gli orari per il disbrigo delle pratiche noto che sono cinque minuti in anticipo. Lo smartwatch ci tiene a confermarmi che sono agitata con una specie di misuratore di stress. Mi guardo i piedi nei sandali poco alti di cuoio marrone chiaro. Devo somigliare ad una tedesca in vacanza, con i pantaloni grigio chiaro alla caviglia, la camicetta color verde acqua, zainetto e occhiali da sole pure loro vintage come le scarpe. L’uomo esce dalla stanza e fa per allontanarsi quando arriva quello che sembra il dottore. Un tipo alto, capelli bianchi, rasato. L’uomo me lo indica, eccolo è lui e lo segue nella sua stanza a parlare di non so che. Nel frattempo arriva una donna, alta, abbronzata, capelli corti, chiede all’uomo se è possibile aprire i bagni, sembra una dottoressa anche lei. Mi passa davanti senza nemmeno guardarmi. L’uomo si mette a disposizione, prende le chiavi e la fa entrare, poi si gira verso di me e abbassandosi la mascherina mi fa una smorfia che vuol dire è una pesantona, mammamia. Io stavolta ridacchio davvero, non stento a crederlo dai modi e quando mi passa davanti per andare via lo ringrazio e credo non solo per le indicazioni.

Osservo il dottore che si mette il camice e con una lentezza infinita sistema le sue cose per prepararsi a ricevere i pazienti. Cioè me, perché non c’è nessun altro. Nell’attesa mi guardo intorno. Mi rendo conto che la battaglia tra la candela e la mongolfiera sta andando a favore della seconda. Raddrizzo la schiena, sistemo gli occhiali sulla testa. Scrollo un po’ di ansia dalle spalle. Temo un no signorina, non è possibile, non posso aiutarla. Eppure sento un vento che si alza e inizia a farmi staccare un po’ da terra. Fingo per un attimo che in quel camice ci siano altri volti più gentili e sorrido. Immagino i muri tetri che in un racconto potrebbero fare da metafora a qualche stato d’animo e diventare del tutto innocui. Il dottore mi fa cenno di entrare.
Quando vado via scendo le scale veloce, contenta di aver fatto in fretta e con la speranza di non aver perso solo tempo. Sento un piccolo vuoto d’aria nel petto, esco sulla strada. Capita mi dico, quando la paura è più alta dell’ostacolo tanto da coprirlo del tutto e nasconderne l’entità e ci si lancia a saltare da un po’ troppo in alto.

Il numero di gocce di pioggia

picture by idalia candelas

Gli ultimi dieci minuti della pausa pranzo decido di sfruttarli per rilassare un po’ la schiena, dal momento che passo molte ore seduta. Mi stendo sul divano con le gambe sul bracciolo e le mani dietro la testa. Davanti a me la tenda del balcone è aperta per metà e oltre il vetro riesco a vedere un perimetro irregolare di cielo. In parte è occupato da una nuvola che da un lato è tonda, dall’altro è sfilacciata, come se fosse un pezzo di zucchero filato che qualcuno ha appena tirato dal bastoncino.

Quel mattino, presto, ero stata al centro vaccinale. Appena varcato il cancello c’era un gazebo di accoglienza, una signora in divisa con un foglio in mano che chiamava nomi. Gente seduta, in piedi, in fila, al telefono sparsa qua e là. Ero finita in una di quelle scene viste decine di volte al telegiornale. In un attimo mi sono resa conto che nel mentre di questa pandemia prima o poi, in un modo o in un altro si rientra a far parte di uno di quei numeri delle colorate infografiche del Governo. Io stavo per diventare un più uno a quello che conta sedici milioni e dispari di persone che hanno ricevuto la prima dose. Una dose, però di ansia, si è aggiunta a quella che mi ero portata da casa a patto che se ne stesse buona con le cuffie nelle orecchie e senza dar fastidio.
Il concetto dietro ad ogni tipo di vaccino è inverso a ciò a cui siamo abituati. Se stiamo male ci faremmo iniettare qualsiasi cosa pur di guarire. Partire dallo stare bene e assumere qualcosa che potrebbe recarci qualche effetto collaterale sembra folle. Tuttavia come accade con qualsiasi cosa della vita finché non ci capita un contatto con il pericolo non sviluppiamo nulla dentro di noi che serve a proteggerci. Il vaccino fa accadere questa cosa, ed è una cosa intelligente, anche se per i miei gusti dovrebbe farlo attraverso qualcosa che non sia un ago.

