Più semplice.

Sul gruppo Facebook della mia cittadina oggi si è scatenata una mezza rivolta, alcuni accusavano altri di esser diventati all’improvviso cristiani praticanti soltanto perché la Chiesa è l’unico posto oltre al supermercato dove si può andare in questo periodo, che così facendo non ne usciremo mai, che Dio ci ascolta pure dallo sgabuzzino di casa nostra e così via.

Sarà una Pasqua con pochi simboli. Pare non siano state distribuiti rami di ulivo benedetti, per non parlare dell’acqua. L’altro giorno volevo comprare qualche decorazione primaverile al negozio dei cinesi, come dei rami di ciliegio finti o qualcosa del genere, ma non erano considerati beni di prima necessità ed erano circondati da del nastro rosso e bianco come quello delle scene del crimine. Poco più in là una signora sulla settantina avvolta in un cardigan bianco peloso stava chiedendo al commesso senti, ce l’hai il ruoto per il tortano? Il tor-ta-no. Il commesso aggrottando la fronte le rispondeva ruoto per torta, no?
Il ruoto per il toorta-no.
Si, ruoto, no torta?
E più o meno sono andati avanti così per un tempo indefinito finché la signora non ha iniziato a chiedere del pelacarote stavolta affidandosi a dubbi gesti. Io mi sono regalata un uovo di cioccolata fondente e domani mi infilerò tra ricette, impasti, uova e mattarelli perché certi profumi ti fanno stare bene anche se hai solo, o già, trentanni.

Quando ricordo che si tratta della seconda Pasqua in lockdown non posso fare a meno di pensare che non solo questo della pandemia non è per niente quel problema che l’anno scorso credevamo passeggero, ma che sta lasciando un segno, da qualche parte, non saprei dire bene dove. Forse qualcosa che non ci sembrerà più naturale come prima. Quand’ero piccola e c’era la Via Crucis alla tv mi piaceva la parte in cui ripetevano le cose in tutte le lingue. Sembrava davvero di essere in compagnia di mezzo mondo mentre mia madre impastava il tortano e mio padre tagliava formaggi e salumi da metterci dentro. Tutto il resto della cerimonia lo ascolto ogni anno perché spero sempre di capirci qualcosa, di prendere alla sprovvista quel senso, quella sfumatura che penso dovrei saper cogliere ma mi sfugge.

Quest’anno sono andata alla ricerca delle origini precristiane della Pasqua. Il senso è sempre quello. In tutti i tempi gli uomini hanno cercato di celebrare questo momento in cui la Natura si risveglia, il Sole è più caldo e le giornate più lunghe. Ci sono leggende, dei e dee, uccelli feriti trasformati in conigli che regalano uova in segno di riconoscimento, uova che significano rinascita. Insomma storie semplici che per il momento mi bastano.

Delle storie complesse non ne posso più. Questa situazione di emergenza mi ha aiutata a semplificare. Persone che sono sparite perché si sono accorte di avere una famiglia, altre che erano lì per tutti i motivi fuorché quelli davvero importanti, consuetudini cancellate dalla necessità di distanziarci. Ho tolto chili, delusioni, attese, incomprensioni, abitudini e sto cercando di distanziarmi da altro ancora.

Intanto l’impasto lievita, il che non era scontato. Iuppiii.

Giù dalla giostra.

Ci voleva una pandemia affinché scoprissi diverse verità.

Tipo, nelle circostanze in cui ci ha costretti il lockdown ho scoperto che l’uomo che ho amato per diversi anni non è solo e disperato come raccontava a tutti, ma ha una moglie o compagna o comunque una donna molto importante nella sua vita che lo sostiene nei suoi progetti. Ho capito che per lui ero solo una fonte di rifornimento narcisistico, esistevo per pochi minuti o poche ore, giusto il tempo di assicurarsi che ancora provavo dei sentimenti e non me ne ero andata. Poi lasciava i miei messaggi senza risposte e io finivo puntualmente in un vortice di tristezza che diventava rabbia che diventava senso di colpa che diventava di nuovo comprensione, attenzione e amore. Finché così da un giorno all’altro ho deciso di scendere dalla giostra senza nemmeno salutare. Ci avevo già provato altre volte ma passato poco tempo l’idea di non risentirlo più mi distruggeva. Non potevo immaginarmi senza nemmeno quel poco che avevamo. Non mi aveva mai promesso niente ma diceva di avere dei sentimenti per me e io ne avevo bisogno, ma non mi accorgevo di quanto sacrificassi di me stessa ogni volta.

