#21: Storie di alberi

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Nina si aggira frenetica per casa. Non deve dimenticare nulla. Il caffé l’hanno preso tutti, qualcuno si è già avviato. I fiori finti sono sul tavolo. Le manca di infilare il nastrino intorno al piccolo albero della vita che vorrebbe appenderci vicino, qualcuno le ha mormorato che forse non glielo faranno tenere ma a lei non importa. E’ già tutto così ingiusto cazzo, almeno avrà diritto di mettere dove diavolo le pare quei due centimetri quadrati di legno bianco. Nina cerca le forbici mentre un rumore fastidioso di motore viene da fuori. Chissà cos’è, avranno deciso di tagliare l’erba pensa. Pochi minuti dopo sente un tonfo forte. Corre al balcone e il cuore le va in pezzi. Inizia a balbettare e tremare, a urlare dei no, dei non è possibile. Arriva sua zia che la prende per le spalle e la tiene costringendola a calmarsi, Nina si dimena disperata. Alla fine scoppia in lacrime. Il pino secolare che fino a due minuti prima arrivava con i rami al suo quarto piano giaceva a terra in un modo innaturale. “Era malato Nina, dicono che era malato. Era pieno di parassiti che avrebbero fatto male a tutti” le ripeteva sua zia. Nina si calma anche se la spiegazione le sembra povera e cerca di affacciarsi ma le vengono le vertigini. L’albero copriva il suo balcone alla strada principale e ora si sente all’improvviso completamente nuda. Quei rami le avevano fatto compagnia tante volte, il profumo di pino le arrivava al naso nei giorni di vento, si era distesa a riposare complice di quella chioma e si era divertita a vedere uccellini vari andare e venire da quel folto fogliame ad aghi. Nina pensava che la compagnia di quell’albero fosse una delle cose più belle della casa. Il suo cervello va in loop, non riesce a smettere di ripetersi se ne è andato anche lui e il pensiero a tratti sostituisce, a tratti rafforza quelli che già la affollano riguardo sua madre. Se ne erano andati quasi insieme.
A Nina viene in mente la magnolia nel cortile della vecchia casa. Quando lei era piccola regnava maestosa davanti al balcone della cucina con quei fiori bianchi che sembravano piccole corone preziose. Un giorno tornò da scuola e non c’era più. Il padrone di casa disse che stava rovinando le fondamenta e lei nemmeno ci riusciva ad immaginare come una cosa invisibile come delle radici sottoterra potevano crescere e distruggere la piccola palazzina.
La quercia nel campo di noccioli invece l’aveva buttata giù un fulmine, almeno. Nina ricorda ancora quella tempesta. Era rimasta incollata con il naso al vetro del balcone. La quercia si distingueva bene nel buio e nelle raffiche di vento e di pioggia. Aveva combattuto bene eppure un pezzo di cuore se ne era andato anche quella notte.
Qualche giorno dopo Nina rovistando tra le cose in disordine in camera sua trova una pigna. Sorride e la stringe come se fosse la cosa più preziosa che ha. Era sua, di quel pino, l’aveva raccolta lo scorso periodo di Natale. Prova una piccola soddisfazione nell’aver sottratto alla furia degli operatori comunali almeno quella. La osserva a lungo e le si accendono gli occhi nel sapere e nel promettere a se stessa che un’immagine, un ricordo, una fantasia sempre potrà sottrarre lei dalla furia di qualsiasi tempesta.