La mia ansia in generale non è d’accordo con nessun ragionamento sensato, ma poi quando sono entrata nella saletta di attesa post-vaccino, quella per stare in osservazione un quarto d’ora prima di poter andare via, ero un po’ emozionata. In qualsiasi cosa, seppur confortevole, ben arredata, fossi rinchiusa da un anno a questa parte, avevo iniziato a metterne un piede fuori. Il quarto d’ora è passato in fretta non appena si è seduto un signore di settantaquattro anni vicino a me che ha iniziato a raccontare del vaccino per il colera, passando per un paio di avventure pericolose che gli erano capitate e finendo sugli orari delle medicine che prende regolarmente per la pressione.

La nuvola si muove piano verso destra. Mi chiedo se mai qualche volta possiamo prescindere dalla forma. Prima di prendere appunti pensiamo al quaderno adatto, prima di fare una torta ci preoccupiamo del ruoto giusto. La moltitudine va racchiusa in numeri. Eppure nessuno, nemmeno durante il peggiore dei temporali potrebbe dire con esattezza quante gocce di pioggia cadono libere da quelle forme che creiamo con la nostra mente.

Glicine

La strada a senso unico è stretta, leggermente in discesa e costeggiata da marciapiedi pieni di gente. Sono le diciannove di un sabato di zona rossa che non fa più paura. C’è traffico. Una signora tiene per mano una bambina e insieme salutano un uomo con la mano. Mi fermo quando la signora fa per attraversare, ma la bambina pianta i piedi a terra, come quando uno sa di star sbagliando strada e cambia direzione. Lascia la mano della signora che resta ferma accennando un sorriso e corre verso l’uomo per abbracciarlo.

Vedi che son qui che tremo, parla, parla, parla, parla con me. Ma forse ho solo dato tutto per scontato e mi ripeto: “Che scema a non saper fingere”, dentro ti amo e fuori tremo, come glicine di notte.

Tolgo il piede dal freno e riprendo a camminare. Ho preso l’abitudine a cambiare in continuazione stazione radio finché non trovo una canzone che mi piace. I tragitti sono diventati brevi e a volte mi capita di beccare solo pubblicità fino a destinazione e mi innervosisco. Potrei mettere musica dal cellulare è vero, ma poi non è bello come trovarla per caso.

Scommetto che ora non prendi più l’abitudine di far sempre come vuoi tu e quando arriva sera mi manca l’atmosfera, non è la primavera. Sembra ieri, sembra ieri che la sera ci stringeva. 

Ho letto che quella cosa per la quale si procrastina un impegno o un’attività per poi occuparsene freneticamente all’ultimo momento si chiama ansia ad alto funzionamento. Significa che da fuori sembra che funzioni bene, hai successo, sei precisa e attenta, mentre dentro hai sei un casino di dubbi, domande, incertezze e paure. Paolo Fox dice che è un momento per me in cui le cose vanno bene, ma costano così tanto in termini di stress che alla fine della giornata sono distrutta e a stento riesco a gioirne.

Dietro di noi vedo giorni spesi su treni infiniti, forse è solo che mi manca parte di un passato lontano come Marte. Tu cosa dirai vedendomi arrivare, quando ti raggiungerò?

Insomma, ha ragione. Mi sembra di prendere per la prima volta le misure al mondo e che sia la prima volta che mi guardo allo specchio e mi rendo conto della vita, la mia. Nel tempo libero mi metto a distinguere le mie ansie da quelle degli altri e a smontare i sensi di colpa. Cerco il Sole e l’aria fresca e mi alleno a sentirmi felice.

