ComeDiari #13: Ostacoli

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Se un ostacolo ti capita davanti ai piedi due volte, allora vuol dire che c’è una qualche lezione che dovevi imparare e alla prima occasione non l’hai fatto.

Così si dice, almeno.

Non è il fatto in sé per sé che mi urta, ma proprio il suo ripetersi. Con tempi, circostanze e attori diversi. Perché?

Ah sì, la lezione.

Ci ho pensato su tutto il giorno. Non proprio in quest’ordine mi è venuto in mente:

-Non dare più fiducia a nessuno, nessuna persona di nessun genere, età, sesso e condizione sociale. L’idea più immediata e ovvia.

-Mai più distrazioni di nessun tipo. Niente progetti per il futuro, niente shopping, letture, social, modi alternativi di conoscere la vita oltre l’università. Insomma, se succedono certe cose è perché faccio passare troppo tempo distraendomi. 

-Piangermela da sola. In solitudine completa. Che però è più una conseguenza del primo punto.

-Perdonare. E prendersi non troppo sul serio. Arrabbiarsi non serve a niente. E tutti possono sbagliare.

-Imparare ad incassare ed essere pronta poi a ripartire. La vita vuole che io da carne ed ossa diventi di plastilina. Possibilmente profumata e di un colore sgargiante. La storia della resilienza ce la dimentichiamo? E su. 

Ma cos’è una lezione?

Nel senso, davvero c’è sempre una morale? Una e una sola, che ci aspetta paziente alla fine di lunghe telefonate e imprecazioni insensate? Aspetta davvero che passi l’ultima lacrima sul viso o l’ultimo pensiero di fumo dalla testa?

E’ che, capite, due volte. Due volte lo stesso ostacolo. Qualcosa deve pur significare, no?

Beh, ho capito una cosa. La morale dipende da noi. Non facciamo che sceglierci quella che più ci piace di volta in volta e quella ci da’ la direzione che avevamo perso e che ci serve per raggiungere il prossimo obiettivo. Insomma, dipende dalle nostre intenzioni. Quali azioni vogliamo giustificare. Dal modo in cui vogliamo vedere la realtà.

Oggi però di morali non ne ho scelte. Ho cercato una soluzione e basta.

Dove c’è un ostacolo, c’è anche una soluzione.

E questo mi ha fatta star bene più di qualsiasi altra grande verità nascosta.

 

 

Distanza

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Distanza.

Ultimamente ogni aspetto importante della mia vita, purtroppo, ha a che fare con questa parola. Già di suo sembra avere sempre e comunque un’accezione negativa.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Significa pure però che quella cosa, persona, non la stiamo vivendo. Non è presente nella successione di spazi e di attimi che ci circondano, in alcun modo. Oppure. Non possiamo non ferirci le dita provando ad accarezzare i bordi di un obiettivo che non si incastra ancora perfettamente nei nostri giorni. Robe così.

Nonostante ciò io la distanza non l’ho mai demonizzata. Non mi ha mai spaventata. Forse perché di mio tendo ad uscire dalle definizioni, inventare significati per vedere quanto vanno lontani da soli senza dover correre a sorreggerli e ogni tanto mi guardo intorno attraverso un tulle colorato, di quelli delle bomboniere, per vedere di che colore diventa la realtà. Forse, invece, è perché da piccola ho imparato che non c’era persona amata distante abbastanza da non poter essere raggiunta con un treno o un auto e molti dei miei familiari vivevano dai trenta ai novecento chilometri da me.

Distanza per me non è separazione. Eppure, mi sono dovuta arrendere a quell’evidenza che per tante persone è normalità, per cui non ho avuto scampo. I miei giorni si sono riempiti di quel significato da cui sono fuggita tante volte e s’è preso tutto lo spazio schiacciandomi a terra.

