Sulla canzone che stavo aspettando

Ci sono giorni magici in cui accade che ti metti alla guida e alla radio passano proprio la canzone che ti eri dimenticata di cercare su YouTube il giorno prima. In quella canzone trovi sublimate tutte le novità che senti in te stessa. Perfino quella di portare di nuovo gli anelli alle dita, l’ultima volta che ne ho portato uno forse avevo dieci anni. Lo persi per averlo tolto prima di lavare le mani e in genere già non sopportavo la sensazione di averlo ancora al dito anche quando a sera lo rimettevo nel suo cofanetto. Mi urtava che la pelle conservasse la sensazione di costrizione per poi guardarmi le mani e non trovarlo. Li guardo invece adesso mentre scrivo e mi sembrano un’armatura niente male.

Scrivile, scemo, stanotte non dormi, tu chiamali sogni, ma sono ricordi
Scrivile, scemo, è colpa del vino, se basta uno sguardo e ritorni bambino
Scrivile, scemo, ci vuole coraggio, nel ’94 ad essere Baggio

Ci sono giorni magici in cui accade che ti svegli al mattino e si realizza esattamente l’ultima cosa che avevi sognato, sorridi come una bambina che ha ricevuto il regalo più bello e pensi che allora l’Universo non è solo quella spirale che mangia e ingoia tutte le cose belle che ti capitano nella vita, ma ogni tanto si espande per comprenderne altre al suo interno.

Ma dove sei? Dicono che sei un po’ cresciuta oramai
E non sei più quella bambina che baciava Harry Styles in TV
E pesano, uccidono, ‘sti cazzo di “ti amo”, ballano dentro la bocca un ritmo cubano
Il sangue, le lacrime, un grido blasfemo, tu fatti coraggio, poi scrivile, scemo

Ci sono giorni magici in cui accade che ti senti bella, che la bilancia dice che mancano tre chili al tuo sogno che poi non è un sogno ma un racconto che stai scrivendo ogni giorno, da quando ti sei accorta che avevi il potere di cancellare le righe che non ti piacevano, di costruire una trama diversa, di accorgerti delle abitudini e di usarle a tuo vantaggio. Forse non è una gran scoperta quella di potersi alzare al mattino non per dovere, ma anche per ritagliarsi del tempo libero extra prima di qualsiasi impegno per fare qualcosa di bello per se stessi, ma è una delle migliori.

E scusa per l’ansia, mi mangia da dentro e per il cane che scappa con il cancello aperto
Vedi, non sono bravo a fare restare chi mi vuole bene, però so aspettare

Ci sono giorni magici in cui accade che non solo scopri che è fondamentale che ti parli bene, sì, che tu parla bene a te stessa, ma lo metti anche in pratica, perché le cose che pensi diventano i collegamenti più ricorrenti tra i tuoi cazzo di neuroni che si abituano alle parole che più ti ripeti e quella che ti racconti diventa esattamente la realtà che ti circonda. Allora ti vedi in un modo così nuovo, così inebriante, ti senti così padrona di te, ti guardi da fuori e ti piaci mentre cammini per strada e mentre balli in auto sulla canzone che stavi aspettando.