E’ stato come osservare un animale nel suo habitat naturale e allo stesso tempo chiuso in una gabbia e adesso non so più chi è la persona che riuscivo a sentire sulla pelle e nella mente attraverso una connessione unica, antica e solo nostra.

In compenso so meglio chi sono io. Perché finalmente sento di avere della terra sotto ai piedi, di essere più salda, di riuscire a ribellarmi senza pentirmi, di avere diritti e desideri. Dio solo sa quanto avrei voluto vivere con lui tutto questo. Quanto mi sarebbe piaciuto ancora essergli vicina, trascorrere ore a pensare a nuovi modi di parlare del mondo, che ancora non avevo finito di svolgere l’orizzonte che avevo scoperto con lui.

Dunque ci voleva una pandemia per ricevere le risposte che potevano liberarmi dalle domande che si erano intrecciate nella rete sotto la quale ero finita per tutto questo tempo.

ComeDiari #18: Chilometri di tempo.

Non ricordo il giorno in cui l’ho deciso. Anzi, in realtà non è stata una decisione presa in un giorno soltanto, quindi ricordarlo sarebbe un esercizio inutile della memoria. E’ stato un po’ come quando sei in ritardo alla stazione, il treno è già fermo alla banchina e le porte stanno per chiudersi da un momento all’altro. Allora ti avvicini alla prima, che è l’ultima del convoglio, pronta per salire su. Poi pensi che se affretti il passo forse riesci a raggiungere la porta successiva con il vantaggio di evitare la folla che si è creata in fondo al treno. Arrivi alla penultima porta, ma di nuovo ti stuzzica l’idea che correndo un po’ ce la fai a salire sulla carrozza centrale dove aumentano le probabilità di trovare un posto a sedere. E così via, corri di porta in porta, finché il fischio del capotreno ti ricorda che devi prendere una decisione e salire.

Mi sono ritrovata a correre sulla linea del tempo, di giorno in giorno, senza fermarmi. Non è da me e sinceramente non credevo nemmeno di avere tutto questo fiato. Far mente locale per rendersi conto di quanto fiato sia rimasto nei polmoni è una cosa che di solito fa chi ha deciso da subito quanto lontano vuole andare. Insomma, lo fa chi ha una destinazione. E’ la differenza tra chi viaggia e chi invece scappa e io non avevo idea di dove sarei voluta arrivare.

Ho sempre trovato che la fuga sia un’alternativa tra le peggiori. Sono una che resta fino alla fine, il che però forse dipende più dal fatto che faccio fatica a riconoscerne una e questo è il motivo per cui il mio inconscio ce l’ha a morte con me e mi mette i bastoni tra le ruote in continuazione.

Giorno dopo giorno mi sono accorta di aver messo una distanza tra me e quella brutta sensazione. Una distanza temporale. Quella vera, fisica, c’era già e l’avevo già invano combattuta. Io non mi accorgo nemmeno di quando qualcosa mi ferisce nel profondo. Se me ne accorgo in genere ci metto tempo, altrimenti uso quei cieli neri per appenderci le stelle come più mi piace. Ieri ho fissato un punto azzurro sopra i palazzi della mia città e mi è preso un colpo quando mi sono resa conto che da quel punto l’Universo mi osserva una volta ogni ventiquattro ore e che quindi non è fisso, altroché, il cielo è l’inganno più riuscito della Natura.

La sensazione era ed è ancora che non sarebbe mai cambiato niente.

