Il Natale spiegato ad un gatto

L’altoparlante nel parcheggio del centro commerciale gracchia una canzone di Natale e per un momento non sono lì per gli ultimi acquisti prima delle feste, ma sono appena scesa da un treno fermo alla stazione di un paese di montagna imbiancato dalla neve, semideserto perché è tardi e la maggior parte delle persone è già rientrata al calduccio delle proprie case. Tiro giù la valigia e mi incammino in compagnia di quella melodia che si fa più lontana ad ogni passo e delle luci dei lampioni e delle luminarie natalizie fioche per la nebbia scesa dopo l’abbondante nevicata. Prendo le scale mobili e le immagini svaniscono tra le luci forti e il via vai fitto di persone intorno a me.

Al rientro l’ascensore si blocca tra il secondo e il terzo piano per l’ennesima volta e penso tra me e me che non vale più nemmeno quella vecchia citazione che l’unica cosa che va secondo i piani è l’ascensore. Per arrivare al terzo ormai più della metà delle volte devo salire prima fino al quarto piano, poi scendere. In realtà potrei anche fare quell’unico piano a piedi, ma è una questione di principio, specie quando sono carica di buste della spesa. In qualche modo voglio scendere al terzo così come dovrebbe essere. Le prime volte mi attaccavo al pulsante di allarme impaurita e il portiere richiamava l’ascensore al piano terra. Adesso invece quel piano secondo-e-tre-quarti mi sta simpatico. Su cinque piani è proprio lì che deve incepparsi e qualche volta mi perdo ad immaginare che deve esserci un motivo e che magari lì in mezzo ci sia l’ingresso nascosto di un qualche universo parallelo.

Mentre svuoto le buste un nasino curioso viene ad indagare tra i vari prodotti alla ricerca dei croccantini. Guardo la mia gattina e mi rendo conto che siamo terribilmente complicati. Abbiamo bisogno di un mucchio di cose che per lei hanno solo odori strani e sgradevoli. A lei non servono tanti tipi di cibo, detergenti, utensili. Ad un gatto, ecco, non serve immaginare. Ancor meno serve una cosa come il Natale. Al mio piace l’Albero ma solo perché può nascondercisi sotto e le luci proiettate sul soffitto che lo incantano per minuti interi non riuscendosi a spiegare di cosa si tratta.

A gambe incrociate sul divano il pomeriggio di Natale mi dico che se le potessi spiegare questa festa le direi di osservare i silenzi, le luci, quelle di casa o del paesino di montagna innevato o del mondo misterioso dietro la porta dell’ascensore e non fare distinzione tra ciò che sembra e ciò che è e allora avrebbe già riscaldato il buio e starebbe lì tutto il senso, senza bisogno di cercarne un altro.

Dentro, la luce.

Quest’anno ho addobbato casa più del solito. In particolare mi sono dedicata alle luci. Una serie di quelle minuscole a led alimentate a batteria, un proiettore di fiocchi di neve e altri due che mandano in loop sul soffitto del corridoio cuori e puntini rossi e verdi. Avevo preso un tubo di luci per il balcone che però con l’ultima forte tempesta si è fulminato e allora oggi sono andata al negozio vicino casa e il ragazzo indiano che si trova nel reparto luci mi ha sopportata per circa mezz’ora mentre facevo domande su queste e quelle altre serie di lampadine riguardo lunghezza, qualità, tipo di uso. Ho fissato a lungo degli alberi di luci che purtroppo ho scoperto essere solo da interno e una renna della grandezza di un dalmata fatta di un tubo di led dorati. Alla fine ho scelto due serie di luci a led a cascata e una piccola renna di plastica a batterie. L’indiano deve avermi ripetuto almeno tre volte che non è da esterno, ma l’ho avvolta nella plastica e fissata alla ringhiera del balcone meglio che potevo.

Ho cercato di mettere intorno a me quello che ho dentro, nonostante tutto il buio che ho vissuto quest’anno. Non credevo me ne fosse rimasta di luce, almeno così, ecco, adesso, ma come ho sicuramente detto altre volte qui, il Natale serve proprio a questo. E’ proprio qualcosa che ci serve. Non ci si rifiuta di festeggiare perché “adesso si sta male e forse l’anno prossimo andrà meglio”. Insomma cosa meglio di una luce che si accende nel freddo e nel vento e nella pioggia di questi giorni può darci la forza di andare avanti? Basta una candela, sapete, soltanto una candela per farsi calore nell’anima. Io forse quest’anno ne ho presa qualcuna in più e non vedo l’ora di sentirmi al sicuro, domani sera, tra le mie luci e nei pochi abbracci rimasti. E aspetterò Babbo Natale, lo spirito natalizio apparire come un sorriso sui volti delle persone che amo, guarderò le saracinesche dei negozi chiudersi assaporando l’ultimo minuto di lavoro frenetico che è il momento più bello di tutta la Vigilia, mi dedicherò a cucinare le cose buone che finora ho imparato a fare e sarà Natale, silenzioso, dolce, in punta di piedi, Natale.