ComeDiari #19: Quattro anni dopo

picture by Yaoyao

Nina gira la testa verso il balcone chiuso. Chissà quanto ci vuole a piedi e poi in treno ad arrivare al mare. Ha deciso, andrà sabato. Venerdì sera preparerà la borsa con un asciugamano, un libro e una bottiglia d’acqua. Basta rimandare. Gli orari dei treni, sì, quelli li vedrà direttamente venerdì. Ora basta perdere tempo, gli appunti non si studiano da soli. Un ultimo sguardo al Sole che brilla solo fuori dalla sua stanza. Arriva un tonfo dalla stanza accanto e lei sussulta, non vistosamente, ma il cuore inizia ad andarle a mille. Si sarà fatto male? Nessun altro rumore. Aspetta qualche istante, così magari si risparmia di andare di nuovo a controllare. E se non fa nessun rumore perché è successo qualcosa come l’altra volta? Le trema qualcosa dentro, si alza quasi buttando via la sedia e corre di là, ma a pochi passi dalla porta si avvicina piano. E’ tutto ok, è solo caduta della roba. Entra, la raccoglie e gliela sistema a portata di mano. Torna alla scrivania, dov’era rimasta? Ah si, al Sole. Forse sabato può approfittarne per fare quelle commissioni che aveva rimandato, pensa. Sì dai, l’estate è lunga, al mare ci andrà un altro giorno. E magari una di queste sere va ad ubriacarsi come non ha mai fatto. Anche se non servirebbe a nulla, insomma, facendo mente locale, quale uomo al mondo ha risolto qualcosa facendosi del male? Mettiamo pure che si faccia male, ma proprio per bene. Uccidendo ogni speranza, ogni luce dentro di sé, toccando il fondo. Ecco. Nina è quasi sicura che al mondo sono stati toccati già tutti i fondi possibili. Non è rimasto un solo modo originale di farlo. Ne ripassa a mente alcuni senza accorgersi che nella stanza inizia a farsi più buio. Invece, riflette, è molto più probabile che esista ancora un modo di essere felice che nessuno ha sperimentato mai. Si ripromette che l’indomani si metterà più presto sui libri, ormai si è fatta sera.

Nina alza la testa verso il balcone chiuso. A quell’ora, quando finisce di lavorare, la luce che entra da lì attraversa il living e inonda la sua piccola palestra nell’ingresso come una lingua dritta di fuoco. Sembra che il Sole offra una specie di sentiero a lei che pedala da ferma e la proietti direttamente fuori. Il cuore inizia ad andare a mille e lo legge bene sullo smartwatch al polso. Nelle orecchie la musica copre qualsiasi rumore, anche quello un po’ cigolante dei pedali che avrebbero bisogno di un po’ d’olio. Muove le labbra sulle parole straniere che la inebriano. Accelera sempre di più, abbassa le spalle come se dovesse tagliare meglio l’aria. Tenta di seguire gli intervalli del ritmo tabata che si è data, quaranta secondi di sprint e dieci di recupero, ma questi ultimi alle volte se li scorda quando arriva la canzone che la scatena più di tutte. Quella che la fa sentire bella, forte e selvaggia. Le gambe nemmeno le fanno male, saranno dolori dopo, ma non le importa, anzi. Saranno il segno che ha faticato per bene. La lingua di fuoco diventa tutte le strade del mondo, sono tutte lì davanti a lei. Niente le sembra più impossibile. Le passano i nervi, le paure, i dubbi. Il benessere la invade come una droga, sempre lì, sempre disponibile, bastano le cuffie, i suoi pesi e le scarpe da ginnastica.
Dopo si metterà sui libri, ormai si è fatta sera.

Soglia alta.

Story of Yaoyaomva

Il dottore si alza dallo sgabellino e sorridendo si avvicina al pc. Diciamo che non vado mai esattamente di buon umore dal dentista, ma avverto un particolare moto di intolleranza invadermi da capo a piedi quando mi dice che ha apprezzato la mia autoironia quando al suo annuncio che a breve avrebbe anestetizzato il nervo del mio dente irrimediabilmente cariato ho risposto mogiamente si, fa molto male, lo so. Come l’altra volta. Avrei voluto dirgli che ero rassegnata, non ironica, mentre cerco di placare la mia rivolta interna stringendo il fazzoletto di carta che ho tra le mani.

Guarda la radiografia al pc e sbarra gli occhi. Dice che non riesce a capire come io non provassi alcun dolore nonostante una carie così. L’intervento sul nervo si è reso necessario dopo un tentativo di curare la carie andato male, il dentista dice che prima o poi avrei provato un dolore lancinante ugualmente, ma in quel momento ne avevo altri di nervi a fior di pelle al pensiero che prima della cura mi sentivo praticamente bene.

Continua a guardare la radiografia indicandomi con il dito l’estensione del “danno”, quando mi dice che devo avere una soglia del dolore alta altrimenti il fenomeno non si spiegherebbe. Lì per lì dentro me la rivolta ha lasciato posto ad una timida soddisfazione, ma ho continuato a pensare a quella frase anche nei giorni seguenti.

Mi sono detta in generale quanti dolori si adattano, aderiscono così bene alle forme delle nostre vite e per quanto sembri banale dire che finiscono per farne parte in realtà accade che si danno loro altri nomi, spiegazioni, stanno lì sul mobile vicino al televisore, in borsa o addosso e mai se ne prende almeno uno da parte per chiedergli chi sei? Sul serio, da dove sei spuntato fuori? Poi qualcuno per caso li chiama con il loro nome, ci si rende conto che non è normale, per niente normale accettare quel tipo di parole o di comportamento o quella situazione o quel male fisico e allora iniziano gli sguardi di traverso, i sospetti e si inizia a pensare a come liberarsene senza però urtare la loro suscettibilità, piano piano, in silenzio, non sia mai che decidano di mettersi proprio di traverso e farci ancora più male.