Sarei rimasta invisibile e incastrata in un eterno eccitante inizio a cui non seguiva niente. Avrei continuato a sperare di vedere, toccare, sentire quella persona così come si era presentata all’inizio. Mi ero ritrovata ad inseguire parole e gesti che esprimevano desideri e sentimenti per me, a dipendere da quelle brevi e intense felicità, intervallate da silenzi lunghissimi, incomprensibili, dolorosi. Mi dicevo ogni volta che forse non avevo usato le parole giuste, che dovevo amarlo meglio. Insomma, che era colpa mia se di nuovo se ne era andato.

Avevo arredato così bene quel cielo che quando sentivo la sua mancanza mi bastava guardare le stelle per sentirmi vicina a lui. Le ripassavo una ad una con lo sguardo, l’avrò fatto decine e decine di volte. Ogni tanto di notte mi capita di risentire la magia che pensavo ci unisse, che lui diceva ci unisse.

Quando mi sveglio però tutte le sensazioni implodono nel petto schiacciate dall’evidenza dell’esperienza. E fa male.

Quando la quarantena ci ha rinchiusi tutti ognuno nella propria tana ho potuto notare che la sua non faceva poi così schifo come raccontava. E la differenza tra ciò che è e ciò che pensavo che fosse si è fatta così evidente che non sono riuscita a fermarmi più. La dissonanza aveva un’unica spiegazione, quel che dice non coincide con quel che è. Lui non esiste. Ho corso ancora e cercando di non guardarmi indietro. In fondo sarebbe stato contro natura restare ancora a lungo immobile nel suo cielo.

ComeDiari #15: Ti Sento

lontananza distanza amore

Non ti penso. No. E’ da un po’ che non lo faccio.
Ti ho già pensato tutto. Ogni punto. Ogni singola parte di te. Dentro e fuori. Presunto e vero. Realtà e fantasia, parole e idee, sogni e telefonate, baci e distanze. Non saprei cosa pensare ancora.

Poi capita che all’improvviso, ti sento.

Come se fossi una continuazione di me. E il mondo ti attraversa e mi arriva e la mia ombra oscilla per qualche istante sull’asfalto, come se cercasse di cogliere anche la tua figura insieme alla mia. Ti sento come se fossi un altro senso con cui scoprire la vita. Non è una cosa che parte dal cervello, ma arriva ad esso e non so da dove parte.
Non so da dove parti.
Ma i desideri e le sensazioni viaggiano, sai, anche se io e te non ci stiamo toccando.


[Questo post è nato un po’ di tempo fa, l’ho ritrovato tra le bozze da poco. Lo pubblico da lettrice, nel senso che avevo perfino dimenticato di averlo scritto. Lo pubblico quasi come se fossi io stessa ad aver bisogno di leggerlo, stasera.]  

 

Le bugie delle verità

illusione inganno distanza realtà

Delle sale d’aspetto dei medici non sopporto quelle riviste lasciate lì sui tavolini mezze sgualcite, con le pagine mancanti e risalenti a mesi e mesi fa. Sembrano un inganno.

Insomma, tu sei lì certamente non per rilassarti. Perché dovrebbe interessarti il colore del vestito che la Regina Elisabetta ha indossato in questa o quell’altra occasione mentre sei lì che ti aspetta la siringa dell’anestesia alle gengive che no, per quel dente non c’è più nulla da fare e ti fa un male cane e deve essere tolto al più presto?

Approfondimenti politici, tagli di capelli dello scorso autunno-inverno, cara posta del cuore, mio marito non mi guarda più, cosa posso fare, la ricetta del pollo al curry con riso basmati che tu rifarai senza curry e senza riso basmati perché non hai tempo di passare al supermercato a comprarli.

-Guarda, qui c’è notizia di TAC con turbo. Capisci? Tu con questa tumore … booom-

Osservo la signora bionda mentre accompagna con movimenti della testa quell’ultima parola. Poi però mi accorgo che di fondo la muove involontariamente a causa di qualche tic. Non capisco bene cosa intende, ma annuisco.