Il gioco di Cristina

Cristina prende dalla borsa della mamma un cagnolino di peluche e una pallina di gomma trasparente, puntinata solo di brillantini colorati che riflettono in modo diverso la luce facendole assumere ogni istante sfumature diverse. Dalla pallina parte un filo che Cristina lega ad una delle zampine del peluche. Con una mano prende cane, con l’altra tiene il filo della pallina, perché ad una prima verifica non sembra poi attaccato così bene. Cane si sposta volando, portando con sè la pallina tra il divanetto del salone del parrucchiere e la sedia vuota davanti al primo specchio sulla sinistra. È elegante e sembra non accusare il peso della zavorra che si porta dietro. Sarà grazie ai movimenti graziosi di Cristina, penso. 
Ha gli occhi all’ingiù e timidi simili ai miei, ma sono marroni. I suoi capelli sono raccolti in una coda, come i miei, ma i suoi sono dorati e ricci. Lancia uno sguardo a sua mamma: sembra che ne avrà ancora per un po’. Si stropiccia gli occhi. Prende cane e pallina e torna con loro a poggiarsi sul divanetto di fianco a me che aspetto il mio turno seduta. Mi elegge a spettatrice delle sue piccole avventure guardando le mie reazioni. La sua leggerezza mi contagia e le sorrido. Cerco l’espressione del viso più appropiata alle diverse fasi della storia che inventa a braccio. Cristina diventa pian piano padrona del piccolo mondo fantastico che va dal divanetto alla sedia vuota e in pochi minuti ne sono già fuori. Ridacchia da sola ai risvolti buffi delle vicende che lei stessa sta inventando.

Ne resto ammirata. Un tempo sentivo una sicurezza simile alla sua, ma la mia forse era un po’ meno elegante. Concedevo pochi baci e pochi sorrisi. Il mio mondo fantastico si adattava a tutti gli ambienti e poco se ne faceva della quantità e della qualità del pubblico presente. Anzi. 

Il buio è subdolo. Insomma, dipende dall’interpretazione che ne fai. Se lo prendi così com’è allora inizi a credere di dover imparare in qualche modo a volare, con una zavorra attaccata ad una caviglia in un posto che non ha né cielo né terra ma solo vuoti così incolmabili che rischi di implodere in te stessa e speri che avvenga pure in fretta prima che qualcuno ti sorprenda a piangere durante l’orario di lavoro. 

Se disegni una linea, una soltanto, e ne fai il confine tra ciò che esiste e ciò che no, allora ti ci metti su e speri che qualcuno ti sorrida un po’ e che continui a guardarti e ad ascoltarti mentre progetti, disegni, cancelli e riscrivi pezzi di te e della tua realtà ovviamente dal lato giusto di quella linea. Pallina è caduta giù dal divanetto e cane sta cercando di tirarla su con la corda. Sembra un momento difficile.

A volte si pensa erroneamente che nel momento in cui si avrà qualcuno al proprio fianco allora tutto sarà più facile. Le relazioni però non sono idee pure e perfette. Impossibile trovare qualcuno che non ti faccia sentire sola almeno una volta, anche se accade per sbaglio e non si può passare la vita a condannare, distruggere e ricostruire legami e fiducie nel genere umano. Una relazione non è un’assicurazione a vita sul bisogno d’affetto.  

Tuttavia non credo si possa vivere in qualche modo prescindendo da ogni idea di perfezione, come può esserlo l’amore, l’armonia e anche il buio stesso, pur facendo il nostro gioco, da soli, sia che qualcuno ci guardi e ci apprezzi, sia che scelga di restare a giocare per poco o molto tempo con i suoi giochi nel nostro spazio, sia che alzando lo sguardo ci accorgiamo che no, ormai non è rimasto più nessuno a guardare.

Deliri Post-Pasquali

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“[…] Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
[E. Hemingway]

Il fatto che il recarsi in chiesa ogni domenica per essere un buon cristiano fosse un obbligo non mi è mai piaciuto. Ho sempre creduto che servisse qualcosa di più per farlo, come un bisogno, una necessità di qualsiasi tipo. L’idea che ho della religione è abbastanza complicata, ma un po’ si basa su questa idea qui, semplice e logica e negli anni ho cercato di esserle fedele. Le ricorrenze sono alcune di quelle occasioni in cui ci vado, magari per l’atmosfera di festa o anche soltanto per ricordare certi principi che al di là di ogni credo sono sempre validi e coincidenti con quelli delle festività pagane che un tempo erano al posto di quelle religiose che conosciamo di più. La Pasqua, ad esempio, dovrebbe ricordarci che alla fine la luce vince sul buio. Anche questa un’idea semplice, confortante, attorno la quale si possono costruire dei discorsi immensi, usando giri di parole sempre nuovi e diversi.

Questa cosa non valeva per il prete del paese in cui vivevo prima. No. Lui, al momento dell’omelia, ripeteva sempre, ogni benedetto anno, lo stesso discorso. Non credo mancasse di fantasia, anzi, ero arrivata a credere che lo facesse apposta per far si che quei pochi e necessari concetti potessero davvero restare nelle teste distratte di chi, a detta sua, si trovava lì trascinato più dalla coscienza collettiva del paese che dalla propria volontà. Per cui quando la scorsa Pasqua mi sono ritrovata in un’altra chiesa, con un nuovo prete e l’occasione di ascoltare un discorso diverso, sono stata tutta orecchie, in cerca di una sfumatura, un guizzo geniale da portare via con me.

