Il numero di gocce di pioggia

picture by idalia candelas

Gli ultimi dieci minuti della pausa pranzo decido di sfruttarli per rilassare un po’ la schiena, dal momento che passo molte ore seduta. Mi stendo sul divano con le gambe sul bracciolo e le mani dietro la testa. Davanti a me la tenda del balcone è aperta per metà e oltre il vetro riesco a vedere un perimetro irregolare di cielo. In parte è occupato da una nuvola che da un lato è tonda, dall’altro è sfilacciata, come se fosse un pezzo di zucchero filato che qualcuno ha appena tirato dal bastoncino.

Quel mattino, presto, ero stata al centro vaccinale. Appena varcato il cancello c’era un gazebo di accoglienza, una signora in divisa con un foglio in mano che chiamava nomi. Gente seduta, in piedi, in fila, al telefono sparsa qua e là. Ero finita in una di quelle scene viste decine di volte al telegiornale. In un attimo mi sono resa conto che nel mentre di questa pandemia prima o poi, in un modo o in un altro si rientra a far parte di uno di quei numeri delle colorate infografiche del Governo. Io stavo per diventare un più uno a quello che conta sedici milioni e dispari di persone che hanno ricevuto la prima dose. Una dose, però di ansia, si è aggiunta a quella che mi ero portata da casa a patto che se ne stesse buona con le cuffie nelle orecchie e senza dar fastidio.
Il concetto dietro ad ogni tipo di vaccino è inverso a ciò a cui siamo abituati. Se stiamo male ci faremmo iniettare qualsiasi cosa pur di guarire. Partire dallo stare bene e assumere qualcosa che potrebbe recarci qualche effetto collaterale sembra folle. Tuttavia come accade con qualsiasi cosa della vita finché non ci capita un contatto con il pericolo non sviluppiamo nulla dentro di noi che serve a proteggerci. Il vaccino fa accadere questa cosa, ed è una cosa intelligente, anche se per i miei gusti dovrebbe farlo attraverso qualcosa che non sia un ago.

La mia ansia in generale non è d’accordo con nessun ragionamento sensato, ma poi quando sono entrata nella saletta di attesa post-vaccino, quella per stare in osservazione un quarto d’ora prima di poter andare via, ero un po’ emozionata. In qualsiasi cosa, seppur confortevole, ben arredata, fossi rinchiusa da un anno a questa parte, avevo iniziato a metterne un piede fuori. Il quarto d’ora è passato in fretta non appena si è seduto un signore di settantaquattro anni vicino a me che ha iniziato a raccontare del vaccino per il colera, passando per un paio di avventure pericolose che gli erano capitate e finendo sugli orari delle medicine che prende regolarmente per la pressione.

La nuvola si muove piano verso destra. Mi chiedo se mai qualche volta possiamo prescindere dalla forma. Prima di prendere appunti pensiamo al quaderno adatto, prima di fare una torta ci preoccupiamo del ruoto giusto. La moltitudine va racchiusa in numeri. Eppure nessuno, nemmeno durante il peggiore dei temporali potrebbe dire con esattezza quante gocce di pioggia cadono libere da quelle forme che creiamo con la nostra mente.

