
Stacco per l’ultima volta la spina alle lucine che infondono l’atmosfera calda nella scena e immagino i figuranti inanimati scambiarsi uno sguardo di intesa generale, è il momento, si smonta tutto.
Ammetto che quest’anno ho faticato a mettere su il presepe, forse per il significato diverso che la festa ha assunto per me e per il fatto di doverlo fare da sola, però avevo letto un articolo secondo cui quello religioso è solo uno dei motivi per cui allestirne uno. Sul piano spirituale rappresenterebbe quel che si ha dentro e il bambino appena nato non è che il Sole bambino che nasce con il solstizio d’inverno e che ci promette la vita e la primavera, mentre intorno a lui il mondo si affaccenda a combattere le difficoltà di sempre. Sul piano materiale sarebbe la riproduzione di un pezzo di Universo, un affresco della realtà. Quest’anno avevo deciso di tirar fuori dalle scatole solo i miei pastori preferiti. Ogni pastore ha la sua scatola su misura e per ricordarsi dove riporlo, alla fine delle feste, dentro ad ognuna c’è una piccola descrizione, scritta a mano dal membro della famiglia che per primo si trovava a farlo. Ne apro una e ritrovo la calligrafia morbida di mia madre pastorella con il pane. Facile, la trovo al primo piano dell’unica casetta e la ripongo nella sua custodia comoda. Con lo stampato grande di mio fratello trovo BUE, che intanto stava scommettendo con Asino su chi dei due sarebbe andato via prima dalla mangiatoia quest’anno. Il pastore nero con anfora nel cesto è quello con la descrizione più lunga e scritta in piccolo da mio padre. Ne apro un’altra e trovo con la stessa calligrafia pastore con piatto di rame. Guardo sul presepe e ho un attimo di smarrimento. Non so chi sia. Li guardo uno ad uno. Non è il Cuoco che in mano ha un mestolo. Non è il pastore con il pentolone che cucina qualche sorta di street food dell’epoca per strada. Lo zampognaro e il falegname scuotono la testa con fare ovvio. Boh. Vado avanti. Lo troverò per esclusione mi dico. La Madonna rientra prima di San Giuseppe e tiro giù dal soppalco della mangiatoia il pastore che dorme che io adoro perché si narra che il presepe sia frutto di un suo sogno e il tutto prende un’affascinante piega metafisica, tutto è reale e niente lo è. Uno alla volta inscatolo gli altri miei preferiti: il pastore ubriaco con il fiasco, per il quale allestisco una tavola di assi di legno poggiate su dei barili, quello che tira un asino piantato con le zampe a terra e il pastore con il fagotto sulle spalle e l’aria smarrita, non sa dove si trova e in quale locanda andrà a cercare un po’ di calore e tanto vino. Le pecore si riuniscono nella scatolina di plastica e il presepe ormai è quasi vuoto. Nei pressi della locanda, all’angolo della strada, è rimasto un uomo con la barba bianca e una tunica blu. In mano ha un piattino con poche monete dentro. Mi è sempre piaciuta la sua aria elegante e gentile. Sei tu il pastore con il piatto di rame, quasi gli dico divertita dal piccolo mistero che ha avvolto il momento noioso e faticoso del rimettere tutto a posto. Fosse stato per me avrei scritto pastore che chiede l’elemosina, più chiaro, non credi? Mi guarda placido e silenzioso. Insomma a me non era mai sembrato importante di cosa fosse fatto il piatto. Lo ripongo nella custodia con calma e sorrido, lui sembra quello meno affannato e smarrito di tutti e penso che stia lì davvero il mistero. Alla prossima, dico, tra me e me.