Adesso, ripeto, ci sono tanti modi diversi di spiegare un’idea e altrettanti di recepirla. Quella che non mi aspettavo e su cui spesso sono tornata a riflettere in questi giorni è stata la sensazione di perplessità e disagio che ho provato nonostante il messaggio in generale fosse positivo e rassicurante. In pratica, il cuore del discorso riguardava il dolore fisico e quello dell’anima. Di quanto fossero diversi. Quello fisico ha un limite in quanto il corpo stesso, ad un certo punto sviene, per difendersi. Il dolore dell’anima invece sarebbe infinito, non esiste un limite, un fondo, un meccanismo di sicurezza che interviene al nostro posto per salvarci, no. Ci si deve salvare da soli prendendo coscienza del fatto che essere felici è un diritto. Punto. Tutto qui. Ciò equivale a dire che si possono trascorrere le giornate a pensare che nulla va come dovrebbe o, al contrario, che tutto è esattamente al suo posto o che comunque lo sarà nei tempi e nei modi più giusti. Tutto dipende dal nostro atteggiamento mentale che condiziona tantissimo il modo in cui osserviamo la realtà. Un evento positivo può diventare ai nostri occhi negativo così come può accadere il contrario, per cui se stiamo male, in fondo, è un po’ colpa nostra.

Tutte queste belle cose non sono una novità, spesso se ne perde consapevolezza, ma tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo già sentito parlare. Ricordare che la felicità è un diritto lì per lì mi ha fatta sentir meglio. Poi, si sa, quando viene spinta da un impulso diverso la mente parte, va senza freni tra pensieri impervi e disastrati ed è impossibile fermarla. Mi sono sentita in colpa. Terribilmente. Per tutte le volte che non mi sono salvata e ho preferito pensare a me stessa come la persona che non sono e a quel che non stavo facendo, soffrendo inutilmente.

Non so, forse ci sta anche questo. Rientra nella normalità dell’eterno scontro tra bene e male che avviene dentro di noi ogni giorno prima che in qualsiasi altra parte del mondo, nell’ovvietà del fatto che le vittorie vanno all’uno o all’altro alternandosi e che nonostante tutto la vita va presa con le giuste dosi di responsabilità e leggerezza, sempre. Chissà allora se non esiste da qualche parte anche un certo diritto al dolore, perché come mi disse una persona qualche tempo fa, è inutile crucciarsi quando non si è pronti, per una cosa qualsiasi, fosse pure semplicemente la felicità.

ComeDiari #3 Caro Mondo

Mondo, aspetti mai il semaforo verde un passo giù dal marciapiede e uno appena dietro il primo del gruppo, mentre le auto passano e sai di dover correre perché la tua moby dick ti ha già preceduto, una diversa da quella di ieri, che poi penso chissà quante ce ne saranno, mondo, di moby dick, lo immagini? Una per ogni persona e per ogni giorno dell’anno. Male che vada, s’intende. Uno può rincorrerne anche una soltanto per tutta la vita o cambiarle ad intervalli regolari. Mettiamoci nel caso peggiore e pensiamo ad uno spazio abbastanza grande che le possa contenere tutte, mondo. Con tutto il rispetto eh, ma nemmeno tu basti, mi sa. Forse, nell’universo ci stanno, anche se un po’ strette.
Ce l’hai un sogno, mondo? Io si, l’altra sera profumava di biscotti al burro, ero appena scesa dall’auto e pioveva, tanto per cambiare ed era buio, un lampione mandava luce fioca nel cortile e le gocce d’acqua si vedevano un po’ di più attraverso quell’angolo di luce e proprio lì, in trasversale credo, è passato quel profumo e m’è sembrato di essere felice. Questo week-end penso farò dei biscotti al burro. Ho una tisana che profuma di cannella, adesso qui, vicino a me. Non so perché, mondo, ma ultimamente i miei sogni hanno dei profumi. Di solito avevano un suono. Tenevano stretta una canzone e non la mollavano più finché non ne trovavano un’altra che si incastrava meglio nei loro abbracci. Adesso, profumi. Ho una teoria, mondo. Secondo me si son stufati delle parole. E basta, si, li capisco. Diciamo che ogni canzone riesce a combaciare con il mio cuore all’ottanta percento tipo, salto di gioia, mi segno le frasi migliori sull’agenda, la canticchio o la canto ad alta voce in auto mentre torno a casa di notte e non c’è nessuno neanche per strada, per cui potrei anche aprire i finestrini e urlarti contro, mondo, gridare, sempre più forte, sempre di più e dirti anche che non mi va bene, per niente affatto il modo impertinente con cui mi poni domande o il fatto che se non ti gira non mi rispondi affatto, c’è l’altro venti percento che resta vuoto e diventa asilo di fortuna per pensieri clandestini, quelli che non vuole nessuno perché tu, mondo, hai detto a tutti gli altri di guardarsene bene perché sono pericolosi come ombre affezionate al grigio chiaro dell’asfalto consumato. Allora le persone li cacciano sul fondo di bottiglie di qualunque cosa, purché una volta chiusi lì dentro non diano più fastidio. Ci ho provato, mondo, ma dicono che sia tutta un’illusione. Così alla fine ne ho lasciata metà piena e son rimasta a guardarla, pare c’entri qualcosa con l’ottimismo. E l’ottimismo sembra aver a che fare a sua volta con i sogni.
Ho venticinque anni, mondo, e tu di semafori verdi non me ne mostri quasi mai. Li lasci a lampeggiare come a dire fai te, nel caso fermati e accertati di attraversare nel modo più sicuro possibile, ma non ti assicuro che nessuno ti investirà. E ora che sei una serie di regole infrante mi dici come faccio io ad infrangerne altre per trovare un posto che sia quello giusto? Ti manca una dimensione, mondo. Anzi te ne mancano tante, una per ogni dubbio per ogni uomo per ogni giorno nuovo che inizia. Sei terreno che manca sotto ad un passo incerto e persone che non si voltano più indietro per guardarti ancora una volta. Ti ho chiesto se hai un sogno, mondo. Non mi hai risposto. Eppure son certa che uno ne avevi, da piccolo. Forse sognavi di diventar anima. Sognavi di diventare uomo.