ComeDiari #19: Quattro anni dopo

picture by Yaoyao

Nina gira la testa verso il balcone chiuso. Chissà quanto ci vuole a piedi e poi in treno ad arrivare al mare. Ha deciso, andrà sabato. Venerdì sera preparerà la borsa con un asciugamano, un libro e una bottiglia d’acqua. Basta rimandare. Gli orari dei treni, sì, quelli li vedrà direttamente venerdì. Ora basta perdere tempo, gli appunti non si studiano da soli. Un ultimo sguardo al Sole che brilla solo fuori dalla sua stanza. Arriva un tonfo dalla stanza accanto e lei sussulta, non vistosamente, ma il cuore inizia ad andarle a mille. Si sarà fatto male? Nessun altro rumore. Aspetta qualche istante, così magari si risparmia di andare di nuovo a controllare. E se non fa nessun rumore perché è successo qualcosa come l’altra volta? Le trema qualcosa dentro, si alza quasi buttando via la sedia e corre di là, ma a pochi passi dalla porta si avvicina piano. E’ tutto ok, è solo caduta della roba. Entra, la raccoglie e gliela sistema a portata di mano. Torna alla scrivania, dov’era rimasta? Ah si, al Sole. Forse sabato può approfittarne per fare quelle commissioni che aveva rimandato, pensa. Sì dai, l’estate è lunga, al mare ci andrà un altro giorno. E magari una di queste sere va ad ubriacarsi come non ha mai fatto. Anche se non servirebbe a nulla, insomma, facendo mente locale, quale uomo al mondo ha risolto qualcosa facendosi del male? Mettiamo pure che si faccia male, ma proprio per bene. Uccidendo ogni speranza, ogni luce dentro di sé, toccando il fondo. Ecco. Nina è quasi sicura che al mondo sono stati toccati già tutti i fondi possibili. Non è rimasto un solo modo originale di farlo. Ne ripassa a mente alcuni senza accorgersi che nella stanza inizia a farsi più buio. Invece, riflette, è molto più probabile che esista ancora un modo di essere felice che nessuno ha sperimentato mai. Si ripromette che l’indomani si metterà più presto sui libri, ormai si è fatta sera.

Nina alza la testa verso il balcone chiuso. A quell’ora, quando finisce di lavorare, la luce che entra da lì attraversa il living e inonda la sua piccola palestra nell’ingresso come una lingua dritta di fuoco. Sembra che il Sole offra una specie di sentiero a lei che pedala da ferma e la proietti direttamente fuori. Il cuore inizia ad andare a mille e lo legge bene sullo smartwatch al polso. Nelle orecchie la musica copre qualsiasi rumore, anche quello un po’ cigolante dei pedali che avrebbero bisogno di un po’ d’olio. Muove le labbra sulle parole straniere che la inebriano. Accelera sempre di più, abbassa le spalle come se dovesse tagliare meglio l’aria. Tenta di seguire gli intervalli del ritmo tabata che si è data, quaranta secondi di sprint e dieci di recupero, ma questi ultimi alle volte se li scorda quando arriva la canzone che la scatena più di tutte. Quella che la fa sentire bella, forte e selvaggia. Le gambe nemmeno le fanno male, saranno dolori dopo, ma non le importa, anzi. Saranno il segno che ha faticato per bene. La lingua di fuoco diventa tutte le strade del mondo, sono tutte lì davanti a lei. Niente le sembra più impossibile. Le passano i nervi, le paure, i dubbi. Il benessere la invade come una droga, sempre lì, sempre disponibile, bastano le cuffie, i suoi pesi e le scarpe da ginnastica.
Dopo si metterà sui libri, ormai si è fatta sera.

Glicine

La strada a senso unico è stretta, leggermente in discesa e costeggiata da marciapiedi pieni di gente. Sono le diciannove di un sabato di zona rossa che non fa più paura. C’è traffico. Una signora tiene per mano una bambina e insieme salutano un uomo con la mano. Mi fermo quando la signora fa per attraversare, ma la bambina pianta i piedi a terra, come quando uno sa di star sbagliando strada e cambia direzione. Lascia la mano della signora che resta ferma accennando un sorriso e corre verso l’uomo per abbracciarlo.

Vedi che son qui che tremo, parla, parla, parla, parla con me. Ma forse ho solo dato tutto per scontato e mi ripeto: “Che scema a non saper fingere”, dentro ti amo e fuori tremo, come glicine di notte.

Tolgo il piede dal freno e riprendo a camminare. Ho preso l’abitudine a cambiare in continuazione stazione radio finché non trovo una canzone che mi piace. I tragitti sono diventati brevi e a volte mi capita di beccare solo pubblicità fino a destinazione e mi innervosisco. Potrei mettere musica dal cellulare è vero, ma poi non è bello come trovarla per caso.