Forse è perché in qualche modo siamo finiti per adattarci noi a loro, abbiamo spalmato le nostre abitudini, le nostre reazioni, le nostre scelte su di loro per non sentirne le durezze e non farci male, incastrandoci negli spazi che ci hanno concesso e costruendo lì le nostre giornate, fissando da lì i nostri obiettivi.

Insomma si dice che il dolore serve a proteggerci, quante volte però ci accontentiamo di restarci dentro più del tempo necessario a scampare il pericolo? E che succede se finiamo per alzare troppo quella soglia?

Come si affronta il drago

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Giro la testa ovunque intorno a me. I miei occhi cercano una fonte qualsiasi di distrazione a cui aggrapparsi per non cedere. Non ora, mi dico. Non posso. C’è lei.

La mia ricerca si arresta con lo sguardo sulla statua di San Giorgio in alto alla mia destra. Insomma, ho sempre saputo fosse lì, la statua, non mi aspettavo piuttosto che stesse lì anche la soluzione al mio problema. Almeno in quel momento. Mentre il prete parla di non ricordo cosa avesse a che fare con esistenza e amore, le sue parole si stavano avventurando pericolosamente verso dei tasti dolenti dentro me. Un attimo ancora e con ingenuo savoir faire li avrebbero pure pestati.

Forse è perché alla presenza di un piccolo essere umano ci si sente in dovere di proteggerlo, anche da se stessi, e quindi ho cercato istintivamente qualcosa che fosse un’arma.

E per fortuna lì vicino ce ne era una tra le mani di San Giorgio.

La scena è balenata nella mia mente in pochi secondi. Ho immaginato di prendere la lancia chiusa nella teca con il suo proprietario e di scagliarla contro il dolore che stava per esplodermi dentro.

In genere si dice basta un po’ di autocontrollo e di solito funziona. Che succede però se un giorno ci si chiede se c’è qualcosa di più oltre a quello, un potere più grande, un’altra possibilità, un’opportunità diversa di affrontare tutto e in particolare loro?

Loro, i nostri draghi.

Se l’opportunità fosse scegliere?

Scegliere di non sentire dolore, scegliere di accenderci la luce dentro, scegliere di alzarci più presto o più tardi, scegliere di sorridere, scegliere di non prendercela troppo, scegliere di riprovare e di non dar peso ad un fallimento. Scegliere di essere più leggera. Scegliere di infrangere una regola, scegliere di non andare a guardare tra i brutti ricordi, scegliere di essere libera dal passato e di non ragionare per conseguenze, scegliere di essere allegra e scegliere di essere triste senza sentirmi in colpa.

Scegliere di liberare la testa e iniziare a leggere un libro, scegliere di liberare il cuore e amare me stessa.

Il piccolo essere umano si gira verso di me, sapevo che a quel punto l’avrebbe fatto, gli rispondo con un sorriso sicuro, va tutto bene.
Il drago annuisce, dice che va a farsi un giro e di fargli uno squillo se serve. In fondo i tempi sono cambiati, nulla togliere a San Giorgio, ma qui tra poco non ci saranno nemmeno più gli animali nei circhi, figuriamoci i draghi morti negli articoli dei blog.

Attraverso quel punto

Insomma, non lo so.

Non lo so come si fa.

Guardo questa pagina bianca e mi dico, non lo so.

Come si fa a guardarsi dentro e tirare dalle trame dell’anima qualcosa che abbia vagamente senso dopo, ecco.

Dopo la morte.

Tipo, come funziona adesso quella cosa per cui ad un certo punto mi fermo e mi metto a scrivere una o due ore durante la giornata? Ammesso che ci riesca, guardando il mondo, cosa ci vedo adesso? Servono tutt’altri perché e percome a sorreggere la realtà, adesso.

Mi sembra dissacrante legarmi con le parole alle mie sensazioni, come se mi cucissi ad una realtà che ora so può svanire da un momento all’altro.
Perché forse l’unica domanda alla quale vorrei risposta è dove sei adesso, cosa stai facendo? E la risposta non appartiene a questi spazi e a questo tempo. Mi sembra altrettanto stupido costruirci intorno castelli di parole che non arriveranno mai nemmeno a sfiorare il cielo.