Avanzi di pensieri della domenica sera

la mia primula

Per quanto io possa interrogarmi sulla questione, ormai sono certa che una risposta univoca non esiste.
La domenica è quel giorno della settimana che mangi. Punto. Senza se e senza ma. Mangi. Qualsiasi cosa ti capiti a tiro.
A colazione c’era la torta alle arance del weekend, che a stamattina era arrivata per miracolo. Pranzo, vabé quello è un delitto premeditato. Il radicchio in frigo aspettava il suo turno da qualche giorno. Una cottura al vapore, una frullata con noci, pistacchi, olio, aglio e formaggio spalmabile, un’unione con pancetta e cipolla che nel frattempo sfrigolavano in padella. Un lancio di fusilli integrali e dadini di mozzarella. E la dieta l’abbiamo uccisa. Prima, tra un’aggiustatina di sale qua e di olio là, ho preso un po’ di pizza avanzata che avevo fatto ieri sera per inaugurare il ruoto che ho preso per cuocere al microonde. Chiamiamolo aperitivo.
Alle 17 sembrava l’ora di uno spuntino e quel che era rimasto della pizza è andato. Alle 17:30 si decide per una tisana alla melissa che si è tirata dietro tra le sue fila un biscottino al cioccolato. A cena di solito si fanno fuori gli avanzi. Se non ci sono quelli, il fatto diventa pericoloso: la domenica sera non si cucina nulla di canonico, al massimo ci si infila in qualche esperimento culinario. Tipo, la settimana scorsa, son venute fuori delle crepes di farina di castagne che hanno dato il meglio di sé con i wurstel e non con la marmellata.

Ha aspettato il primo giorno di sole di tutto l’inverno per sbocciare.

Quando l’ho portata a casa aveva un solo fiore sciupato. Gli altri boccioli erano tutti a testa in giù. Non mi sembrava un buon segno. Poi sono venute piogge fortissime e una decina di giorni di freddo gelido.
La vera questione che avevo per la testa oggi riguardava la libertà. Spesso si pensa che quando quella o quell’altra situazione finirà, allora finalmente ci si sentirà liberi. Allora mi ci sono proiettata mentalmente, a quel momento. Mi sono seduta a terra vicino alla primula. Ho sentito il sole sul viso e il vento leggero e ancora freddo sulle braccia. Non ho visto nulla di diverso. Nel senso, non c’era quel che mi aspettavo. Non c’era nulla. Perché le cose non accadono quando smette di fare freddo. La libertà non è un interruttore. A volte si confonde la mancanza di libertà con la mancanza di un progetto. Insomma, siamo sicuri di sapere cos’è che è bloccato, cos’è che vorremmo realizzare mentre quel qualcuno o qualcosa ce lo impedisce? Oggi mi sono accorta che stavo aspettando niente. Quelli che avevo in testa erano avanzi di qualcosa che non esiste più o che pensavo esistesse, perché viveva in un’idea di mancanza. E invece quel che ci sarà è quel che c’è già adesso. Perché nessuna pioggia di solito inaridisce un desiderio.

Attraverso quel punto

Insomma, non lo so.

Non lo so come si fa.

Guardo questa pagina bianca e mi dico, non lo so.

Come si fa a guardarsi dentro e tirare dalle trame dell’anima qualcosa che abbia vagamente senso dopo, ecco.

Dopo la morte.

Tipo, come funziona adesso quella cosa per cui ad un certo punto mi fermo e mi metto a scrivere una o due ore durante la giornata? Ammesso che ci riesca, guardando il mondo, cosa ci vedo adesso? Servono tutt’altri perché e percome a sorreggere la realtà, adesso.

Mi sembra dissacrante legarmi con le parole alle mie sensazioni, come se mi cucissi ad una realtà che ora so può svanire da un momento all’altro.
Perché forse l’unica domanda alla quale vorrei risposta è dove sei adesso, cosa stai facendo? E la risposta non appartiene a questi spazi e a questo tempo. Mi sembra altrettanto stupido costruirci intorno castelli di parole che non arriveranno mai nemmeno a sfiorare il cielo.

Se tutto cambia affinché non cambi nulla, allora dovrei riconoscere sempre un punto in mezzo al tutto che è sempre lo stesso, qualsiasi cosa accade. Lo stesso punto da cui si nasce e si muore. Quello attraverso il quale tu mi hai portata due volte, quello per cui passa quel filo che ti ho promesso sarebbe rimasto sempre uguale e sempre nostro.

E mi sento come nata di nuovo in una nuova consapevolezza del mondo.