Scommetto che ora non prendi più l’abitudine di far sempre come vuoi tu e quando arriva sera mi manca l’atmosfera, non è la primavera. Sembra ieri, sembra ieri che la sera ci stringeva. 

Ho letto che quella cosa per la quale si procrastina un impegno o un’attività per poi occuparsene freneticamente all’ultimo momento si chiama ansia ad alto funzionamento. Significa che da fuori sembra che funzioni bene, hai successo, sei precisa e attenta, mentre dentro hai sei un casino di dubbi, domande, incertezze e paure. Paolo Fox dice che è un momento per me in cui le cose vanno bene, ma costano così tanto in termini di stress che alla fine della giornata sono distrutta e a stento riesco a gioirne.

Dietro di noi vedo giorni spesi su treni infiniti, forse è solo che mi manca parte di un passato lontano come Marte. Tu cosa dirai vedendomi arrivare, quando ti raggiungerò?

Insomma, ha ragione. Mi sembra di prendere per la prima volta le misure al mondo e che sia la prima volta che mi guardo allo specchio e mi rendo conto della vita, la mia. Nel tempo libero mi metto a distinguere le mie ansie da quelle degli altri e a smontare i sensi di colpa. Cerco il Sole e l’aria fresca e mi alleno a sentirmi felice.

Ora che non posso più tornare a quando ero bambina ed ero salva da ogni male e da te, da te, da te.

A leggere i fiocchi di neve

Da quando ho smesso di parlare il silenzio ha curato le parole.
Loro non sapevano bene che fare. All’inizio lanciavano qualche sguardo incuriosito. Alle volte ridevano. Altre si muovevano in punta di piedi e buone buone si sistemavano nei pressi di un altro silenzio, di nascosto lo guardavano fare cose normali e questo le faceva stare bene. Quando le condizioni sono giuste il cielo racconta la neve e noi restiamo con il naso appiccicato sul vetro del balcone a leggere la storia. Alle storie servono le condizioni giuste, ma anche un certo ritmo tra pieno e vuoto. Se non ci fosse spazio tra un fiocco di neve e l’altro non avremmo nulla da leggere. Ci sarebbe solo un finale già scritto.
Insomma le condizioni giuste, il ritmo e allora accadono le storie, così come accadono le cose.
Al centro c’era un pouf un po’ rotto come tavolino e una candela viola perché c’era solo quella a portata di mano, due amari e dei biscotti al cioccolato. Una musica dolce da poggiarci la testa. Le parole si erano già date appuntamento per l’indomani. Ormai si era creata come un’abitudine: ognuno faceva danzare le proprie, ma poi loro si incontravano e intrecciavano per aiutarsi e insegnarsi cose e ridere insieme. Perché non si trattava di sentirsi meno sole, ma di trovare un po’ di pace.
La storia è finita quando ho chiuso gli occhi, dopo aver spento la candela e la musica, dopo essermi tirata su le coperte e mi sono sentita felice.

Attraverso quel punto

Insomma, non lo so.

Non lo so come si fa.

Guardo questa pagina bianca e mi dico, non lo so.

Come si fa a guardarsi dentro e tirare dalle trame dell’anima qualcosa che abbia vagamente senso dopo, ecco.

Dopo la morte.

Tipo, come funziona adesso quella cosa per cui ad un certo punto mi fermo e mi metto a scrivere una o due ore durante la giornata? Ammesso che ci riesca, guardando il mondo, cosa ci vedo adesso? Servono tutt’altri perché e percome a sorreggere la realtà, adesso.

Mi sembra dissacrante legarmi con le parole alle mie sensazioni, come se mi cucissi ad una realtà che ora so può svanire da un momento all’altro.
Perché forse l’unica domanda alla quale vorrei risposta è dove sei adesso, cosa stai facendo? E la risposta non appartiene a questi spazi e a questo tempo. Mi sembra altrettanto stupido costruirci intorno castelli di parole che non arriveranno mai nemmeno a sfiorare il cielo.