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Non C’è 2 (Novembre) Senza Jack

Che importa dove abitano i santi
dove fanno i loro bei cerchi
guarda che gran firmamento
accompagna una stella.

[Emily Dickinson]

 

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foto personale 31 ottobre 2014

Indovinate chi si è divertita come una bambina ad intagliar zucche, la sera di Halloween 😀

Ne ho lette come ogni anno di tutti i colori su questa ricorrenza che non è nostra, mentre mi chiedevo nostra cosa significa, se ci si riferisce al fatto che nei decenni che ci hanno preceduti non si è mai festeggiato alcunché il 31 ottobre o a quello che per i cristiani le vere ricorrenze sono quelle dei due giorni successivi e non questa. Tralasciando poi la questione pretesto per divertirsi che in fondo non toglie e non mette nulla al senso della ricorrenza in sé per sé perché è di consumismo che si parla, non di altro, del quale si può esser vittime in tanti altri modi pur avendo declinato l’invito al più cool degli Halloween-party, io non riesco a non farmi affascinare da leggende e credenze che possono anche non esser parte della mia cultura ma nelle quali trovo il tentativo di altri uomini e tempi di dare un senso a cose che tutti più o meno percepiamo ancora come misteriose e che spaventano come la morte e tutto ciò che la riguarda.

Ad esempio, come si fa a restare impassibili leggendo la storia di Jack O’ Lantern? Uno un po’ fuori dal perbenismo, pure falso, della società, che in vita s’era diviso tra osterie e lavoretti poco onesti ma scaltro da fregare per ben due volte il diavolo finito poi ad esser rifiutato sia dal Paradiso che dall’Inferno e condannato a vagare eternamente alla ricerca di un posto dove stare alla flebile luce di un carbone ardente donatogli pure con stizza e pietà. Fuori da questo mondo, fuori dall’aldilà, intrappolato in un non luogo che si estende ben poco oltre la sua stessa anima.

Ditemi se davvero sentite così lontana da voi una storia come questa.

Di altri esempi me ne vengono in mente diversi, che con la religione c’entrano poco, eppure hanno radici che affondano in paure che accompagnano gli uomini da sempre e che questa festa che di base ha a che fare con la fine, la morte, la chiusura di cicli naturali, con il buio e il sonno momentaneo della vita sta qui a ricordare.

Ciò che vorrei sottolineare è che perfino restando fedeli a tradizioni  e credenze cristiane, spesso noto che le persone, tra cui mi ci metto anch’io, pur di fronte a delle spiegazioni o comunque indicazioni provenienti direttamente da lassù, fanno lo stesso un po’ come gli pare. Davvero. Si creano credenze nelle credenze, abitudini, interpretazioni che hanno un fascino tutto loro e che esorcizzano in qualche modo il timore, la mancanza dei propri cari, la voglia di sentirsi vicini a loro nonostante tutto.

A me piace osservare. E’ quello che faccio praticamente sempre quando qualcuno della famiglia mi trascina al cimitero. Da piccola mi annoiavo abbastanza, che la maggior parte delle tombe che si andavano a visitare (e ancora oggi, eh) appartenevano a persone che nemmeno avevo mai visto, come i bisnonni, o a stento sentito nominare. Così mi perdevo a guardare quelle degli altri, a leggere epitaffi Tizio qui depose gli avanzi di sua suocera, che “avanzi” forse nel 1800 aveva un’accezione meno offensiva (forse), a guardare foto, immaginare vite, a cercare di ricordare con tutte le mie forze qual’era la preghiera che al catechismo avevano detto avesse a che fare con i defunti e a chiedermi se dinanzi ai loro resti ci fosse qualcosa da dover dire o pensare di più giusto delle mie riflessioni strambe.