Ora che non posso più tornare a quando ero bambina ed ero salva da ogni male e da te, da te, da te.

Appunti di quarantena

Sono in fila per entrare al supermercato, intorno a me le persone indossano mascherine di vari tipi e chi non ce l’ha avvolge naso e bocca in una sciarpa di lana sotto i quasi venti gradi di un Marzo che cerca di fare il suo dovere nonostante tutto.
Esce una coppia di anziani, lui zoppica un po’, lei sembra affaticata, portano un paio di buste che sembrano poco pesanti. Una signora chiede ma come, voi uscite di casa, lei risponde che tanto in quarantena ci stanno sempre e la zittisce in fretta. Io che so cosa significa per qualcuno non poter uscire liberamente di casa annuisco tra me e me, mentre sento un paio di sensazioni perdere la strada e fare un pericoloso slalom per non scontrarsi.

La prima considerazione che ho appuntato mentalmente all’inizio di questa settimana è che all’italiano medio è stato chiesto praticamente di condurre per quindici giorni la vita di una persona anziana o disabile, ma anche di uno studente universitario sotto esame e ha quasi dato di matto, tra fughe, paranoie, crisi ed escamotage vari per riuscire lo stesso a mettere un piede fuori casa. Per non parlare del fatto che ci ha messo un po’ a capire che la quarantena andava fatta per proteggere se stesso.

Perfino la TV ha cambiato i palinsesti per poter intrattenere i bambini a casa da giorni, come se fossero delle bombe a mano con la sicura tolta, pronti ad esplodere al primo accenno di noia. Al quinto giorno di clausura sono iniziati i flash-mob per sentirci più vicini a gente di cui nemmeno sapevamo l’esistenza. La sensazione sui social era parliamo per due tre giorni di questa cosa poi la dimentichiamo e passiamo alla prossima come accade sempre e ho assistito pian piano alla conversione di tutti al solo e unico tema Coronavirus.

La prima volta che però ho sentito che davvero si tratta di un momento storico è stato sabato sera, quando mi sono affacciata al balcone e non c’era nessuno. Nessuno, né a piedi, né in auto. Il silenzio mi è piaciuto ma poi dopo pochi secondi ha iniziato ad inquietarmi. Mi sono ricordata di quando da piccola nei miei voli pindarici mentali mi chiedevo come sarebbe stato il mondo senza persone, come le strade sarebbero apparse più larghe e di lunghezza infinita, ma soprattutto mi chiedevo quanto potesse essere divertente andare in autostrada con la bicicletta. Per un istante è sembrato davvero che il mondo si fosse svuotato.

Con il passare dei giorni mi abituo a queste sensazioni, ma soprattutto inizia a piacermi l’estrema calma in fila dal fruttivendolo, i posso entrare, grazie, mi scusi nei piccoli negozi di alimentari, perché sto cercando di uscire a piedi e usufruire delle attività dei piccoli commercianti invece di recarmi nei grandi supermercati, con più gente e più rischio, almeno secondo me. Mi piace vedere le Istituzioni che lavorano sodo, i politici che non litigano. Mi piace l’idea che lo smart working oltre che ad evitare possibili contagi stia anche diminuendo traffico e inquinamento. Mi piace che la TV sia diventata di nuovo davvero servizio pubblico, che non inventa più frivolezze per intrattenere la gente, ma solo aiuta a capire, imparare, a fare da ponte con le Istituzioni di cui spero si possa tornare ad aver fiducia. Mi piacciono i Sindaci che si chiudono negli uffici, anche da soli, a lavorare, lavorare tanto. Mi piace che si sia placata l’ansia di andare, vedere, correre ovunque e mi piace l’idea che in qualche modo ho come del tempo regalato per me stessa, per rimettermi in piedi.