Se tutto cambia affinché non cambi nulla, allora dovrei riconoscere sempre un punto in mezzo al tutto che è sempre lo stesso, qualsiasi cosa accade. Lo stesso punto da cui si nasce e si muore. Quello attraverso il quale tu mi hai portata due volte, quello per cui passa quel filo che ti ho promesso sarebbe rimasto sempre uguale e sempre nostro.

E mi sento come nata di nuovo in una nuova consapevolezza del mondo.

Oggi specchiandomi nella postazione del parrucchiere mi son vista finalmente trentenne e ho dovuto lottare con una lacrima che stava per sfilare proprio lì davanti a tutti. E ho capito che volermi bene è un modo per continuare ad avere cura di te.

E’ stato come cercare di trattenere l’acqua con le mani.

E se la vita può andar via così, prima di aver finito di fare tante cose, prima di aprire quella scatola di cioccolatini o aver indossato quel vestito nuovo, prima di aver festeggiato o lavorato o pianto per quelle altre battaglie, allora che stiamo a fare qui? Insomma, deve continuare da qualche altra parte. Devi esser saltata in un’altra realtà. Una in cui non esiste il tempo o lo spazio o magari tutti e due. Si perché questo spazio-tempo deve avere dei confini molto più sottili di quelli che immaginavo, anzi, che non immaginavo. No, perché uno non ci pensa mai alla morte. Non sta né sulla lista della spesa, né su quella dei documenti da presentare per il 730, né tra le possibili destinazioni di una vacanza e nemmeno tra gli annunci di lavoro. Invece fa parte della vita e ho come la sensazione, forte, che risieda lì un qualche profondo senso di libertà, felicità e di vita.



Le bugie delle verità

illusione inganno distanza realtà

Delle sale d’aspetto dei medici non sopporto quelle riviste lasciate lì sui tavolini mezze sgualcite, con le pagine mancanti e risalenti a mesi e mesi fa. Sembrano un inganno.

Insomma, tu sei lì certamente non per rilassarti. Perché dovrebbe interessarti il colore del vestito che la Regina Elisabetta ha indossato in questa o quell’altra occasione mentre sei lì che ti aspetta la siringa dell’anestesia alle gengive che no, per quel dente non c’è più nulla da fare e ti fa un male cane e deve essere tolto al più presto?

Approfondimenti politici, tagli di capelli dello scorso autunno-inverno, cara posta del cuore, mio marito non mi guarda più, cosa posso fare, la ricetta del pollo al curry con riso basmati che tu rifarai senza curry e senza riso basmati perché non hai tempo di passare al supermercato a comprarli.

-Guarda, qui c’è notizia di TAC con turbo. Capisci? Tu con questa tumore … booom-

Osservo la signora bionda mentre accompagna con movimenti della testa quell’ultima parola. Poi però mi accorgo che di fondo la muove involontariamente a causa di qualche tic. Non capisco bene cosa intende, ma annuisco.

In quella sala d’aspetto oltre alle riviste ci sono dei poster dei luoghi più belli della costa campana. Decisamente lontani in molti sensi. Dalla percezione dell’inganno la mia mente passa direttamente a quella della presa in giro. Lì, al piano meno uno, alla fine di un corridoio che sembra il set di un thriller, illuminato a tratti da luci al neon e sulle cui pareti corrono tubi di diverse dimensioni che portano acqua, gas e corrente al resto dell’edificio ospedaliero, cercano di farti pensare al mare e al sole e al vento che ti mette i capelli in disordine e alle barche da fotografare e pubblicare su Instagram dopo aver applicato un filtro che ne esalti fortemente i colori.

Eppure l’ambulatorio della radioterapia è uno dei pochi posti al mondo nel quale le bugie che ci si racconta sulla vita e sul mondo stesso vengono vergognosamente messe a nudo. Ti rendi conto, lì sotto, di tutte le illusioni nelle quali hai vissuto fino a quel momento. Finiscono distrutte, sì, anche se non prima di aver lottato.