Oggi guardo mia madre affannarsi a cambiare fiori, pulire, mettere ordine, badare a dettagli come fossero sfumature del più ampio concetto di prendersi cura, anche di chi non c’è più. Allo stesso modo vedo come si adoperano gli altri. Ognuno a modo proprio. Non credo ci sia scritto da qualche parte come si fa a voler bene. Come si supera il gap che inevitabilmente si crea quando qualcuno va via. Come si riempie il vuoto. Credo però nel rispetto e nella responsabilità che ognuno ha nei confronti dei propri sentimenti e bisogni come fosse una continua ricerca delle risposte ancora non scritte da nessuno, men che meno dentro di noi, alla luce di una candela che può alimentarsi di qualsiasi cosa secondo me, purché sia bella.

*… Paura Del Buio …*

Qualche volta ancora lo faccio. Mi sposto da un punto all’altro della casa, quando è buio, accendendo tutte le luci che mi capitano a tiro, spegnendo di volta in volta quelle che mi lascio dietro. Fa tanto effetto discoteca, e fa tanto anche matta, eh. Magari la cosa più sensata sarebbe accenderne solo una e orientarmi con quella anche nelle stanze più buie. Invece no. Quando mi va, giro direttamente al buio, cercando di non sbattere contro porte e muri. Cercando di prevederne le posizioni un po’ come farebbe un pipistrello. Procedendo sicura, sicura di farmi un livido, si intende.

Come a dire che, o hai paura del buio o non ce l’hai. Non c’è una via di mezzo.

E non è detto che una volta deciso, se avere paura o no, la decisione vale per sempre. Certe volte non vorresti altro che il buio intorno e tiri la coperta su fino ai capelli, altre ti metti a cantare sottovoce passeggiando fino alla metro, di sera, uscendo dall’università, salvo zittirti all’improvviso al semaforo pedonale, dove c’è qualcuno che aspetta con te di attraversare. Certe volte prendi la mano di una bambina e le dimostri che effettivamente nella sua camera non ci sono lupi nascosti negli angoli bui, altre invece giureresti di sentirti osservata mentre porti fuori la spazzatura e l’unico lampione spento della strada è sempre quello fuori casa tua.

Riflettevo su queste cose negli ultimi giorni. Sulla paura del buio. Sulla mia personalissima paura del buio.

Il buio nella mente. Il buio nei giorni. Paura che, mentre ti rechi a svolgere le tue faccende, camminando per strada, tutto intorno diventi vuoto e meccanico. Che una coperta grigia si posi su tutto. Sui palazzi, le auto, gli alberi, sulle nuvole, sul sole, su di te e sulla tua volontà, sui tuoi pensieri e speranze, sulle tue intenzioni, su ciò che sai e peggio ancora, su ciò che non sai. Paura che tutto diventi ingestibile, che ne sfugga il senso. Paura che la testa si ficchi in qualche abisso e non riesca a tornare indietro. Paura di rimanere intrappolata, di diventare prigioniera di se stessa.

Inutile dirsi non avere paura. O c’è o non c’è. Aspetti che quel giorno passi, trattenendo un po’ il respiro. Aspetti che quella coperta si dissolva così come è apparsa. Al massimo capita che, volgendo lo sguardo a terra, scorgi una fiammella abbandonata da un fuoco più grande passato poco prima di te, di accoglierla tra le mani e portarla via. La proteggi dal vento e dall’effetto disastroso della coltre grigia. Non ci soffi sopra per farla diventare più grande. La porti a casa. La lasci sul comodino a riprendersi dalla brutta giornata, le chiedi se ha bisogno di qualcosa per rimettersi in sesto, che può prendersi tutto il tempo che vuole. Tu sarai lì a custodirla. Sarai lì a decidere che domani no, non sarà di nuovo così. Che domani avrà la sua possibilità, mentre la guardi splendere un po’ di più. Tutto sta a te e a darle fiducia. Sai che domani, dannazione, tu e lei potrete essere imbattibili insieme.

Sai che domani porterai a casa un livido, piuttosto. Perchè o hai paura o non ce l’hai. Non c’è una via di mezzo. E senza, non c’è buio che tenga.

*… Back To Life …*

Quando camminiamo fino al limite di tutta la luce che abbiamo, e facciamo un passo nell’oscurità del non conosciuto, dobbiamo credere che accada una di queste due cose. Ci sarà qualcosa di solido su cui mettere il piede, o ci verrà insegnato a volare.

[Patrick Overton]

Silenzio. Solo e soltanto silenzio. Nessuna parola, nessun suono, nessun pensiero. Niente di niente.
Doveva tacere tutto. Zitte le parole scritte sulle pagine che porto con me ovunque. Mute quelle conservate in quello spazio piccolo tra i circuiti e le cuffiette dell’mp3. Anche lui sempre con me, nella borsa. Se ci sono loro nessun posto è troppo freddo o troppo buio o troppo triste. Troppo affollato o estraneo. Da nessun angolo della testa partono proposte di azioni sovversive. E non c’è mai silenzio. Non c’è mai uno di quei cartelli con su scritto stiamo lavorando per voi a scusarsi della mancanza delle solite attività. No. Qualcuno che vaga nei corridoi lo si trova sempre. Un pensiero solo o in compagnia di qualche amica idea balorda. Certi amano passare in schieramenti, ordinati e precisi, qualcun’altro aspetta dietro l’angolo che finisca la parata per godersi un po’ di tranquillità. E per passare senza esser visto. Magari in penombra, con passo felpato. Magari non avrebbe nemmeno chissà cosa da temere, ma adora i film d’azione e non ci si può far niente, solo assecondarlo.