Se tutto cambia affinché non cambi nulla, allora dovrei riconoscere sempre un punto in mezzo al tutto che è sempre lo stesso, qualsiasi cosa accade. Lo stesso punto da cui si nasce e si muore. Quello attraverso il quale tu mi hai portata due volte, quello per cui passa quel filo che ti ho promesso sarebbe rimasto sempre uguale e sempre nostro.

E mi sento come nata di nuovo in una nuova consapevolezza del mondo.

Oggi specchiandomi nella postazione del parrucchiere mi son vista finalmente trentenne e ho dovuto lottare con una lacrima che stava per sfilare proprio lì davanti a tutti. E ho capito che volermi bene è un modo per continuare ad avere cura di te.

E’ stato come cercare di trattenere l’acqua con le mani.

E se la vita può andar via così, prima di aver finito di fare tante cose, prima di aprire quella scatola di cioccolatini o aver indossato quel vestito nuovo, prima di aver festeggiato o lavorato o pianto per quelle altre battaglie, allora che stiamo a fare qui? Insomma, deve continuare da qualche altra parte. Devi esser saltata in un’altra realtà. Una in cui non esiste il tempo o lo spazio o magari tutti e due. Si perché questo spazio-tempo deve avere dei confini molto più sottili di quelli che immaginavo, anzi, che non immaginavo. No, perché uno non ci pensa mai alla morte. Non sta né sulla lista della spesa, né su quella dei documenti da presentare per il 730, né tra le possibili destinazioni di una vacanza e nemmeno tra gli annunci di lavoro. Invece fa parte della vita e ho come la sensazione, forte, che risieda lì un qualche profondo senso di libertà, felicità e di vita.



Il filo.

Stasera ho bisogno delle parole. Ne stendo un po’ intorno a me e poi mi ci infilo sotto, a cercare un po’ di calore. Va bene, penso. Forse di domenica sera le leggi del cosmo chiudono un occhio e mi lasciano in pace. Anche se ormai mi sto abituando a stare fuori dalle cose. Non fa poi così freddo.

E’ stato più che altro un bisogno. Eliminare. Togliere. Nessuno mi guarda. Bene. Lo dico. Qui, in questo universo, siamo solo crudelmente costretti a creare e distruggere illusioni. Non c’è nient’altro da fare. Sono giorni che ci perdo la testa su. Allora ho provato a smontarlo, questo mondo. Un pezzo alla volta. Ho tolto ogni gioia e ogni dolore. Ogni sogno inutile. Le aspettative e tutto ciò che sembra grandioso e fantastico finché non lo fai e ti accorgi che non è poi sto granché. Ho tolto l’amore. Quel poco che abita nella mia vita. Ho tolto la tristezza. Non serve. Farsi del male sembra una via d’uscita ma richiede fatica ed è solo un’attività figlia di una distorsione del senso del piacere.

E’ rimasto un filo. Un capo parte da me. L’altro non riesco a vederlo. Non si capisce bene. Sembra che serva a far muovere le gambe. I pensieri. Non lo so dove sto andando. Devo capire però cos’è questo filo. Di cosa è fatto.

Va bene così, per stasera. Nessuno mi guarda. Allora resto ancora un po’ qui.

Persone sbagliate

OrphansOfTheHeartFeature

Amanda Cass

“Marì? Marì! E mo basta. La devi finire. E no, no Marì. La devi finir.. No, no. La devi finire. Basta. Basta Marì. Non è possibile. La devi finire. No. N.. Si. Si, ma la devi finire! Basta! Bast.. Ah. Dovevo chiamarti io? Ah. Eh. Eh, Marì! Ma pensi che sto giocando?! Sto andando a lavoro! No. No. Vabbuò, cià.” 

Ha posato il cellulare nella tasca dei pantaloni e poco dopo è sceso dal treno. Maglia beige, pantaloni verde militare. Una trentina d’anni, occhiali da sole rotondi.

Chissà, lui e Maria forse stanno insieme. Magari poi Maria è davvero rompipalle oppure, lui è un bel po’ esaurito e basta. Può darsi che avevano litigato già poco prima e quindi i toni erano accesi per questo, oppure è così praticamente ogni giorno: ogni mattina, ogni volta che lui esce di casa, Maria va in apprensione. Allora aveva chiamato non per far pace, ma solo per placare la propria preoccupazione. Molto probabilmente gli aveva chiesto di farsi sentire e lui quella mattina l’aveva dimenticato oppure è solo strafottente e ritiene sia superfluo tenerla aggiornata sui suoi spostamenti quotidiani.