E se è vero che ogni malattia nasce da uno squilibrio degli individui con la realtà che li circonda come la medicina orientale ci insegna, allora tutto ciò significa che qualcosa deve cambiare necessariamente o forse, che questo momento storico ci cambierà, anche duramente e non accetterà se o ma o scuse per uscire lo stesso di casa o per non entrare e guardare dentro di sé.

Quale domani

picture by Drawingfish

La cassiera maltratta i miei funghi pleurotus in vaschetta mentre cerca di far riconoscere il codice a barre della confezione agli infrarossi ormai esausti alla fine di un lungo sabato di lavoro. Guardo i funghi che finalmente rotolano mogi fino a me che li attendo alla fine della cassa con la busta in plastica riciclabile tra le mani.

Ho letto sul web un’intervista a Piero Angela. Diceva che la mia è la generazione che non ha speranza nel futuro. A parte le certezze che mancano, siamo in qualche modo convinti del fatto che domani andrà peggio. A prescindere. La nostra unica certezza è che domani ci sarà una nuova crisi economica, una qualche catastrofe ambientale o semplicemente ci sarà difficile crearci una famiglia, trovare un lavoro a tempo indeterminato, comprare una casa o semplicemente avere ancora un Pianeta su cui abitare.

Esco dal supermercato, spingo il carrello che ha seri problemi a tenere la traiettoria fino all’auto. Si è fatto buio. La mia di speranza lavora a contratto. Certi periodi le va bene e l’Universo decide di rinnovare, altri invece è costretta a stare a casa ma per sua natura cerca lo stesso qualcosa da fare, insomma ne approfitta per mettere in ordine, rinnovare casa qua e là, fare meditazione. Diciamo che non mi chiedo spesso domani come andrà. Cerco di fare il meglio con quello che ho oggi. Eppure quest’ansia generale la percepisco negli altri ed è come un velo che si incastra nei meccanismi delle cose della vita e rende tutto più faticoso.

L’ascensore è ostaggio di una mamma che non riesce a farci entrare i suoi due piccoli maschietti al fine di salire al primo piano. Uno entra ed esce dal vano come un coniglietto Duracell impazzito, l’altro fa le capriole sulle scale. Uno dei due qualche giorno prima mi aveva additata per strada storcendo il nasino al motto di “Tu sei brutta e cattiva!”, così a gratis. Ho provato a spiegargli che forse si trattava di uno scambio di persona ma non ha voluto sentire ragioni. Ho immaginato che forse anche avere cinque anni comporta l’insorgenza di momenti di forte stress.
Se fosse stata un gatto la signora avrebbe potuto afferrarli per il collo e tirarli dentro, ma deve accontentarsi di prenderli per le orecchie.

Il fatto che questi siano tempi duri ci condiziona a pensare a domani, ma non al futuro. Ci teniamo a soddisfare i bisogni prossimi e ci stiamo disabituando a pensare a lungo termine. Altro che fine del mondo dei Maya o Millennium Bug. L’importante è potersi rintanare nelle proprie abitazioni a fine giornata davanti alla televisione da cinquanta pollici. Durante quel paio d’ore dopo cena l’ansia sembra placarsi, sia che siamo riusciti a portare a termine tutti gli impegni della giornata, sia che no.

L’altro giorno però mi è presa fortemente a male. Non avevo voglia di far niente, ma questo mi faceva sentire profondamente in colpa. In più mi sono accorta che davvero le mie ambizioni si sono ridotte a riuscire a rispettare la mia agenda settimanale. Cerco di fare il meglio con quello che ho oggi.
Si, okay.

Non basta però. Sento il bisogno di fare ogni giorno qualcosa che prenderà senso e forma in quella cosa lì che si chiama futuro, di riuscire ad essere costante in qualcosa che non so ancora come e in quale domani sarà.