Da lì ho percepito un altro aspetto della questione: la distanza è anche un filtro. Non la si attraversa senza i requisiti necessari. Motivazioni deboli e legami sottili non ce la fanno, soccombono quasi subito. Qualcuno direbbe che è anche una questione di mezzi e di risorse disponibili ed è vero, anche se questo vale solo dal punto di vista fisico. Si può essere vicini anche in altri modi che ognuno può immaginare da sé. Qualcun’altro sosterrebbe che in fondo questa è una cosa positiva: se una persona riesci a sentirla nonostante lo spazio -e magari il tempo- allora un legame c’è davvero.

Messa al tappeto dall’evidenza, dunque, ho pensato di arrendermi. E si. Basta. Tanto è inutile. Le circostanze hanno sempre la meglio. Ci sono rapporti, vite, alberi genealogici interi che si reggono su una o due di loro. Chi sono io mai per rivoltare l’ordine delle cose? Se mi spaventano le circostanze più delle distanze in fondo è un problema soltanto mio. Mi sono piantata lì a terra e ho iniziato a sentire freddo. Dentro. Un freddo strano.

Era trasparente. Limpido. Una sensazione che puliva via tutte le altre così ingarbugliate, dolorose, arrabbiate e tristi insieme. Sembrava libertà. Mi sono sentita come l’estremità di una distanza appena rotolata via chissà dove e di cui riuscivo a vedere solo alcuni tratti che ho capito avrei dovuto percorrere da sola. Mi sono alzata e ho iniziato a fare qualche passo. Non ho idea di dove si trovi l’altra estremità, ma di aspettare e di combattere le circostanze mi sono davvero stufata.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Adesso, però, non ci sono più neanch’io.

Deliri Post-Pasquali

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“[…] Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
[E. Hemingway]

Il fatto che il recarsi in chiesa ogni domenica per essere un buon cristiano fosse un obbligo non mi è mai piaciuto. Ho sempre creduto che servisse qualcosa di più per farlo, come un bisogno, una necessità di qualsiasi tipo. L’idea che ho della religione è abbastanza complicata, ma un po’ si basa su questa idea qui, semplice e logica e negli anni ho cercato di esserle fedele. Le ricorrenze sono alcune di quelle occasioni in cui ci vado, magari per l’atmosfera di festa o anche soltanto per ricordare certi principi che al di là di ogni credo sono sempre validi e coincidenti con quelli delle festività pagane che un tempo erano al posto di quelle religiose che conosciamo di più. La Pasqua, ad esempio, dovrebbe ricordarci che alla fine la luce vince sul buio. Anche questa un’idea semplice, confortante, attorno la quale si possono costruire dei discorsi immensi, usando giri di parole sempre nuovi e diversi.

Questa cosa non valeva per il prete del paese in cui vivevo prima. No. Lui, al momento dell’omelia, ripeteva sempre, ogni benedetto anno, lo stesso discorso. Non credo mancasse di fantasia, anzi, ero arrivata a credere che lo facesse apposta per far si che quei pochi e necessari concetti potessero davvero restare nelle teste distratte di chi, a detta sua, si trovava lì trascinato più dalla coscienza collettiva del paese che dalla propria volontà. Per cui quando la scorsa Pasqua mi sono ritrovata in un’altra chiesa, con un nuovo prete e l’occasione di ascoltare un discorso diverso, sono stata tutta orecchie, in cerca di una sfumatura, un guizzo geniale da portare via con me.

Adesso, ripeto, ci sono tanti modi diversi di spiegare un’idea e altrettanti di recepirla. Quella che non mi aspettavo e su cui spesso sono tornata a riflettere in questi giorni è stata la sensazione di perplessità e disagio che ho provato nonostante il messaggio in generale fosse positivo e rassicurante. In pratica, il cuore del discorso riguardava il dolore fisico e quello dell’anima. Di quanto fossero diversi. Quello fisico ha un limite in quanto il corpo stesso, ad un certo punto sviene, per difendersi. Il dolore dell’anima invece sarebbe infinito, non esiste un limite, un fondo, un meccanismo di sicurezza che interviene al nostro posto per salvarci, no. Ci si deve salvare da soli prendendo coscienza del fatto che essere felici è un diritto. Punto. Tutto qui. Ciò equivale a dire che si possono trascorrere le giornate a pensare che nulla va come dovrebbe o, al contrario, che tutto è esattamente al suo posto o che comunque lo sarà nei tempi e nei modi più giusti. Tutto dipende dal nostro atteggiamento mentale che condiziona tantissimo il modo in cui osserviamo la realtà. Un evento positivo può diventare ai nostri occhi negativo così come può accadere il contrario, per cui se stiamo male, in fondo, è un po’ colpa nostra.