In quella sala d’aspetto oltre alle riviste ci sono dei poster dei luoghi più belli della costa campana. Decisamente lontani in molti sensi. Dalla percezione dell’inganno la mia mente passa direttamente a quella della presa in giro. Lì, al piano meno uno, alla fine di un corridoio che sembra il set di un thriller, illuminato a tratti da luci al neon e sulle cui pareti corrono tubi di diverse dimensioni che portano acqua, gas e corrente al resto dell’edificio ospedaliero, cercano di farti pensare al mare e al sole e al vento che ti mette i capelli in disordine e alle barche da fotografare e pubblicare su Instagram dopo aver applicato un filtro che ne esalti fortemente i colori.

Eppure l’ambulatorio della radioterapia è uno dei pochi posti al mondo nel quale le bugie che ci si racconta sulla vita e sul mondo stesso vengono vergognosamente messe a nudo. Ti rendi conto, lì sotto, di tutte le illusioni nelle quali hai vissuto fino a quel momento. Finiscono distrutte, sì, anche se non prima di aver lottato.

Avvengono delle vere e proprie battaglie di sguardi tra tutti quelli che sono lì ad aspettare. Ho cercato di nascondere il mio ovunque, ma è come se ci fosse una legge non scritta che obbliga prima o poi a guardare negli occhi una o più persone vicine a sé. Mi volto verso la persona che ho accompagnato e capisco che ha dovuto cedere anche lei, nonostante io sia riuscita lo stesso a notare la presenza di quella barriera che alza di solito quando decide che di sé a tutti gli altri non racconterà proprio un bel niente.

La signora bionda ad un tratto inizia a piangere. -Terza volta… Dottore dice… Ancora-.
Una donna molto abbronzata elabora il momento molto più in fretta di chiunque altro e le risponde cercando di consolarla e chiedendole qualche dettaglio in più. Mentre la signora bionda cerca di spiegarsi in una lingua non sua, io non riesco a fare a meno di notare che ha scelto di sedersi lontana da tutti.

Gli occhi e le orecchie sono le uniche parti di me che riescono a superare quella distanza imposta. Insomma, si trova laggiù eppure ha attirato l’attenzione di tutti lo stesso. Mi sento come incastrata e la osservo frustrata come si fa con le nuvole a cui non puoi impedire di esplodere di pioggia perché non puoi in nessun modo raggiungerle.

Da lì in poi le maschere iniziano a cadere, una ad una. La signora anziana alla mia destra parla del motivo per cui si trova lì. Sua figlia e suo genero completano il racconto con informazioni sulle loro vite che sembrano importanti quanto le cose scritte nelle riviste. Pian piano la testa si riempie di immagini e di domande sulle loro vite e sulle loro scelte.

La magia dell’illusione si compie, inesorabile, da sola, una volta ancora.

Cinque minuti del mio Natale

Xmas_lights_DC.JPG

Cinque minuti.

Giusto il tempo di assaggiare l’aria e sentire quanto sa di attesa.

Il mondo è teso, sospeso, come i fili di lucine intermittenti attaccati ai lampioni che si guardano ai due lati della strada.

Siamo tutti come quei lampioni. Ci scrutiamo attraverso distanze di tanti tipi diversi.

Ci tocchiamo con le parole.

Senti. Senti?

E’ una gioia semplice. Non si muove nulla. C’è silenzio.

Poi accendo una candela e allora l’attesa si compone di secondi che si consumano in successione uno dopo l’altro, fino a quando le distanze si azzerano e tutti noi riusciamo a toccarci addirittura con i pensieri.

Adesso però aspetta.

Ascolta.

Io ti sento.

È tutto qui. È quella parte di Natale che è solo mia e adesso conosci ed è anche un po’ tua.

Cinque minuti del mio Natale.

Auguri di vero cuore a tutti voi e spero abbiate “cinque minuti” per raccontarmi qual è il vostro Natale. Non quello condiviso con amici e parenti, ma quello soltanto vostro, il momento in cui sentite il significato, qualunque esso sia, invadervi.

Distanza

distanza

Distanza.