Avvengono delle vere e proprie battaglie di sguardi tra tutti quelli che sono lì ad aspettare. Ho cercato di nascondere il mio ovunque, ma è come se ci fosse una legge non scritta che obbliga prima o poi a guardare negli occhi una o più persone vicine a sé. Mi volto verso la persona che ho accompagnato e capisco che ha dovuto cedere anche lei, nonostante io sia riuscita lo stesso a notare la presenza di quella barriera che alza di solito quando decide che di sé a tutti gli altri non racconterà proprio un bel niente.

La signora bionda ad un tratto inizia a piangere. -Terza volta… Dottore dice… Ancora-.
Una donna molto abbronzata elabora il momento molto più in fretta di chiunque altro e le risponde cercando di consolarla e chiedendole qualche dettaglio in più. Mentre la signora bionda cerca di spiegarsi in una lingua non sua, io non riesco a fare a meno di notare che ha scelto di sedersi lontana da tutti.

Gli occhi e le orecchie sono le uniche parti di me che riescono a superare quella distanza imposta. Insomma, si trova laggiù eppure ha attirato l’attenzione di tutti lo stesso. Mi sento come incastrata e la osservo frustrata come si fa con le nuvole a cui non puoi impedire di esplodere di pioggia perché non puoi in nessun modo raggiungerle.

Da lì in poi le maschere iniziano a cadere, una ad una. La signora anziana alla mia destra parla del motivo per cui si trova lì. Sua figlia e suo genero completano il racconto con informazioni sulle loro vite che sembrano importanti quanto le cose scritte nelle riviste. Pian piano la testa si riempie di immagini e di domande sulle loro vite e sulle loro scelte.

La magia dell’illusione si compie, inesorabile, da sola, una volta ancora.

Non eri sola. Per G.

Forse aveva bisogno di qualcuno che le dicesse non sei sola. Che tanto le persone giudicano lo stesso, se sei fidanzata, se non lo sei, se frequenti qualcuno, se è la persona sbagliata, se è quella giusta, se non caghi niente e nessuno e finisci gli esami, se non lo fai, se ti laurei con un voto basso o uno alto, se vuoi restare a vivere nel paesino in cui sei cresciuta o se vuoi andare via, se in fondo non hai chissà quali problemi gravi oppure sì. Ti giudicano se cerchi di essere felice o ti senti comunque troppo triste, se sei in anticipo o in ritardo con i loro tempi, se cerchi a tutti i costi il tuo posto nel mondo e il lavoro dei tuoi sogni o solo uno che ti fa almeno sentire indipendente. Ti giudicano se ti lasci condizionare, se vivi male la pressione o se non te ne frega un cazzo di niente, se hai il coraggio di dire sempre a tutti quello che pensi, oltre le convenzioni sociali, le immagini che si sono fatti di te e le loro aspettative su chi sarai un giorno o se non ce l’hai. ‘Non sei sola’ e soprattutto che aver voglia di perdere la ragione ogni tanto non significa, necessariamente, che per te è finita.

G. ha deciso di togliersi la vita ieri pomeriggio, lanciandosi dal tetto di una delle sedi dell’università che frequento. Aveva raccontato ai suoi parenti e al suo ragazzo di aver finito gli esami e ieri aveva invitato tutti alla sua seduta di laurea. Lei però non aveva sostenuto ancora tutti gli esami e ovviamente non era nella lista di quelli che si sarebbero laureati ieri. Prima che le sue bugie venissero inesorabilmente scoperte si è allontanata dai suoi cari e qualcosa che aveva dentro di sé, o forse qualcosa che ormai non c’era più, l’ha spinta ad andarsene via, per sempre.