Oggi specchiandomi nella postazione del parrucchiere mi son vista finalmente trentenne e ho dovuto lottare con una lacrima che stava per sfilare proprio lì davanti a tutti. E ho capito che volermi bene è un modo per continuare ad avere cura di te.

E’ stato come cercare di trattenere l’acqua con le mani.

E se la vita può andar via così, prima di aver finito di fare tante cose, prima di aprire quella scatola di cioccolatini o aver indossato quel vestito nuovo, prima di aver festeggiato o lavorato o pianto per quelle altre battaglie, allora che stiamo a fare qui? Insomma, deve continuare da qualche altra parte. Devi esser saltata in un’altra realtà. Una in cui non esiste il tempo o lo spazio o magari tutti e due. Si perché questo spazio-tempo deve avere dei confini molto più sottili di quelli che immaginavo, anzi, che non immaginavo. No, perché uno non ci pensa mai alla morte. Non sta né sulla lista della spesa, né su quella dei documenti da presentare per il 730, né tra le possibili destinazioni di una vacanza e nemmeno tra gli annunci di lavoro. Invece fa parte della vita e ho come la sensazione, forte, che risieda lì un qualche profondo senso di libertà, felicità e di vita.



Elogio del selfie

Oggi, scorrendo le bacheche di alcuni social, mi chiedevo se davvero stiamo vivendo uno dei periodi più vanesi della storia dell’umanità, dal momento che vengono pubblicati con una continuità impressionante selfie di ogni tipo e da ogni parte del mondo.

Noi utilizzatori della fotocamera interna dei nostri cellulari siamo davvero così tanto vanitosi? E’ giusto bollare la questione in questi termini e basta? Creare nostri autoritratti è davvero qualcosa di così superficiale, così da millennial ed egoriferito?

Siamo diventati semplicemente dei cultori dell’io o c’è dell’altro?

Ecco, io credo di si. Sento ci sia da spezzare qualche lancia a favore di questi selfie.

Parlo a chi almeno una volta nella vita ha provato quella sensazione di completo smarrimento e terrore che nasce dal trovarsi l’obiettivo di una macchina fotografica puntato addosso. Sensazione che si trasfigura attraverso il processo di acquisizione dell’immagine dell’apparecchio fotografico in smorfie terribili, sorrisi tirati, espressioni spaurite o totalmente inespressive.

Nel tempo ho capito che molto dipende da chi ci sta fotografando. In qualche modo finiamo per apparire nel modo in cui quella persona ci vede davvero. E non sempre quel che ne viene fuori è un feedback positivo.

Un’altra buona parte della fotografia dipende da cosa noi pensiamo di noi stessi. Una percezione che può cambiare nel corso della vita ma anche della giornata. Su questa parte qui si può lavorare, certo, nel corso della vita ma spesso della giornata.

Ma sull’altra? Non abbiamo gran margine di decisione. Non tutti abbiamo tra parenti e amici dei fotografi professionisti, di quelli che flirtano con le modelle attraverso la loro Reflex e le decine di obiettivi costosissimi ad essa anessi. Al massimo ci è capitato uno zio che ci ha inquadrate dal basso verso l’alto, un’amica che ha chirurgicamente scovato un rotolino sul fianco che non ti eri mai vista in vita tua, per non parlare delle foto in cui abbiamo gli occhi chiusi, le luci a sfavore o il trucco sbavato.

Allora, se la fotografia in fondo è un’arte, un modo di esprimere sentimenti, emozioni e il proprio modo di vedere il mondo, in un quadro di questo genere, abbastanza deprimente, credo che il selfie ci abbia salvati. Siamo finalmente riusciti ad eliminare il terzo incomodo tra noi e l’obiettivo.