Tutte queste belle cose non sono una novità, spesso se ne perde consapevolezza, ma tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo già sentito parlare. Ricordare che la felicità è un diritto lì per lì mi ha fatta sentir meglio. Poi, si sa, quando viene spinta da un impulso diverso la mente parte, va senza freni tra pensieri impervi e disastrati ed è impossibile fermarla. Mi sono sentita in colpa. Terribilmente. Per tutte le volte che non mi sono salvata e ho preferito pensare a me stessa come la persona che non sono e a quel che non stavo facendo, soffrendo inutilmente.

Non so, forse ci sta anche questo. Rientra nella normalità dell’eterno scontro tra bene e male che avviene dentro di noi ogni giorno prima che in qualsiasi altra parte del mondo, nell’ovvietà del fatto che le vittorie vanno all’uno o all’altro alternandosi e che nonostante tutto la vita va presa con le giuste dosi di responsabilità e leggerezza, sempre. Chissà allora se non esiste da qualche parte anche un certo diritto al dolore, perché come mi disse una persona qualche tempo fa, è inutile crucciarsi quando non si è pronti, per una cosa qualsiasi, fosse pure semplicemente la felicità.

*… Semplice, Ma Non Troppo …*

Ecco, tanto per cambiare, riflettevo. Troppe cose che non riesco a capire. Troppe domande. Nessun senso di pace interiore, energia cosmica e/o pensiero minimamente zen che mi tenga ferma in un solo posto, che plachi la confusione o la distragga con qualche gioco di prestigio. Che la tenga buona per un po’ per darmi modo di dedicarmi anche ad altro. Che mi faccia star bene abbastanza da far trascorrere almeno una giornata senza che controlli di continuo l’ora. Come se avessi paura di perdere qualche risposta che magari potrebbe passare proprio in quel minuto, a bordo di quel vento che le foglie trovano divertente, ma i miei pensieri no.

Mi sono ritrovata a parlare con dei perfetti sconosciuti dei dubbi che ho, presi a caso tra tutti quelli che aspettavano con me il passare di qualche parola risolutiva, che fosse convincente abbastanza da portare i passi verso un’altra fermata, quella successiva di solito. Si perchè ne vedo diversi a volte che invece scelgono di tornare indietro trascinati da curiosità che il passato tende sempre a nascondere tra i cassetti della cucina come una persona anziana spaventata dall’idea che nessuno vada più a trovarla nell’ansia di dover correre tutti in avanti, chissà dove. Che, nel dubbio, ‘avanti’ è giusto, fa tanto pensiero positivo. Ho provato a parlare con loro, a far domande, nella possibilità che qualche risposta l’avessero beccata già prima di me, ma invano. Hanno compreso e condiviso ciò che avevo da dire ma poi sembrava non ne sapessero più di me. Le ho salutate e sono andata avanti per conto mio ancora guardandomi intorno. Nel caso arrivasse un’indicazione qualsiasi. Mura di altre case raccontavano di ciò che è stato, ma non hanno saputo dirmi se quello fosse il posto giusto dove restare e se si, per quanto tempo. Così come vorrei sapere quanto tempo bisogna restare in una certezza prima che diventi pregiudizio.