Stavolta però non c’era davvero nessuno. Tutti al sicuro nascosti dietro le loro porte. I corridoi erano deserti. Ampi, freddi e deserti. Lunghissimi. Provo un po’ a controllare ai vari piani. Quando si aprono le porte dell’ascensore sono più o meno tutti uguali, se non ci fosse il numerino luminoso in alto a destra nemmeno sapresti dove sei. Soltanto il ‘meno uno’ è proprio come nei film. Più buio, più desolato, con l’intonaco un po’ staccato dai muri. Nemmeno scendo e premo di nuovo un pulsante a caso dal tastierino.

Mi chiedevo quanto sarebbe durato. Avrei voluto sapere com’è che funziona. Se c’è un segno da aspettare, se c’è un tempo prestabilito o si può fare di testa propria. Perchè origliando vicino alle porte ho scoperto che tutti sapevano quale fosse la prossima mossa. Tutti sapevano cosa fare. Non sapevano quando però. Bel rompicapo.

E avrei voluto sapere com’è che accade. Come appare il mondo dopo. Che si prova in quell’attimo di onniscienza, nel quale ci si guarda dentro, da fuori. Iniziava a fare anche un po’ freddino. Sarebbe durato poco, lo so, perchè quel silenzio si faceva sempre più luminoso. E con la luce arriva il calore. Le ombre fuggono e il tepore sulla pelle sembra quasi un abbraccio. Mi guardo ancora un po’ intorno. In fondo c’è pace e non sembra poi così male, se non fosse che vorrei sapere che diavolo di fine hanno fatto tutti.

Mi scoccio di aspettare e provo a bussare. Hai visto mai che aspettassero un segno proprio da me.
Dopo tutto quel tempo le cuffiette s’erano ben attorcigliate. Premo il tasto play. Il suono fuoriesce timido come il battito di un cuore stanco. Dopo tutto quel silenzio vorrei ben dire… Sembra stonarmi le orecchie già così, ma almeno il silenzio inizia a diradarsi. Anzi, nemmeno il tempo di rendermene conto che si fa giorno. Il sole riappare tra le poche nuvole bello come un sorriso su un viso triste, tra visi amici.

Ormai sono tornati quasi tutti. Le parole dei libri hanno finalmente chi presta loro la voce. Che è perfino un ottimo rumorista. Estremamente versatile, non potrei fare a meno di lui. Tra qualche giorno le attività prenderanno anche un ritmo più serrato. Serve proprio che ci si organizzi.

Eppure qualcosa non torna ancora. Capita che, anche senza volerlo, guardo in un sorriso e in un rocabolesco salto all’indietro rivedo tutte quelle nubi, sento tutto quel silenzio. Capita che ancora mi chiedo com’è che accade. E in quanti modi diversi. Ancora mi chiedo com’è che, ecco, si torna alla vita.

* . . . Come Sei Veramente . . . *

A me non è stato perdonato di essere un sognatore perchè ho fatto un sogno irreverente troppo grande: ho sognato che la musica classica dovesse essere aggiornata, e pur mantenendo le stesse forme, dovesse tornare a parlare per raccontare il presente.
Per inseguire questo sogno ho studiato tutta la vita e mi sono imbarcato nella composizione con una passione da non dormirci la notte. Quando quella musica era pronta e l’ho eseguita, ero emozionato e curioso di sapere cosa ne pensassero.

E sapete cosa mi hanno detto?

“Come ti sei permesso di metterti al livello degli dei? Non puoi neanche dire di essere un compositore…”.

Ma io ho dovuto farlo, ho dovuto inseguire il mio sogno. Allora ho dovuto volare alto e sfidare quegli dei e poco importa che mi sia bruciato le ali come Icaro.

Insomma è stata dura, attaccato, ridicolizzato dai miei stessi colleghi; ho avuto due anni di depressione. Certo, avrei potuto sparare a zero su tutti alimentando così il circolo di negatività, ma non è la mia indole e sono caduto nel buio della mia fragilità. Ma dentro quel buio, dopo due anni ho elaborato la mia reazione inconscia. Ho composto un concerto per violino e orchestra che penso sia molto più eloquente di mille parole messe insieme.

Se le cose stanno così, allora noi dobbiamo amarlo quel buio, dobbiamo amarla la nostra fragilità, perchè è nel buio della crisi che scocca la scintilla del cambiamento e la nostra fragilità potrebbe trasformarsi nella nostra forza.
In altre parole dobbiamo accettare noi stessi con tutti i nostri difetti, le nostre imperfezioni, ma anche i nostri slanci verso i sogni impossibili. E solo se riusciremo ad essere totalmente noi stessi e non ciò che gli altri hanno deciso e si aspettano da noi, la nostra vita sarà un’opera d’arte!