Non dobbiamo pregar nessuno di fotografarci a raffica finché non viene la foto giusta. Dipende solo dalla nostra pazienza e testardaggine. Nessun imbarazzo per le foto in cui siamo orribili, tanto basta cancellarle subito e nessuno le guarderà mai. Possiamo scegliere luci, posa, luogo preferito senza dover spiegare nulla a nessuno. Possiamo osservarci nello schermo senza alcun tipo di condizionamento e imparare a piacere a noi stessi prima che a chiunque altro. A guardarci bene dopo un po’ riusciamo perfino a scovare i nostri stessi pensieri in una ruga di espressione, nel lato verso il quale incliniamo la testa e nell’angolo che assumono i nostri occhi che tuttavia continuano ad essere lo specchio della nostra anima.

E sapete, c’è qualcosa di molto intimo e personale in questo. Quella piccola finestra sul nostro mondo interiore, nel momento dello scatto, resta a nostra disposizione soltanto e non alla mercé di qualcuno che nemmeno ci conosce poi così bene.

Così mentre ci osserviamo ben bene prima di scattare la foto, possiamo perfino scegliere.

Scegliere di mostrare quella tristezza o trasformarla in allegria, di lanciare una corda ad un qualsiasi altro sentimento che può così risalire dai punti più nascosti e profondi di quell’abisso interiore, protetto da sguardi indiscreti e quindi libero di essere se stesso. Il selfie in qualche modo ci ha restituito la libertà di esprimerci e mostrarci al meglio di noi stessi -o al peggio, ma consapevolmente, forse- purché, ecco, non si trasformi sul serio in una sorta di culto della propria immagine fine a se stesso.

Che io credo che la vanità non sia un difetto, anzi. Quest’epoca è piena di spunti e sproni a rimettere noi stessi al centro della nostra vita. Tutti i vari qui e ora, l’attenzione a ciò che mangiamo, il fitness, i divorzi brevi. Possiamo davvero costruire la nostra vita praticamente su noi stessi e basta. E in un attimo la vanità diventa narcisismo.
Quindi, attenzione.

Gli effetti collaterali della libertà

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Disarm – Pawel Kuczynski

Ieri sera sul tardi girando tra i canali della tv mi sono fermata ad ascoltare un frammento di intervista a degli esperti di cose varie nel quale si parlava dei genitori che sempre più spesso attaccano gli insegnanti dei propri figli ogni qualvolta questi ultimi tornano a casa lamentandosi di un brutto voto o di un rimprovero ricevuto a scuola.

Uno di questi esperti ad un certo punto ha detto:

“E’ una sfiducia tra adulti.”

Una frase buttata lì, in mezzo a tutte le altre. Un pezzo di discorso. Eppure nella monotonia delle voci che stavano facendo da sottofondo ai miei pensieri che iniziavano ad assumere pian piano la forma di un cuscino sul quale abbandonare la mente nonostante la sede -il divano- non fosse la più adeguata, quella frase è suonata in modo diverso. Mi ha colpita. L’ho ripetuta nella mia testa.

Sfiducia.

Adulti.

Sfiducia. Tra adulti.

Ho preso il cellulare e ho aperto l’app che uso per annotare le cose quando non ho a disposizione carta e penna. Un’insalata di post-it virtuali su cui ci sono segnati nomi, link di ricette abbandonati, idee, ricerche da fare, ispirazioni andate a male per esser state lasciate lì a prender aria per troppo tempo.

Scrivi nota. 

Dunque. Un titolo? No. Una breve introduzione? No, era troppo tardi per pensarci su. Alla fine l’ho segnata così. E’ una sfiducia tra adulti. Ho premuto due volte il tasto per tornare alla home, mi sono sforzata di tenere gli occhi aperti il tempo di raccogliere le energie e farmene una ragione del fatto che dal divano sarei dovuta arrivare al mio letto, in qualche modo.