Esistono confini nella comprensione? Cioè, arriva un punto in cui c’è da pensare ti ho compreso fin troppo adesso vorrei essere compresa io come se si trattasse di un senso unico alternato, oppure è un qualcosa che viene dallo stesso posto dal quale viene l’amore che vive dell’esser dato soltanto? Ho perso il conto delle tempeste nelle quali sono finita insieme a persone che ho qui intorno che invece di risposte cercavano in ogni modo di togliersi le responsabilità delle proprie scelte. Chiamano incomprensione ciò che io ho imparato ad identificare come vittimismo. Allora poi nel bel mezzo di una tempesta ci sono finita da sola, questa volta non in senso metaforico, il mio spavento è finito prima di lei e mi sono resa conto che ogni cosa che accade al di fuori di noi, dietro ai nostri occhi può diventare tutt’altro.

Quindi è vero che le persone possono fare delle scelte e che queste in qualche modo possono far male agli altri. E’ anche vero però che il ferirsi o meno quando arrivano troppo vicine dipende molto da se stessi. Allora se il tutto si riduce ad una dimensione così personale, così compresa nei confini della propria testa, io credo che la questione diventi com’è che io vorrei essere. E’ ovvio che qui io rifletto soltanto e non è detto che sia tutto così facile, anzi. Si reagisce d’istinto il più delle volte. So che non voglio diventare diversa da ciò che sono per colpa di altri che hanno deciso di andare avanti per la propria strada armati fino ai denti pronti a prendersela perfino con chi non potrebbe mai fargli del male, come me. E se occorre difendersi, come si può capire? E così ogni cosa va in frantumi. Le tempeste distruggono.

Intanto che aspetto risposte, immagino. Io immagino che esista una specie di equilibrio nel quale certe cose come l’amore e la comprensione trovino essenza e vita nell’esser date mentre si rinnovano per ripartire con più forza quando vengono accolte e ricevute. Niente di platonico o a senso unico. Non si pretendono, non si chiedono e meno ancora, si elemosinano. Piuttosto, se tutto ciò nasce spontaneamente allora le persone intorno a sé sono quelle giuste, per una chiacchierata sotto ad una pensilina o perfino, magari, per viaggiare un po’ insieme. E cavolo, quanto ho da imparare ancora.

*… Wishing you …*

“Molte volte avevo fantasticato sul mio futuro, avevo sognato ruoli che mi potevano essere destinati, poeta o profeta o pittore o qualcosa di simile. Niente di tutto ciò. Né io ero qui per fare il poeta, per predicare o dipingere, non ero qui per questo. Tutto ciò è secondario. La vera vocazione di ognuno è una sola, quella di conoscere se stessi. Uno può finire poeta o pazzo, profeta o delinquente, non è affar suo, e in fin dei conti è indifferente. Il problema è realizzare il suo proprio destino, non un destino qualunque, e viverlo tutto fino in fondo dentro di sé.”

[Demian -Hesse]

 Mattina presto. Freddo tremendo, per quanto lo possa essere da queste parti, si intende. Guanti, cappotto e borsa. Grande abbastanza che chiunque guardandomi potrebbe pensare che stia scappando da casa, più che andare all’università. Anni che faccio lo stesso tragitto, in auto fino ad un certo punto, mezzi pubblici fino alla meta. Negli ultimi mesi, essendo un casino prendere gli autobus poco frequenti e troppo affollati, ho deciso di andare fino alla metro a piedi. Che magari il tempo che aspetterei alla fermata e quello che impiego per arrivare fin lì sarebbe pure lo stesso. Ma c’è una cosa che mi piace troppo nel fare quella strada, che non è nè bella, nè piacevole da percorrere. Ad un certo punto, si arriva ad una nota libreria. Grandissima, a due piani, con due entrate, una a livello strada, una giù alla metro. E ogni mattina passo di lì. Arrivo a testa bassa, per ripararmi dal vento o dalla pioggia ed entro. I locali sono così caldi da costringermi puntualmente a sfilare i guanti. Mi guardo intorno e ho la stessa sensazione ogni volta. E’ una specie di buongiorno sussurrato dal profumo di carta e diffuso dal calore, eccessivo forse. Tre o quattro minuti di buonumore, da lì fino a raggiungere l’altra entrata e recarmi alla metro affollata, buia. Se ho più tempo riesco perfino a far visita ad un autore che amo o un reparto preferito. Forse qualche commesso pensa pure che abbia confuso il negozio con una biblioteca. Eppure da lì è iniziata davvero la giornata, tante volte. Niente di eccezionale o interessante. Solo una strada più lunga e qualche minuto di leggerezza bonus, mio.