Quella breve conversazione poteva avere decine di significati, è vero. Quel che mi è rimasto nella testa appena la sua figura è sparita al chiudersi delle porte automatiche del treno però è una forte sensazione di sbagliato.

Sbagliato, sì. Cosa però?

La telefonata? Il suo tono? Le parole, forse. Non so. Poi, mentre mi chiedevo queste cose, mi è venuto in mente persone. 

Persone sbagliate.

Persone che non vanno d’accordo o che fanno sforzi immensi per riuscirci. Persone incompatibili tra loro o stufe l’una dell’altra. Persone che si sono conosciute da poco e al momento del primo incontro una delle due ha sentito quel pizzico alla guancia da parte dell’intuito che voleva così suggerire di sorridere un po’ in meno e diffidare un po’ in più. Ha ignorato quell’avvertimento e ora si chiede come e quando ha cominciato a sopportare e non apprezzare, dire scusa e non grazie, cercare aria e non soffocarla in un bacio inaspettato e non chiesto.

Persone che hanno livelli di empatia troppo diversi. Una delle due sente troppo, l’altra non sente niente. La prima si chiede in continuazione dov’è che sbaglia, la seconda non sa e non vuole sapere cosa significa sentirsi in colpa. Chi è capace di provare empatia soffre delle disattenzioni della persona che ama, ma la giustifica perché sente anche il suo dolore, che è il motivo del suo vivere senza mai chiedere  tu invece come stai.

In fondo non ci sarebbe chissà cosa di sbagliato. Chi vive di leggerezza può insegnare all’altro a staccare ogni tanto entrambe le punte dei piedi da terra e quest’ultimo a sua volta può mostrare come si atterra evitando di scontrarsi contro montagne di vuoti interiori.

Se solo ascoltasse. Se non fosse già così troppo in alto, al di sopra delle nubi gonfie di pioggia, da non riuscire a sentire la voce di chi un attimo prima gli stava tenendo la mano e quello dopo invece si è ritrovato in mezzo ad una tempesta non sua. Tempeste in cui molte vite sono finite, in più di un senso.

Chissà se Maria e il tipo del treno stanno insieme.

Ci vuole coraggio e potrebbe essere la cosa più difficile che una persona può fare in tutta la propria vita, ma si può voler bene molto più di così.

A se stessi, intendo.

 

 

 

ComeDiari #12: Senza Dubbio

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In fondo quel che ti fotte è il dubbio. 

Quando invece sai, è diverso.

Non ci verrebbe l’ansia uscendo di casa al mattino se sapessimo che, qualunque sia la condizione di traffico e di salubrità mentale delle persone che incontreremo per strada, il treno o l’autobus sarebbero lì ad aspettarci comunque e potremo arrivare in sede in tempo, all’orario giusto.

Nel bene o nel male, quando sai, stai meglio. Almeno, sei più tranquillo. Puoi concederti il lusso di essere consapevole e regolarti di conseguenza. Perfino se è giorno di sciopero.

Perfino se lui non vuole più vederti.

Se non vuole più sentirti.

Se sai, allora finalmente tutto quadra e il dubbio sparisce. 

Capisci.

Non ne valevi la pena. 

Percorrere dei chilometri.

Rispondere al cellulare.

Scrivere un messaggio.

Azioni chiamate pretese nonostante non sia stata tu a chiederle.

Non è molto meglio, invece, sapere? 

Non le farebbe. Cose, così. Per te. 

Quando sai, non ti preoccupi più. Dormi serena e ti svegli concedendoti a colazione il lusso di essere consapevole. 

Il cellulare non squillerà.

Non vibrerà brevemente, nemmeno.

Non dovrai attendere nessun momento giusto.

Non devi prendere nessun treno.

E non c’è neanche sciopero.

Senza dubbio, è così.

 

CronacheDalCondominio #4: L’Anarchia dell’Addobbo

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Lo scorso anno a causa dei postumi del trasloco e della mia fretta di riordinare per far spazio al Natale, a stento ci feci caso. In queste ultime settimane invece li ho visti spuntare dal nulla come funghi, uno dopo l’altro: gli addobbi dei vicini. Brutti, ingombranti e di dubbia praticità.