Diario al contrario

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picture by by Hossein Zare

Questa mattina mi sono svegliata con la voglia fortissima di iniziare uno di quei diari alla Bridget Jones, con tanto di data ad inizio pagina, annotazioni sul numero di chili di peso corporeo, quello di bicchieri di bevande alcoliche consumati -troppi pochi ultimamente, a dire il vero- e una crocetta sui vari single, fidanzata, impegnata, confusa/stato sentimentale non pervenuto. Sigarette no, troppo sporadiche per fare testo.

Lì per lì ho pensato di prendere davvero un quadernino e iniziarne uno, ma mi ha fermata il timore di non essere costante nel tenere traccia di tutte le mie vicende personali, ma forse anche di più quello di esserlo sul serio, di incastrarmi con la mente in schemi troppo severi per quel burlone del caos che ama lanciare il bastoncino di legno sempre più lontano, non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

Insomma, già è lunedì. Poi, c’è che ho dormito male perché ho sognato di persone che mi stanno sulle scatole.

Tra poco vado a preparare la moka per il secondo caffé della giornata.

Ho voglia di cambiare. Sentirmi diversa. Oggi è uno di quei giorni in cui sarei davvero capace di mettere tutto sottosopra, di capovolgere sedie, tavoli e persone, di scuotere libri per vedere se tra le pagine ho dimenticato qualcosa di poco importante, di chiudere porte e finestre, spalancare pavimenti e osservare la pioggia attraverso il soffitto.

Oggi potrei cacciar via tutti i fantasmi che abitano da anni ormai in ogni mio presente.

Potrei perfino sentirmi una persona nuova, una che ha imparato ed è pronta a ricominciare dalle parti più belle di se stessa per andare in posti diversi da quelli che la speranza aveva promesso in mesi e mesi di futili campagne elettorali.

Ho voglia di vivere l’amore dei miei film preferiti, finalmente, ammettendo che forse avevo completamente sbagliato i casting o addirittura i film.

Potrei esplodere, come la freccetta che non riesce a lasciare la mano del giocatore e si sente ingiustamente trattenuta mentre i bersagli si moltiplicano e si spostano tutto intorno a lui presi da una frenesia che è fatta solo di ansia, non di gioia.

E mentre aspetto che questa sensazione parta, lasciandomi finalmente libera, vado a cambiarmi prospettiva. Un attimo e torno.

Il tempo che esca il caffé.

Stato sentimentale non pervenuto. Chili da perdere: quattro. Drink: solo un paio di birre. Diciannove Febbraio 2018.

Short #5

Vorrei soffiare via la nebbia dalle mie risposte e dalla tua pelle e dalle mie mani che si allungano ma toccano ansie informi, oggi, invece che te.

ComeDiari #12: Senza Dubbio

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In fondo quel che ti fotte è il dubbio. 

Quando invece sai, è diverso.

Non ci verrebbe l’ansia uscendo di casa al mattino se sapessimo che, qualunque sia la condizione di traffico e di salubrità mentale delle persone che incontreremo per strada, il treno o l’autobus sarebbero lì ad aspettarci comunque e potremo arrivare in sede in tempo, all’orario giusto.

Nel bene o nel male, quando sai, stai meglio. Almeno, sei più tranquillo. Puoi concederti il lusso di essere consapevole e regolarti di conseguenza. Perfino se è giorno di sciopero.

Perfino se lui non vuole più vederti.

Se non vuole più sentirti.

Se sai, allora finalmente tutto quadra e il dubbio sparisce. 

Capisci.

Non ne valevi la pena. 

Percorrere dei chilometri.

Rispondere al cellulare.

Scrivere un messaggio.

Azioni chiamate pretese nonostante non sia stata tu a chiederle.

Non è molto meglio, invece, sapere? 

Non le farebbe. Cose, così. Per te. 

Quando sai, non ti preoccupi più. Dormi serena e ti svegli concedendoti a colazione il lusso di essere consapevole. 

Il cellulare non squillerà.

Non vibrerà brevemente, nemmeno.

Non dovrai attendere nessun momento giusto.

Non devi prendere nessun treno.