Sapete, uno a volte pensa che il mondo va a rotoli semplicemente perché oggi ci sono molti meno tabù e meno regole ferree da rispettare. Un tempo perfino un’autista di autobus come mio nonno era rispettato come un pubblico ufficiale alle poste o dal salumiere. Gli autisti di oggi nemmeno portano più la divisa. I bambini e i ragazzini sono figli dei social network affidati a genitori che biologicamente li hanno generati, sì, ma non hanno altro compito che nutrirli e comprare loro il necessario per sopravvivere nel mondo insieme ai loro fratelli nativi digitali. Nessun insegnante è più utile di Wikipedia, a meno che non sia in grado di inventare ogni giorno qualche nuovo numero per attrarre la propria platea.

Poi ho sentito quella frase ed è stato come dare una terza dimensione a qualcosa che finora ne aveva solo due. Una sorta di profondità.

Allora li ho visti. Gli autisti di oggi, i genitori, l’insegnante giocoliere. L’ho sentita. La sfiducia. Non una qualunque. Una specifica. Quella nel prossimo.

Ecco tutto. Forse i tabù di un tempo definivano dei ruoli e questo creava fiducia tra le persone. Poi tutto è cambiato. Oggi ci ripariamo dietro gli smartphone per evitare di incrociare gli sguardi degli altri. Siamo convinti di essere autosufficienti finché non ci confrontiamo con il male fisico e sentiamo come una sconfitta l’aver bisogno di qualcuno che possa aiutarci. Siamo terroristi da tastiera ogni volta che in realtà potremmo semplicemente esprimere un tacito dissenso e c’è la violenza dei ragazzini che hanno le teste bacate dalle serie tv nelle quali le persone muoiono per finta, ma in hd.

E cavolo è davvero assurdo che di tutta questa libertà siamo in grado di viverne quasi più gli effetti collaterali che le conquiste per cui tanti prima di noi hanno lottato.

Quel che per una lacrima è soltanto coraggio

Fintanto che si trova alla fine della rima inferiore dell’occhio, come se ne fosse un’appendice fatta d’acqua, senza una vera forma, semplicemente incastrata tra le pieghe d’espressione del viso, è al sicuro. Si affaccia appena sullo zigomo tenendosi aggrappata con tutta se stessa a dei piccoli solchi nella pelle, accomodandosi in essi e nascondendosi all’ombra del ventaglio di ciglia che la sovrasta.

Guarda giù dal suo nascondiglio. Si ritira e poi si sporge di nuovo, questa volta però un po’ in meno. C’è una sommità e oltre quella non si riesce a vedere cosa c’è.

Pensa.

Cosa accadrebbe se scivolasse per sbaglio? Cosa c’è lì fuori? E se per caso un gioco di luci le facesse uno scherzo attraversandola, proprio mentre si lascia cadere giù, prendendo velocità per superare quel punto altissimo e se lei brillasse suo malgrado rivelandosi per qualche frazione di secondo e se qualcuno attratto da quel luccichio improvviso si voltasse per guardarla? Cristo! Come potrebbe spiegarsi? Non avrebbe scuse, nessun alibi, era lì, è passata ed è stata vista, certo che sì, non c’erano ombre a nasconderla, nessuno che la raccogliesse senza essere a sua volta scoperto!

Sarebbe sola. Nuda e trasparente. La forma data dall’aria che le fa resistenza mentre corre verso il basso sulla pelle. Chiunque, come quella stupida luce, potrebbe passarla da punto a punto con lo sguardo e lei non avrebbe alcun modo per difendersi. La libertà le costerebbe un tratto da percorrere senza veli, sotto ai riflettori, senza ombre che la proteggano. Non può essere se stessa senza esporsi e rischiare di essere riconosciuta e additata da sguardi annebbiati da accenni di stupore.

Perché?

Loro direbbero insicurezza.

Quel che per una lacrima invece è soltanto coraggio.

 

 

ComeDiari #10: A Tutti Voi Che Ve Ne Siete Andati

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I legami non si spezzano. Per loro natura è impossibile.

Se lo sembrano allora vuol dire che non sono mai esistiti.

Perché chi AMA non sparisce. Chi AMA non distrugge. Chi AMA si informa, chiede, spiega.