I gusti non si discutono e siamo d’accordo. Mettiamoci pure che gli addobbi natalizi mi piacciono da morire e se potessi decorerei le case di tutti, non solo la mia. Quel che non ho capito è come sia stato possibile che sullo stesso pianerottolo, affisse alle porte dei vari inquilini, ci siano finite decorazioni tanto diverse quanto stonate, qualcuna fuori moda, altre talmente fuori misura da coprire le targhe con i nomi e gli spioncini. Su alcuni piani è prevalsa la sobrietà: un fiocchetto lì, una campanella qua. Su altri il buongusto non ha potuto niente per mettere limite alla fantasia.

Pensavo a questa cosa anche osservando le luminarie domestiche a led e non che illuminano balconi e ringhiere di tantissime case. Ognuno s’è messo lì, armato di pazienza e fascette stringicavo, a srotolare i tubi di lucine seguendo quell’estro artistico sopito a causa di mesi e mesi di deleteria routine. Spirali, cascate, piroette, stelle e qualche audace sagoma di albero hanno preso a lampeggiare, spegnersi ed accendersi a ritmo. Su qualche balcone sembra ce ne siano pure troppe, su qualcun’altro sono messe invece senza un vero perché.

Mi sono chiesta se in fondo riguardo gli addobbi natalizi non vige un po’ una sorta di anarchia. Belli o brutti, armoniosi o non, stanno lì, in modo che tutti possano vederli. La diversità è bella, non c’è dubbio. Qualche volta capita anche di vedere palazzi interi decorati con precisione e simmetria, rari casi in cui ci si è riusciti a mettere d’accordo su un solo colore e un solo tema e quasi risultano essere di una perfezione inquietante. Quel su cui riflettevo però è che le feste natalizie sono una delle pochissime occasioni in cui le persone possono esprimersi abbastanza liberamente e gli addobbi finiscono per analogia o per contrasto a rappresentare un po’ quel che si ha dentro. Si tende a creare un ambiente intorno a sé che è espressione di se stessi.

Allora quanti Natale diversi esistono? Quante intensità, difficoltà, quanti significati, desideri, dolori vengono mostrati sperando da un lato che si mimetizzino nel tutto, dall’altro che spicchino rispetto agli addobbi di tutti gli altri?

Le tradizioni e i ricordi in fondo danno un po’ quell’impressione che il Natale sia sempre lo stesso, uguale e immutabile, eppure a guardarlo bene, alla fine, non è che il risultato dell’immagine che ognuno di noi ne ha, ogni anno, sempre diversa. Spesso facciamo una fatica incredibile nel cercare di riunirle tutte insieme, dare lo spazio che ognuno merita. Alcune messe vicine stonano, altre si esaltano tra loro.
Qualcun’altra invece si allontana in silenzio per cercare un po’ di calore vero altrove.

C’era una volta, forse domani, oggi no.

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La verità è che uno ci spera sempre.

Ho provato a non augurarmelo, a non immaginarne uno. Impossibile. Il lieto fine è già lì. Alla fine di ogni lunga e contorta successione di vorrei. Aspetta e non gli importa quanto puoi metterci ad arrivare.

Era vicino. Ad un tocco. L’energia aveva riempito la distanza e mi sentivo un tutt’uno con essa, solida, vera. Reale. Avrebbe dovuto portarmi via con sé in un abbraccio.

Le fiabe di una volta non avevano il lieto fine. Più che altro si trattava di una lezione. Ti veniva raccontata quella storia affinché potessi imparare a conoscere e riconoscere pericoli di cui nemmeno immaginavi l’esistenza. La gente non se ne faceva nulla del e vissero tutti felici e contenti. Meglio un insegnamento, un’opportunità per aprire gli occhi e non cadere negli errori costati cari a qualcun’altro.

Un finale, quello, davvero più utile a tutti. Migliore. Senza fronzoli, aspettative, delusioni.

Un finale così non ti chiede se sei d’accordo. Quel che conta è la lezione di vita e non hai modo di ribellarti. Decide per te il quando e il perché è finita. Intorno a te tutti applaudono e si congratulano, ti stringono la mano e ti dicono ancora un’altra dannatissima volta che è meglio così. 

Ti restano l’immaginazione e la speranza per renderti presentabile a qualche nuovo giorno che non smetterà di guardarti di traverso finché paradossalmente non avrai iniziato a raccontargli un altro lieto fine, ancora un’altra volta.

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Walt Disney in Saving Mr. Banks

(Guestpost di Novembre su Principesse Colorate, sul lieto fine, tra illusione e speranza, tra il Medioevo e l’era Disney che per fortuna ci ha salvati un po’.)