Ultimamente ogni aspetto importante della mia vita, purtroppo, ha a che fare con questa parola. Già di suo sembra avere sempre e comunque un’accezione negativa.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Significa pure però che quella cosa, persona, non la stiamo vivendo. Non è presente nella successione di spazi e di attimi che ci circondano, in alcun modo. Oppure. Non possiamo non ferirci le dita provando ad accarezzare i bordi di un obiettivo che non si incastra ancora perfettamente nei nostri giorni. Robe così.

Nonostante ciò io la distanza non l’ho mai demonizzata. Non mi ha mai spaventata. Forse perché di mio tendo ad uscire dalle definizioni, inventare significati per vedere quanto vanno lontani da soli senza dover correre a sorreggerli e ogni tanto mi guardo intorno attraverso un tulle colorato, di quelli delle bomboniere, per vedere di che colore diventa la realtà. Forse, invece, è perché da piccola ho imparato che non c’era persona amata distante abbastanza da non poter essere raggiunta con un treno o un auto e molti dei miei familiari vivevano dai trenta ai novecento chilometri da me.

Distanza per me non è separazione. Eppure, mi sono dovuta arrendere a quell’evidenza che per tante persone è normalità, per cui non ho avuto scampo. I miei giorni si sono riempiti di quel significato da cui sono fuggita tante volte e s’è preso tutto lo spazio schiacciandomi a terra.

Da lì ho percepito un altro aspetto della questione: la distanza è anche un filtro. Non la si attraversa senza i requisiti necessari. Motivazioni deboli e legami sottili non ce la fanno, soccombono quasi subito. Qualcuno direbbe che è anche una questione di mezzi e di risorse disponibili ed è vero, anche se questo vale solo dal punto di vista fisico. Si può essere vicini anche in altri modi che ognuno può immaginare da sé. Qualcun’altro sosterrebbe che in fondo questa è una cosa positiva: se una persona riesci a sentirla nonostante lo spazio -e magari il tempo- allora un legame c’è davvero.

Messa al tappeto dall’evidenza, dunque, ho pensato di arrendermi. E si. Basta. Tanto è inutile. Le circostanze hanno sempre la meglio. Ci sono rapporti, vite, alberi genealogici interi che si reggono su una o due di loro. Chi sono io mai per rivoltare l’ordine delle cose? Se mi spaventano le circostanze più delle distanze in fondo è un problema soltanto mio. Mi sono piantata lì a terra e ho iniziato a sentire freddo. Dentro. Un freddo strano.

Era trasparente. Limpido. Una sensazione che puliva via tutte le altre così ingarbugliate, dolorose, arrabbiate e tristi insieme. Sembrava libertà. Mi sono sentita come l’estremità di una distanza appena rotolata via chissà dove e di cui riuscivo a vedere solo alcuni tratti che ho capito avrei dovuto percorrere da sola. Mi sono alzata e ho iniziato a fare qualche passo. Non ho idea di dove si trovi l’altra estremità, ma di aspettare e di combattere le circostanze mi sono davvero stufata.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Adesso, però, non ci sono più neanch’io.

C’era una volta, forse domani, oggi no.

happy-ending1

La verità è che uno ci spera sempre.

Ho provato a non augurarmelo, a non immaginarne uno. Impossibile. Il lieto fine è già lì. Alla fine di ogni lunga e contorta successione di vorrei. Aspetta e non gli importa quanto puoi metterci ad arrivare.

Era vicino. Ad un tocco. L’energia aveva riempito la distanza e mi sentivo un tutt’uno con essa, solida, vera. Reale. Avrebbe dovuto portarmi via con sé in un abbraccio.

Le fiabe di una volta non avevano il lieto fine. Più che altro si trattava di una lezione. Ti veniva raccontata quella storia affinché potessi imparare a conoscere e riconoscere pericoli di cui nemmeno immaginavi l’esistenza. La gente non se ne faceva nulla del e vissero tutti felici e contenti. Meglio un insegnamento, un’opportunità per aprire gli occhi e non cadere negli errori costati cari a qualcun’altro.

Un finale, quello, davvero più utile a tutti. Migliore. Senza fronzoli, aspettative, delusioni.