E non c’è neanche sciopero.

Senza dubbio, è così.

 

Cronache Di Un Trasloco #2: Ansia

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C’è una cosa che ho capito ed è che i cambiamenti nonostante si possano percepire come improvvisi in realtà non lo sono davvero, nascono mentre stai prendendo tutt’altre decisioni e maturano pian piano fino a prendere la forma che li rende evidenti.

Eppure a poche ore dal trasloco m’è presa l’ansia.

Forse è una cosa normale e nessuno mi aveva avvertita a riguardo. Forse nasce dal fatto che vecchio e nuovo implodono in un piccolissimo spazio temporale nel quale non riescono a convivere. Si crea un concentrato altamente instabile di ricordi, paure, progetti, speranze, nostalgia, preoccupazioni e soddisfazioni che speri possa volatilizzare al più presto, diluendosi in cieli più sgombri, come se davvero il cambiamento avvenisse in un momento soltanto, nonostante sia cresciuto al nostro fianco giorno dopo giorno.

Se da un lato questa sembra una delle tante trappole della mente, dall’altro credo che certe volte l’ansia la si può sfruttare a proprio vantaggio come spinta propulsiva, energia aggiunta all’entropia che già esiste e costringe a non voltarsi più indietro.

Spero che sarò il più presente possibile tra le vostre pagine, nonostante mi mancherà wi-fi e tempo nei prossimi giorni 😉

Qualcosa Che Sfugge

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Avete presente la pubblicità di trivago, quella in cui c’è il facchino dell’hotel che si innamora della principessa e pensa di aver trovato la donna della sua vita finchè un giorno lei lo lascia con un bigliettino in cui fa riferimento soltanto alla carta da parati della sua stanza? Lui si dispera perché crede di essere stato preso in giro e dice -Pensavo che mi amasse-, invece davvero avrebbe dovuto far caso alla carta da parati sulla quale lei gli aveva scritto il proprio numero di cellulare.

Ecco.

Quella breve pubblicità a me mette una tristezza enorme. Quel povero ragazzo costretto a far i conti con la propria delusione e tutta la sfiducia nel mondo e nelle persone che ne deriverà mentre in realtà gli sarebbe bastato guardarsi intorno un po’ meglio e senza saltare a conclusioni affrettate per continuare a vivere il suo sogno d’amore.

Lo so, è solo una pubblicità e difatti sta lì per suscitare ironia e interesse per il sito web, non di certo per invogliare chicchessia ad inerpicarsi su contorte e strambe riflessioni sulla vita. A me però mette ansia. Un senso di disagio.

E’ anche vero che è sempre stata una mia fissa quella della paura di perdermi qualcosa. Come quando i bambini da piccoli non vogliono addormentarsi e lottano contro il sonno facendo delle smorfie assurde pur di tenere gli occhi aperti. Spesso mi chiedo se abbiamo abbastanza gli occhi aperti, così, da adulti. Ho la sensazione spesso che ci sia qualcosa che mi sfugga, un particolare, una parola che avrei dovuto cogliere e che per magia mi avrebbe restituito il senso di quello che provo o delle cose che accadono.

E’ come essere sfasati rispetto al corso delle cose. Ci sono diverse persone che camminano per strada. Ognuna di loro però si trova in un qui ed ora diverso dall’altra. Colgono tutte gli stessi dettagli? Quel posto suscita a tutte la stessa impressione? No. Come si fa allora ad essere certi di trovarsi nel qui e ora giusto, quello che ci appartiene e di essere sicuri che non ci stiamo perdendo niente, non stiamo facendo la fine del facchino deriso dalla sorte e da una distrazione banale che gli costa decine e decine di fazzoletti più altrettante serate perse ad immaginare quel che non sarà mai?

Io alle volte mi sento così, sfasata e con la terribile sensazione di poter commettere degli errori di quel genere. Specie se poi si tratta di persone e situazioni che mi mancano.

Certo che pure la principessa però, eh.