E’ una cosa del genere che vorrei augurarmi e augurare per questo nuovo anno. Che poi mi sta già simpatico perchè il numero è pari. A chiunque si trovi a passare di qui. Alle persone di cui, pur conoscendole da tanto, quest’anno ho scoperto un cuore davvero grande, nel momento in cui ho aperto un po’ di più il mio. A quelle che ho conosciuto qui su WordPress e non avrei mai pensato sarebbero diventate una parte di me così importante. Ciò che ho imparato e condiviso con tanti resterà indimenticabile.. Per questo grazie. Che sia davvero nostro ogni giorno, per un motivo qualsiasi, più o meno stupido non importa. Riuscire a sentire, il più spesso possibile, di essere sulla propria strada. Vivere e amare quanto ci pare.. Sbattere anche la testa contro muri più duri di lei. Cercare quei pochi minuti al giorno che bastano a trovare un sorriso o un abbraccio o un bacio… nostro.

Starfisher by pesare

 

 

*… Bufera …*

Era una domenica pomeriggio e cambiavo stancamente i canali della tv in cerca di qualcosa di minimamente interessante che mi impedisse di spegnerla senza pietà. Alla fine un film di cui non conosco né il nome e né la trama, attirò la mia attenzione. Era ambientato in America, al tempo in cui gli uomini indossavano cappelli con ampie falde e le donne vestiti lunghi e ricamati. Delle volte capita di vedere film interi e non conservare alcun ricordo particolare di loro. Altre, di arrivare al momento giusto del film, quello che per qualche strano motivo resterai a guardare e non dimenticherai più. Non so cosa è accaduto prima e dopo e ricordo soltanto questa scena che, estrapolata dalla storia, è diventata davvero importante per me.

Un uomo agitatissimo si rivolge alla bambina che vive con lui in una casa di legno, in piena campagna, spiegandole che deve fare una cosa importantissima, anche se pericolosa e che lei non può assolutamente seguirlo. C’è una bufera di neve, davvero troppo forte e lei deve restare a casa. Lui deve uscire là fuori e cercare una persona che si è persa. La bambina lo guarda con occhi spaventati. Quella bufera mette davvero paura, dalle finestre non si distingue più nulla di ciò che c’è intorno alla casa, è solo tutto bianco e terribilmente uguale. L’uomo prima di andare da’ una pistola alla bambina dicendole che se non fosse tornato entro un certo tempo (che non ricordo), avrebbe dovuto aprire la porta e iniziare a sparare dei colpi in aria. Il rumore degli spari, infatti, sarebbe stato l’unica cosa che lui avrebbe potuto distinguere in quell’inferno di neve per poter ritrovare la direzione giusta, verso casa. La bambina fa cenno di aver capito, e l’uomo esce di casa e dopo pochi passi scompare alla vista. Lei, impaurita, si tiene istintivamente alla pistola, tenendo il conto dei minuti che passano. Si accorge che il tempo prestabilito è quasi scaduto. Aspetta ancora un po’, ma non vede nessun’ombra avvicinarsi. Allora si fa coraggio e apre la porta. Si mette appena un po’ fuori la casa e inizia a sparare. Uno, due, quattro, cinque colpi. Niente. Non vede arrivare nessuno. I colpi finiscono. L’uomo si è perso nella bufera. Presa dal panico, torna subito in casa e cerca una pentola e un utensile di ferro. Ha un’idea. Corre fuori e fa l’unica cosa che le sembra possibile: continuare a fare più baccano possibile per far si che l’uomo possa sentire un qualche suono, anche flebile, scandito con un certo ritmo e ritrovare la strada. Batte l’utensile sulla pentola con tutta la forza che ha. Come se non ci fosse nulla di più importante al mondo. Senza sentire il freddo e la fatica e il braccio che inizia a farle male. Dopo un po’, finalmente, inizia a scorgere qualcosa. Un’ombra più scura in tutto quel dannatissimo e vorticoso bianco. L’ombra si avvicina e prende sempre più la forma di un uomo, con una donna in braccio. La bambina scoppia in un sorriso stupendo e ancor di più mentre velocemente rientrano nella casa di legno, al caldo.