Un finale così non ti chiede se sei d’accordo. Quel che conta è la lezione di vita e non hai modo di ribellarti. Decide per te il quando e il perché è finita. Intorno a te tutti applaudono e si congratulano, ti stringono la mano e ti dicono ancora un’altra dannatissima volta che è meglio così. 

Ti restano l’immaginazione e la speranza per renderti presentabile a qualche nuovo giorno che non smetterà di guardarti di traverso finché paradossalmente non avrai iniziato a raccontargli un altro lieto fine, ancora un’altra volta.

tumblr_nbj4tkcwzw1sec288o1_500

Walt Disney in Saving Mr. Banks

(Guestpost di Novembre su Principesse Colorate, sul lieto fine, tra illusione e speranza, tra il Medioevo e l’era Disney che per fortuna ci ha salvati un po’.)

Meglio Vegani Che Innamorati

tumblr_mvh8flR2pY1qhey0lo1_500

Credo che Papa Francesco abbia parlato dell’amore smisurato che certe persone hanno per gli animali domestici, di molto superiore a quello che nutrono invece per gli altri esseri umani, perché deve aver saputo che ho una zia che ha preso un cane e lo ha chiamato Bianca, in ricordo di mia nonna scomparsa e per avere un’altra Bianca in famiglia, in quanto, evidentemente, io non facevo abbastanza testo per lei.

Anche a me piacerebbe avere un cane o un gatto. Lo chiamerei Stitch se fosse maschio, Lilo se femmina. Peccato però che mia madre caccerebbe di casa sia me che la povera bestia perché ama gli animali, si, purché però si trovino un centimetro più in là della porta d’ingresso.

E’ come dire che l’amore in realtà è un punto di vista.

C’è chi si batte per salvare gli agnelli durante il periodo di Pasqua e poi della strage di tacchini e capitoni che avviene in corrispondenza di altre festività non se ne importa granché. Gli agnelli però sono carini. Da lì si diventa vegetariani o addirittura vegani, eppure in un mondo in cui le zucchine potrebbero essere cancerogene io non affiderei completamente la mia dieta a loro. Credo sia molto più intelligente andare a cercare i prodotti a chilometro zero, le uova da allevamenti non intensivi. Tornare alle abitudini alimentari dei nostri nonni, che mangiavano il pollo soltanto a Natale perché costava troppo.

Comunque la questione è ovvia. Meglio amare gli animali che gli esseri umani perché i primi difficilmente possono deludere. Meglio vegani che innamorati. A livello sociale ed affettivo se ne traggono più soddisfazioni. Si perché l’amore a chilometro zero non esiste e non in termini di distanze fisiche, ma di cammini da compiere dentro se stessi per giungere ad un incontro reale e sincero con l’altra persona. Le relazioni biologiche non possono esserlo a lungo. Prima o poi finiscono per introdursi prodotti di sintesi derivanti da artifici mentali mostruosi. Per dirne uno, la paura.

Il vero guaio, infatti, sta appunto nel punto di vista. Quando lo spostiamo da amare sentirsi amati rischiamo di fare un’inquadratura a vuoto. Possiamo amare gli animali, le persone, chi e cosa ci pare, ma poi? C’è davvero qualcuno che ci preferisce alle proprie pantofole, al proprio porcellino d’India, qualcuno che si improvviserebbe centometrista per correre a fermarci prima di andar via o siamo tutti intercambiabili, come in uno speed date che dura una vita intera?
Se contassimo quanti amano e quanti si sentono amati, in molti alzerebbero la mano soltanto la prima volta.

Perché l’amore è un punto di vista e la realtà non la vediamo tutti con gli stessi occhi.

Il gatto poi ci vede perfino al buio.

*… Abbraccio Senza Tempo …*

Due Ciliegi innamorati, nati distanti, si guardavano senza potersi toccare.

Li vide una Nuvola, che mossa a compassione, pianse dal dolore ed agitò le loro foglie…ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.

Li vide una Tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore ed agitò i loro rami.. ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.

Li vide una Montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore ed agitò i loro tronchi.. ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.

Nuvola, Tempesta e Montagna ignoravano, che sotto la terra, le radici dei Ciliegi erano intrecciate in un abbraccio senza tempo.