[Giovanni Allevi]

Questo è il discorso che Giovanni Allevi ha fatto all’apertura della scorsa puntata di Amici. Visto che non lo seguo, appena ho saputo della sua partecipazione ho cercato un po’ e ho trovato il video della puntata. Ho fatto caso alle facce di alcuni che lo stavano ascoltando. Stupite dalla sua gestualità confusa e spontanea, quasi imbarazzate da quelle parole che sembrano banali e ingenue e da quella personalità così fuori dall’ordinario, che chi è magari abituato ad apprezzare invece self-control, falsità e look impeccabili spesso pensa questo non ci sta con la testa. Sempre che non pensino invece che è tutto un personaggio montato, falso e che lava il cervello delle persone e in particolare dei giovani (intesi come povere vittime attirate loro malgrado verso forme impure di musica classica) con melodie che pretendono chissà quale importanza, mentre invece non si tratta altro che di musica da quattro soldi. La superficialità e l’ignoranza uccidono questo mondo, altrochè. Per non parlare della petizione che stavano facendo girare nei conservatori italiani contro di lui. Quasi fosse la peste in persona o stesse rubando la sedia da sotto al sedere di quell’Ughi che ha avuto parole per lui che un altro po’ nemmeno un terrorista se le è mai sentite dire. Lui poi gliel’ha messo a quel servizio, perchè ha composto uno straordinario concerto per violino e orchestra.

Una musica può piacere o no, come anche una persona e i suoi modi di fare, è ovvio. E’ anche vero però che nessuno costringe nessuno ad averci a che fare. Le critiche gratuite in stile gente annoiata nelle sale d’aspetto mi danno un fastidio tremendo. Se a me una cosa non piace non spreco le mie energie a parlarne male, soprattutto se non so di cosa parlo. In certe cose c’entrano le emozioni, i sentimenti, energie che senti sulla pelle.

Nel 2009 riuscii ad andare ad un suo concerto di piano-solo, organizzato dal teatro San Carlo, con prezzi dei biglietti ridotti di almeno un terzo rispetto al solito. Piazza del Plebiscito non poteva essere più bella, e la fresca aria estiva contribuì a rendere indimenticabile quella serata. Arrivai quasi due ore prima dell’inizio del concerto, con i miei genitori, approfittandone per una passeggiata. La piazza era quasi vuota ed eravamo fermi a notare il palco e gli ultimi ritocchi agli allestimenti, quando mi girai e vidi da lontano una testa riccia, nera, che si avvicinava. Un’allucinazione, pensai. I miei genitori erano ancora di spalle e non se ne erano accorti. Io guardavo lui e guardavo loro, con occhi sgranati, girando la testa di continuo gesticolando in maniera scoordinata, incapace di proferire parola. Dovevano essersi bloccate tutte da qualche parte nella gola. Non poteva essere vero. I metri di distanza tra me e lui seguito da un paio di cameramen e fotografi diminuivano più in fretta di quanto sperassi. Fossi stata lì un minuto prima o dopo non sarebbe mai accaduto. Finalmente dopo qualche istante che mi è sembrato eterno i miei l’hanno visto. Lui ci vide. Ormai era sulla nostra traiettoria e nn ci volle molto fiato in gola per chiamarlo ed avvicinarci a lui. Emozionato ed incredulo, esattamente come me e non si capiva bene chi ringraziava chi. Nella foto quasi mi abbraccia e sorride sincero, felice. Gli piacqua tantissimo il mio ciondolo raffigurante un drago. Da vicino le persone le senti davvero. La senti la vibrazione di un corpo emozionato, la semplicità negli occhi che ti guardano e in quelle Converse di parecchi numeri più grandi delle tue.
Sentirlo suonare dal vivo fu un qualcosa di indescrivibile. La sua musica creava un’armonia nella quale erano racchiusi tutti i nostri cuori. Compreso il suo. Da un lato l’energia sprigionata dalle sue mani, dall’altro, quella delle anime che lo ascoltavano che culminava negli applausi finali, ad ogni brano (e a tutti i biis…!) che lui abbracciava, simbolicamente, quasi ad accoglierli dentro di sè, per non dimenticarli più.

Un anno dopo venne alla Fnac a presentare un nuovo album. Decine e decine di persone incastrate tra gli scaffali del negozio ad aspettare di incontrarlo. Lui disse che voleva salutare tutti. Tutti. 3 ore di fila….Abbastanza tranquilla però, perchè di lì non sarebbe scappato. Scherzò con mio fratello, sul loro comune bellissimo nome (si sta ancora chiedendo com’è che lo trascinai a quel tour de force visto che lui non lo ascolta), poi baci, autografi, foto… Si dedicò ai suoi fans.
Ecco perchè non mi sono meravigliata alla sua reazione di fronte agli applausi del pubblico in tv. Lui è davvero fatto così. Non finge, non gioca. E’ tutto vero.