Magari a questo punto qualcuno si starà chiedendo se il film intero non fosse effettivamente di gran lunga più interessante, ecco. Io restai incantata e sul punto di finire in lacrime, tanto che mi emozionai. Credo perchè in quel momento, come a volte capita con una canzone o con un libro, quella scena stava interpretando un qualcosa che facevo ancora fatica a capire ma che era nella mia testa già da un po’.

Mi sono sempre chiesta cosa fare quando una persona che ami, per utilizzare ancora le immagini del film, finisce suo malgrado in una bufera di neve o ci si butta dentro in maniera consapevole perchè sa che è lì che deve cercare le sue risposte e da nessun’altra parte, nonostante tu stia lì a ripetergli che potrebbero esserci altri mille modi per trovarle. Cosa fare quando il cuore ti si spezza nel vederla perdersi e soffrire e non poter far nulla per aiutarla. Perchè il tuo aiuto effettivamente non serve. Ha bisogno di stare lì da sola, di farsi domande, di incontrare altre persone nella sua stessa bufera, imparare e dare consigli che poi magari servono anche a lei. E capire. Crescere dentro. Mentre tu resti lì come un’idiota, incapace di decidere cosa fare. Perchè l’istinto ti direbbe di seguirla. Di non lasciarla da sola. Con il risultato grandioso di perderti a tua volta in una bufera che per quanto brutta possa essere, per te lo è ancora di più perchè ti è totalmente estranea. In qualche modo non è la tua bufera. E’ la sua, e vi siete persi entrambi. Non riuscite nemmeno più a vedervi. Un disastro. E ne farai tesoro, certo, ma ti porta di nuovo punto e a capo. Ti ritroverai di nuovo sull’uscio della porta senza sapere cosa diavolo fare.

Poi magari ti ricordi di tutte le volte in cui sei stata tu quell’uomo pregando chiunque provasse a tenerti per la giacca di lasciarti andare perchè non era altro che una questione che avevi da risolvere con te stessa e nessun altro.

E così nel momento in cui mi sentii così solidale sia all’uomo che alla bambina del film, si è come accesa una lampadina. Che, vabè, nel mezzo della bufera è come accendere i fari nella nebbia, lo so. Sembra una soluzione, ma non è che risolva granchè. E’ più un’indicazione, un aiuto, un’alternativa. Io direi, un gesto d’amore.

Dire a quella persona vai tranquilla, che qui resto io. Finisci dritta tra le tue paure e le tue domande. C’è una sola cosa che devi ricordarti di fare, nel caso non riuscissi a tornare più. Nel caso fosse tutto sfocato per poter distinguere un albero o una casa o un punto di riferimento qualsiasi. Ricorda di tenere ben aperte le orecchie. Io sarò qui a fare più casino che posso, proverò ad urlare più della tempesta e tu potrai ritrovare l’orientamento quando lo vorrai.

Mi allontanai dalla tv con gli occhi lucidi. Non era solo una cosa davvero intelligente, ma davvero piena d’amore. E adesso l’ho pure scritta qui, nel caso la mente dovesse tradirmi, so almeno dove cercarla. Dovessi mai perdermi..

* . . . Lezioni Di Vita…E Di Eyeliner! . . . *

“Nonono, levati quell’espressione diabolica dalla faccia!” dissi ad A. tuffando di nuovo il naso nella sezione a T.

“E daii dai su, che non ci metto niente, non puoi tenerti quello sgorbio che ti sei fatta tu, te lo metto io! Struccati che ci penso io!!!”