Deliri Post-Pasquali

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“[…] Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
[E. Hemingway]

Il fatto che il recarsi in chiesa ogni domenica per essere un buon cristiano fosse un obbligo non mi è mai piaciuto. Ho sempre creduto che servisse qualcosa di più per farlo, come un bisogno, una necessità di qualsiasi tipo. L’idea che ho della religione è abbastanza complicata, ma un po’ si basa su questa idea qui, semplice e logica e negli anni ho cercato di esserle fedele. Le ricorrenze sono alcune di quelle occasioni in cui ci vado, magari per l’atmosfera di festa o anche soltanto per ricordare certi principi che al di là di ogni credo sono sempre validi e coincidenti con quelli delle festività pagane che un tempo erano al posto di quelle religiose che conosciamo di più. La Pasqua, ad esempio, dovrebbe ricordarci che alla fine la luce vince sul buio. Anche questa un’idea semplice, confortante, attorno la quale si possono costruire dei discorsi immensi, usando giri di parole sempre nuovi e diversi.

Questa cosa non valeva per il prete del paese in cui vivevo prima. No. Lui, al momento dell’omelia, ripeteva sempre, ogni benedetto anno, lo stesso discorso. Non credo mancasse di fantasia, anzi, ero arrivata a credere che lo facesse apposta per far si che quei pochi e necessari concetti potessero davvero restare nelle teste distratte di chi, a detta sua, si trovava lì trascinato più dalla coscienza collettiva del paese che dalla propria volontà. Per cui quando la scorsa Pasqua mi sono ritrovata in un’altra chiesa, con un nuovo prete e l’occasione di ascoltare un discorso diverso, sono stata tutta orecchie, in cerca di una sfumatura, un guizzo geniale da portare via con me.

Adesso, ripeto, ci sono tanti modi diversi di spiegare un’idea e altrettanti di recepirla. Quella che non mi aspettavo e su cui spesso sono tornata a riflettere in questi giorni è stata la sensazione di perplessità e disagio che ho provato nonostante il messaggio in generale fosse positivo e rassicurante. In pratica, il cuore del discorso riguardava il dolore fisico e quello dell’anima. Di quanto fossero diversi. Quello fisico ha un limite in quanto il corpo stesso, ad un certo punto sviene, per difendersi. Il dolore dell’anima invece sarebbe infinito, non esiste un limite, un fondo, un meccanismo di sicurezza che interviene al nostro posto per salvarci, no. Ci si deve salvare da soli prendendo coscienza del fatto che essere felici è un diritto. Punto. Tutto qui. Ciò equivale a dire che si possono trascorrere le giornate a pensare che nulla va come dovrebbe o, al contrario, che tutto è esattamente al suo posto o che comunque lo sarà nei tempi e nei modi più giusti. Tutto dipende dal nostro atteggiamento mentale che condiziona tantissimo il modo in cui osserviamo la realtà. Un evento positivo può diventare ai nostri occhi negativo così come può accadere il contrario, per cui se stiamo male, in fondo, è un po’ colpa nostra.

Tutte queste belle cose non sono una novità, spesso se ne perde consapevolezza, ma tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo già sentito parlare. Ricordare che la felicità è un diritto lì per lì mi ha fatta sentir meglio. Poi, si sa, quando viene spinta da un impulso diverso la mente parte, va senza freni tra pensieri impervi e disastrati ed è impossibile fermarla. Mi sono sentita in colpa. Terribilmente. Per tutte le volte che non mi sono salvata e ho preferito pensare a me stessa come la persona che non sono e a quel che non stavo facendo, soffrendo inutilmente.

Non so, forse ci sta anche questo. Rientra nella normalità dell’eterno scontro tra bene e male che avviene dentro di noi ogni giorno prima che in qualsiasi altra parte del mondo, nell’ovvietà del fatto che le vittorie vanno all’uno o all’altro alternandosi e che nonostante tutto la vita va presa con le giuste dosi di responsabilità e leggerezza, sempre. Chissà allora se non esiste da qualche parte anche un certo diritto al dolore, perché come mi disse una persona qualche tempo fa, è inutile crucciarsi quando non si è pronti, per una cosa qualsiasi, fosse pure semplicemente la felicità.

ComeDiari #6 Legger(s)i Tra Le Nuvole

Daniela-Volpari-Con-la-testa-fra-le-nuvole

Bisogna arrendersi all’evidenza, dicevo. Solo che poi dipende da cosa vedono i tuoi occhi.