Chi SE NE VA lo fa per disinteresse. Perché ha di meglio da fare. Perché si sente in colpa o fuori posto. L’amore non concepisce il disagio, anzi.

Io mi sono accanita su delle cause perse. Ho difeso quelli che credevo fossero legami veri. Legami tra “esseri umani”. Ogni volta sono rimasta a difendere una cosa che non esisteva.
Pensavo -Vai, vai tu, qui ci penso io-.
Riattaccavo insieme i pezzi con la comprensione e l’accettazione di quel che non potevo capire delle vostre vite mentre della mia fiducia ne avete fatto macerie usando semplicemente l’indifferenza.

Adesso mi sento libera. Non ho nessun dovere, nessun tacito patto con la vita da rispettare. Non esiste un legame, quindi non esiste niente di cui prendersi cura, da custodire e amare.

E la LIBERTA’, sapete, ha un seducente profumo di futuro e di possibilità.

Grazie per esservene andati a fanculo senza aspettare che ve lo chiedessi io.

Un Uovo E’ Per Sempre

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Immancabilmente quando mi capita di avere soltanto delle uova in frigo io penso a Maggie.

Maggie non era stronza. Maggie era solo indecisa e soprattutto aveva una gran paura di lasciarsi andare. Questa cosa, in una delle scene che preferisco di Se scappi ti sposo, viene scoperta dall’uomo che la ama davvero, il giornalista Ike Graham quando indaga per scoprire il motivo per il quale lei scappa sistematicamente dall’altare a pochi minuti dall’inizio dei suoi matrimoni. Parlando con i suoi ex, infatti, viene a sapere che Maggie alla domanda come preferisci le uova aveva dato ad ognuno di loro risposte diverse perché non era mai riuscita a decidersi sul tipo di cottura che le piaceva di più. Da qui capisce che le sue fughe nascono dalla paura di deludere le persone che di volta in volta le capitano accanto, senza mai prima chiedersi cosa in realtà desideri davvero per sé, cosa possa renderla felice.

Alzi la mano chi ha visto il film e non si è mai posto, con una certa preoccupazione, la questione uova.

Non che la risposta abbia una vera attinenza con la vita sentimentale di ognuno di noi, ma più in generale mi sono accorta che non c’è poi tutta questa voglia di porsi delle domande. La parola indecisione si sta sbiadendo sullo sfondo di una non-necessità di scegliere. Oggi possiamo avere tutto, o al massimo, abbiamo tante possibilità diverse e nessun bisogno di prendere decisioni definitive. Tanto basta provare. Chi si prende la briga di scappare dall’altare quando ormai si può divorziare in fretta? Una coppia come un lavoro non è detto possano durare per sempre così come è stato per i miei nonni e genitori.  Stiamo diventando un po’ tutti cultori del qui e adesso il che da un lato ci rende più versatili, cittadini del mondo con menti elastiche, pronti ad affrontare qualsiasi avversità, ha fatto si che si superassero schemi mentali chiusi e dannosi, dall’altro ha sparso abbastanza superficialità nelle nostre vite. Ci si può prendere la responsabilità di un ti amo limitata al tempo impiegato per pronunciarlo, che i sentimenti in realtà non abbiano scadenza breve come le emozioni è soltanto una piccola incongruenza non prevista.

Io nemmeno so bene in quale modo preferisco cucinare le uova, anzi, ho deciso che dipende dal momento, dalla voglia e dal tempo che ho e comunque continuerò a scappare da occhi come quelli di F. che non riescono a spalancare i miei più di tanto, perché al di là di ogni paura e indecisione non può esserci vera libertà se poi sono finte le farfalle nello stomaco.

Chi Sei, Charlie?

L’altro giorno ho visto una vignetta, c’era un Maometto visibilmente preoccupato seduto sul lettino dello psicologo che si chiedeva com’è che gli altri profeti hanno followers con più senso dell’umorismo e lui no.