“Ma guarda che non devo andare chissà dove, andiamo solo a comprare un regalo, capirai…”

“Non fa’ storie, va a prendere l’eyeliner!”

A. sa essere molto convincente quando vuole. E, ho scoperto, bravissima. E poi la vanità è donna e di fronte ad un’inaspettata lezione di eyeliner la volontà si piega facilmente. E mi resi conto che non potevo aver acquistato un eyeliner e non sapere da dove si comincia ad applicarlo decentemente.
Sembra che stia qui a parlare di cose poco importanti ( ! ), ma vi assicuro che è una questione più difficile di quanto si possa immaginare.
E’ una storia di geometria, mano ferma, gusto estetico e tecnica. E tanta pratica. Su di me. Si perchè l’altro pomeriggio, A. si è divertita un mondo. Un po’ meno quando si è guardata allo specchio, per controllare cosa le avevo combinato sicura di aver imparato in fretta.
E dipende anche dal colore. Qualunque colore tranne il nero è sempre più gestibile. Perchè altrimenti è facile fare questa fine qua:

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e passare da un tocco d’eleganza ad una maschera da panda non è proprio un gran risultato. Specie se, più tardi, le altre tue amiche con cui devi vederti decidono che il moro commesso di Calvin Klein sia giusto per te, lui ti guarda sorridendo e tu progetti un omicidio di massa, anche se due secondi dopo, appena fuori, abbiamo riso come matte (da ricordare la borsa da 400 €, non ne avevo mai vista una da così vicino).

Ci sono volte in cui le persone riescono a stupirti quando meno te l’aspetti. E sulle cose più banali. Riescono a farti ridere, a svelare talenti (tuo malgrado), ad insegnarti qualcosa, a metterti di buon umore e a regalarti una prospettiva della giornata diversa da quella che avevi tu…
“Tu sei la causa di me-come-tu-mi-conosci” dice Richard Bach. Devo averne già parlato tanto tempo fa e mi è tornato in mente adesso. Se qualcuno nei tuoi confronti si pone in maniera diversa, nuova e migliore, il merito è anche un po’ tuo. Sei tu che hai una luce diversa negli occhi (e l’eyeliner non c’entra!) che non significa per forza essere innamorati, quanto più che intorno a te nuovi spunti e punti di vista stanno allargando i tuoi orizzonti, così come si allarga il tuo sorriso e si rinnova la tua voglia di fare, di imparare, di sorprenderti e allora chi ti è intorno tira fuori nuovi aspetti di sè che mai avresti conosciuto se non avessi prima conosciuto di più te stessa.

Ed è da qui che poi viene tutto il resto…

A proposito, ecco il lavoro di A. … adesso devo solo riuscire a riprodurlo 😛

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*…Quando Si Dice Che Il Viaggio è Più Importante Della Destinazione…*