Quando sono immersa nei voli pindarici nella mia testa immagino che se davvero viaggiando alla velocità della luce non saremmo altro che energia sottoforma di onde, ognuno di noi potrebbe riconoscersi in un brano musicale, che sta lì, sulla stessa lunghezza d’onda, viaggiando di fianco a noi. Visto però che esistiamo sottoforma di carne, ossa e milioni di bit la musica viaggia, si, come onde sonore e noi stiamo fermi lì ad ascoltare, lasciando che racconti anche qualcosa di noi.
Siamo fermi, già,  ma potrebbe andar bene anche chiudere gli occhi di tanto in tanto, per volare via con lei….

Il fuoco da campo

Scelte. Incomprensibili. Decisioni assurde che escono fuori dai cappelli come dei conigli. Delle volte escono fuori anche dalla cornetta del telefono. Persone che sbucano fuori dal nulla ed altre che nel nulla ci finiscono, giusto il tempo di guardarle un’ultima volta negli occhi.

Non è detto che le persone intorno a te, quelle che sono con te da una vita, quelle che avresti giurato ne avrebbero fatto parte o quelle che in altre circostanze non avresti mai conosciuto, per (s)fortuna direi, facciano scelte che tu possa…. comprendere. Hanno un proprio senso del giusto che non riesci proprio a concepire. E nemmeno riesci a stare semplicemente a guardare e, soprattutto, non accetti parole come rabbia delusione fastidio. Di solito nel tuo vocabolario non esistono, o almeno non in maniera stabile e perpetua,  e ti chiedi ogni volta cose del tipo “perchè mai dovrei iniziare proprio adesso”…

Che si fa allora? Qual è la soluzione?   Te ne freghi, tanto è la loro vita, –che facessero ciò che gli pare tanto non è affar mio– o tenti di comprendere fino a consumare l’ultimo briciolo della tua razionalità? Si, questa è la prima cosa che di solito si fa. Riesce pure magari, perchè le loro scelte dopotutto ti sembrano ragionevoli, che abbiano un senso, anche se tu di sicuro ti comporteresti in maniera diversa. Ma i modi di percepire cose e situazioni son pur sempre diversi. Dunque l’alternativa è fregarsene, ma cosa significherebbe poi? Allontanare quella persona? Mettere un muro, dire -io sto di qua, tu di là, non posso capirti, vai al diavolo tu e le tue fandonie-, far finta che le sue decisioni non ti tocchino, anche se nel frattempo ci stai male, perchè vorresti almeno dirla la tua opinione, farci qualcosa… A furia di allontanare persone, però poi, finisci per perdere completamente di vista il senso della loro presenza nella tua vita. –Il mio senso del giusto, per quanto sia giusto, appunto, non è universale. Non può andar bene per tutti. Quindi non posso pretendere che tutti facciano le cose come le farei io, e io non posso vivere le vite di tutti!– queste parole giravano continuamente nella mia testa…

“CAMPFIRE…”

C’è un gruppo su facebook per rimediare alla momentanea chiusura del forum di Richard Bach. E’ da giorni che nel gruppo si portava l’analogia tra “star insieme, parlando di argomenti in comune” e il sedersi intorno a un fuoco da accampamento, come se durante la giornata, dopo lunghi cammini nel bosco ci si fermi di tanto in tanto a riposare, sedendosi sull’erba e accendendo un piccolo fuoco, attorno al quale parlare e rifocillarsi un po’. Sinceramente non avevo dato molto peso a quest’analogia. Finchè qualcuno, una mattina, scrisse questo:

“Keeping a fire lit in the center and inviting others to share it, but not needing others to enjoy it. That’s a formula for a life well-lived, too.”

E’ stato come trovare l’ultimo pezzo del puzzle. Come se la mia mente, tenendo sempre in primo piano tutte quelle domande, avesse letto la risposta, fatto combaciare tutti i pezzi e archiviato già tutto come “questione risolta”, anche prima che me ne rendessi conto… Come quando vedi un lampo, all’improvviso, e dopo un po’ senti in ritardo il tuono che arriva, a fatica, dopo di lui.

Quelle parole divennero subito immagini, del tipo… 

-Siediti, accendi un fuoco, rilassati e ammira la bellezza di quella luce, tua. Poi inizia a guardarti intorno, vedrai che ci sono delle persone sedute già accanto a te. Altre si alzeranno dopo un po’ per girovagare altrove, altre passeranno senza degnare quel piccolo accampamento nemmeno di uno sguardo, altre si gireranno a guardare, sorridendo, e andando avanti. Altre verranno a sedersi, a volte per guardare un po’ più da vicino, incuriositi, altre perchè avranno trovato ciò che cercavano… Niente menefreghismo, niente presunzione… Lasciar che tutti intorno a te possano guardare quello che sei e ascoltare quello che hai da dire. Magari avranno trovato le loro risposte o degli spunti o nuove domande, o saranno solo parole che di lì a poco o tra qualche anno faranno proprie o forse non ci baderanno affatto. A guidarli sarà il loro senso del giusto, sempre e comunque, che starà lì ogni volta a prendere o a restituire una o più piccole fiammelle, da quel gran bel fuoco.-

Il fuoco da campo.