Cosa fai quando i sentimenti ritrovano la strada che avevi chiuso per rabbia?

Niente.

Li lasci passare.

Scorrono sulle guance. 

Esplodono in coriandoli di parole.

Provvedi a rimetterle insieme in modo che formino un senso compiuto, almeno. 

Ti senti un po’ felice quando capisci che osservate entrambi la stessa nuvola, anche se siete sotto due cieli diversi. Che la stessa luna la vedono tutti, una ce n’è e non appartiene a nessuno, neanche a quelli che si fregiano di averla rubata o di averne comprato un pezzo. Per le nuvole è diverso, quelle cambiano forma, muoiono e rinascono, viaggiano, piangono o, qualche volta, ti confortano. Tutti ne abbiamo, sono quelle con cui giochiamo di notte, quando non riusciamo a prender sonno e sulla luna già non c’è più posto. Quindi, diventa una questione di comprendere fino in fondo chi c’è davanti a te, di imparare a riconoscere le sue nuvole. 

Magari non si riesce subito, o non si vuole, o non si può, o semplicemente non ne è il momento ancora.

Poi, però, non c’è niente di più evidente. Ed è così speciale che non si può descrivere. 

Finalmente puoi arrenderti. 

Puoi amare.

Puoi andare avanti.

 

picture by danielavolpari.blogspot.it

L’Ultimo Pezzo

Era l’ultimo pezzo del puzzle e rigirandolo tra le mani ho capito che in realtà serviva a smontarlo. Togliendo un pezzo dopo l’altro ne ho capito finalmente il senso. Ho guardato bene tra gli incastri, ho visto di cosa erano fatti. Credevo che se l’avessi fatto sarei finita io in pezzi, invece già lo ero e non me ne ero accorta.
La tristezza è più egoista della felicità e io nemmeno ho provato a rimetterla al suo posto. Non so perché, è una cosa che non riesco a spiegare. Non ho saputo dare risposte a chi me l’ha chiesto, a me stessa. Mi sono sentita come arresa. E’ uno stato d’animo che prevale, va perfino oltre ciò che l’ha provocato. Se ad un sentimento vien chiesto di tornarsene indietro quello non è che capisce bene subito. Resta un po’ in silenzio, prova a riflettere, rimbalza contro il sole e le foglie, vetri e parole, impazzendo. Balbetta qualcosa che non capisce neanche lui e la prima cosa di cui è certo è che si sente in colpa, ma inutilmente. Ospite inatteso di un cuore che non lo stava per niente aspettando è andato via in punta di piedi per paura che qualsiasi altro rumore avrebbe ferito lui stesso. Credo che questa sia la distinzione tra il provare davvero amore per qualcuno e il correre impazzita nel cortile come un’oca alla quale hanno tirato le piume. Temo sia soltanto, però, il mio personalissimo modo di rispettare me, le persone che ho amato e i sentimenti stessi di conseguenza.
Le persone si comportano diversamente da come ci si aspetta perché non le si conosce affatto ed è un qualcosa da accettare e non soffrire. Le prese in giro tendono ad autodistruggersi senza nemmeno toccarle. Per i puzzle serve che ci si impegni invece. E’ quello che sto facendo e da un po’ la tristezza è quasi del tutto rientrata negli argini e scorre nel suo alveo così come è giusto che sia, ma senza invadere più i miei sogni e i miei desideri.

“… Una volta in un altro tempo
prima di sapere che questa fosse la mia vita
prima che lasciassi la bambina dietro di me
ho rivisto me stessa in notti d’estate
e le stelle si accendevano come luci di candele
ho espresso il mio desiderio, ma soprattutto ci ho creduto …
E  linee gialle e segni di pneumatici
pelle baciata dal sole e manubri
lì dove mi trovavo era proprio dove dovevo essere.
Una volta in un altro tempo
decisi non ci fosse nulla di buono nel morire
e che avrei soltanto continuato a guidare
perché ero libera.”


[Once Upon Another Time – Sara Bareilles]