Ovviamente bisognava omettere qualcosa. Quando si ha un’unica possibilità, poche righe a disposizione e un’occasione più unica che rara di cui approfittare… beh, c’è da mettersi davvero d’impegno. Di certo non si poteva far riferimento a cose specifiche. Cose che in quelle righe non potevano aver posto, ma che l’avranno sempre nella mia testa, nel mio cuore e che gridano e pretendono da me di essere capite e apprezzate fino in fondo, davvero davvero in maniera completa, come nessuno mai potrebbe, come è giusto che sia. Non si sarebbe mai potuto far riferimento a tutte le volte che i sorrisi scaturiti da incontri casuali sono rimasti sul mio viso, non senza incertezze nei passi, nelle parole e spesso anche nei pensieri, tutte le volte che quei bricioli di euforia sono stati fondamentali per portare euforia anche in tutto il resto della giornata, o a tutte le volte in cui lunghi sguardi son finiti ben dietro gli occhi o altre volte in cui la testa finiva per vagare per altre vie, mentre i miei passi seguivano, per fortuiti casi, quella che percorreva precedendomi. Le innumerevoli volte che mi son svegliata, al mattino, con la sua immagine nella testa, perchè da qualche altra parte ci si era incontrati, in circostanze assurde, improbabili, ma che, sempre sorridendo, ricordavo di tanto in tanto durante la mia giornata piacevolmente, tanto da credere fermamente che in fondo tra sogno e realtà non c’è alcuna differenza, se in fondo ci sono sempre io, sia dall’una che dall’altra parte, io con i miei pensieri e i miei sentimenti e le mie sensazioni, come un continuo, un tutt’uno inseparabile. Ma come ci si potrebbe, in fondo, separare da queste cose senza togliere significato a tutto ciò che di materiale ci circonda o a tutte le persone che abbiamo scelto di avere intorno, nella nostra vita? Lui c’era. E per qualche motivo ben valido, pure. Che poi non fosse esattamente lui ma ciò che di fisico è possibile percepire con gli occhi, insieme a qualche sensazione su ciò che potrebbe essere al di là di quelle percezioni, aggiungendo qualche traccia di personalità presumibile dalle poche parole sentite… è effettivamente limitativa come cosa. Ma era abbastanza. Almeno per quelle minime intersezioni dei miei passi con i suoi. Perchè niente di più era possibile ottenere, perchè c’era da aspettare una bella, grande occasione, che tra le altre cose mi avrebbe permesso di rendere quelle intersezioni, beh, “meno minime” almeno di un po’. Alla fine però tutte le mie scelte, ogni decisione, ogni tassello che ero più che certa stava a costruire ciò che avevo sempre pensato, a lungo termine hanno costruito tutt’altro scenario. Avevo già scelto, inconsapevolmente, di andare altrove da ciò che avevo immaginato. Almeno a saperlo prima! Sarei arrivata più preparata a quel momento. Ma come si fa ad arrivare preparati ad un qualcosa che nemmeno si ha idea di cosa sia? Perchè non si è consapevoli, fin da subito, di tutte le coseguenze delle nostre scelte? Perchè si vive nel frattempo all’oscuro di ciò che “ci siamo riservati” per il futuro? Credo che il segreto sia in ciò che possiamo imparare, durante quel tempo, dagli ostacoli che scegliamo per noi stessi, come se fosse un gioco in cui riesci ad evolverti, a maturare, non prima di aver sconfitto il nemico di turno, o superato il muro di cinta alto abbastanza  da farti imparare, che la prossima volta, non avrai bisogno di nessun muro e di nessun nemico e di nessun intoppo e nessuna occasione speciale per fare ciò che vuoi davvero fare. Già perchè crollato il muro, resti tu, da sola, davanti al tuo obiettivo. Allora lì inizi con tutta un’altra serie di domande. E’ davvero ciò che voglio? Non è che ne rimarrei delusa, infastidita, o mi incastro in qualche situazione spiacevole per cui in fondo quel muro era pur sempre una sorta di protezione? -Aspetta un momento- pensi. -Cos’è che ho scritto prima? “Ciò che vuoi davvero fare”. E credo, che non ci sia nient’altro che conta, una volta cancellate una ad una tutte le suggestioni negative-. E qui si torna a quella possibilità, che forse era, ancora una volta, una maniera per dimostrare a me stessa ciò che dall’inizio si era prospettato. O che forse non lo sarà, chissà. Di nuovo, non so nello specifico chi o cosa ho riservato per me nel futuro. Ma questo basta a rinnegare tutto? A dire che è stata tutta un’enorme perdita di tempo, una stupidaggine? NO. Nonostante l’estenuante sensazione di attesa, nonostante fosse soltato un’idea a piacermi, beh, mi piaceva. Mi piaceva. E soltanto per questo, ne è valsa la pena. Una cosa bella, che di più belle non ne esistevano, per quel poco che fosse, per quello che rappresenta per me. In poche righe si possono mandare dei segnali impliciti a qualcuno, e segnali molto più espliciti a se stessi. E per ciò che riguarda me, sono contenta, almeno di esser riuscita ad essere me stessa e di aver imparato tanto.

E sono già contenta, adesso, per tutto ciò che di bello, ancora, deve venire.