La cosa che preoccupa me, invece, è l’enorme confusione che regna tra tutti noi che siamo stati spettatori di quel che è successo. Da chi ha sentito gli spari fino a tutti quelli che come me hanno appreso il fatto ad esempio alla radio, tra una canzone e l’altra, tornando a casa a fine giornata. Tutti d’accordo sul non si uccide, specie chi è disarmato. Poi però le opinioni viaggiano su sensazioni diverse.

C’è che così, d’istinto, in tanti si sentono Charlie, come se di fondo fosse stata ucciso il potere, anche potenziale, di ognuno a dire ciò che vuole su chiunque. Da qui c’è il comunque non lo farei oppure satira si, ma non si offende. 

Chi stabilisce se una cosa è offensiva o meno? Chi decide se chi si offende lo fa a ragione o a torto?

Poi, guardando bene, in controluce, c’è pure il voglio sia la libertà di esprimermi che quella di offendermi. Sarebbe lo stesso dire che una religione è più rispettabile di un’altra. Siamo proprio sicuri che se ad esser preso di mira fosse il cattolicesimo, la Curia non avrebbe proprio, ma proprio niente niente da ridire?

C’è chi pensa che il problema sia il terrorismo e non la religione perché non tutti gli islamici sono criminali, altri per cui si, non sono tutti criminali ma alcuni sono integralisti e quindi è pure peggio. E’ vero che tutti i terroristi sono estremisti o che tutti gli estremisti pur non essendo terroristi cercano in un modo o nell’altro di imporre la propria cultura emarginando gli occidentali, alla faccia dell’integrazione?

Qualche voce d’altro canto afferma io non sono Charlie, che c’ho il mutuo da pagare, guardiamoci bene in faccia per favore. Sul web, sotto al viso di un poliziotto ucciso compare la frase si però io sono morto per difendere la libertà d’espressione di chi prendeva in giro la mia stessa religione. Poi magari da chissà quale aldilà starà imprecando perché quello gli è toccato e basta, che aveva mutuo e famiglia pure lui.

Una cosa soltanto ho capito, ed è che questi attentati hanno spogliato miriadi di false convinzioni e tutti nudi, adesso, si corre qua e là per provare a ripararsi dietro le poche spiegazioni rimaste in piedi, dopo uno scossone del genere. E’ questo che mi par di vedere. Confusione pazzesca. Quel senso di smarrimento e disillusione nei confronti di politica, religione e società occidentali che ha portato alcuni in Europa ad arruolarsi tra le fila di guerre sante. A me tutto questo fa spavento.

M’è preso quasi da piangere guardando tutte quelle matite alzate al cielo, ma se sono o no Charlie sinceramente non lo so. E non so nemmeno se sono una follower con più senso dell’umorismo d’altri, che alla fine il livello di fastidio lo percepiamo tutti ad altezze diverse. Diverse come le emozioni che questa storia ha suscitato in ognuno, come le religioni, come le convinzioni, come le culture, come i confini tra libertà e rispetto…

Davvero, ma come si trova un metro di giudizio unico in tanta diversità?

Vorrei riprendere dall’inizio tutto, e capire sul serio Charlie chi è.

Aria

Ho sempre, sempre pensato che se fossi una musica, sarei questa. Non so perché. Chiudendo gli occhi e ascoltandola riesco a ritrovarmi. Aria. Per respirare. Profondamente, ossigenando i pensieri. Per sentirmi leggera lasciando andare quelli negativi, vecchi, consumati e inutili. Leggera e quindi serena, libera.

Libera da quel senso di disagio che si ferma alla gola, delle volte, come un respiro trattenuto troppo a lungo.

Libera come un silenzio scritto con le dita su un vetro.

Libera di viaggiare nell’aria, come musica. Di sentirmi musica. E di correre più veloce di un sogno per aspettarlo al traguardo con un sorriso e tranquillizzarlo, che in fondo è andata bene, ci siamo ritrovati.

Aria.