Dall’altro lato

Il mio pop-it

Poggio sulla cassa del negozio cinese i miei acquisti e sul plexiglass al centro tra me e la cassiera noto un foglio, c’è scritto che con qualsiasi acquisto, aggiungendo un euro, è possibile comprare un pop-it.
Penso e ripenso, pop-it. Non mi dice nulla.
Chiedo. La cassiera mi dice che sono quei cosi che vanno tanto di moda tra i bambini, che si schiacciano con le dita, sono antistress. Mi mostra lo scaffale dove sono esposti. Hanno varie forme e l’interno della sagoma è fatto di semi-sfere morbide che si possono premere in modo che si rivoltino dall’altro lato. Una volta premute tutte si ricomincia girando la sagoma. Ne scelgo uno con delle orecchie, non ho capito se è un gatto o un unicorno. Lo aggiungo al conto e lo porto a casa. Mi siedo sul divano e lo esamino. La mia gattina annusa, decide che non le piace e se ne va. Mi accorgo che effettivamente le sfere fanno pop quando le premo. Le schiaccio tutte velocemente. Poi lentamente. Le premo in ordine, a caso, per colore. Ammetto che fanno smettere di pensare, ma la soddisfazione, oltre al suono che attrae le orecchie, è poter ricominciare a schiacciarle tutte daccapo in fretta. Cerco su Google qualche notizia in merito. Sembra siano stati inventati per migliorare la psicomotricità nei bambini, aiutare nei deficit di attenzione e poi sono diventati un giochino antistress.

Un pop alla volta resta alla vista il paesaggio desolato del lato concavo delle semisfere. Per qualche istante mi perdo ad immaginare che ognuna di esse sia qualcuno che non è più dal mio lato. Pop. Pop. Andato, lui. Lei. Andati, loro. Avevo letto una cosa interessante che riguardava la famosa domanda che in genere ci si fa, perché tutti se ne vanno? Ecco. Sembra che il punto non sia questo, non sia il perché le persone decidano o finiscano inesorabilmente fuori dalle nostre vite, quanto il fatto che in qualche modo, inconsciamente, dietro quella domanda, si nasconde il pensiero che lì dove vanno, lontano da noi, sia tutto fantastico. La loro vita ci appare perfetta, mentre la nostra privata ancora una volta di qualcuno che ci faceva stare bene. La nostra realtà finisce per somigliare ad un campo di terra dalla quale sembra siano stati estirpati alberi e arbusti lasciando buche qua e là. La realtà degli altri ci appare invece come un giardino bellissimo pieno di specie di piante rare. Insomma, immaginiamo che l’altro lato sia molto migliore del nostro, con tanto di giustificazioni plausibili che nella nostra testa hanno messo radici da secoli, da quando qualcuno pensando di far bene ci ha insegnato che se fossimo stati abbastanza bravi allora avremo ricevuto amore, affetto e attenzioni.

Perciò quell’allontanamento sarebbe colpa nostra. Mi accorgo che mi sto accanendo sulle semisfere di silicone colorate. Le premo a due, tre alla volta, a due mani, rivolto la sagoma, ricomincio. Giro di fretta dall’altro lato quasi a voler sorprenderlo mentre lì accade qualcosa di bellissimo e invece l’altro lato non è mai quello che penso. Non è la vita stupenda di qualcun altro. E’ mio. Un altro lato mio, di nuovo pieno, da usare, toccare, vivere. Quel che è andato via è il suono, disperso nell’aria, durato frammenti di secondi, il pop.

Zucchero e caffé

In queste ore gira sui social una frase ironica che dice più o meno così visto che si può viaggiare solo all’estero allora ne approfitto per portare zucchero e caffé alla Regina. Si riferisce ad una usanza delle mie parti, quando c’è un lutto si fa visita alla famiglia di chi è mancato portando in dono pacchi di zucchero e caffé. Ricordo che quand’ero piccola i miei facevano questo tipo di regalo ai miei nonni anche in altre occasioni. La cosa che sempre, sempre mi faceva innervosire è che perdevano tempo ad incartarli, di solito con la classica carta bianco avorio a pallini dorati, mettevano il pacchetto in una busta e poi una volta arrivati a destinazione annunciavano ti ho portato un po’ di zucchero e caffé.
Nella mia testa avveniva un cortocircuito. Guardavo mia madre o mio padre e poi il pacchetto sul tavolo e viceversa. Non capivo perché lo incartavano se poi dovevano puntualmente svelare il contenuto del pacchetto. Mi dicevo che forse non era così entusiasmante da scartare e quindi gli evitavano la delusione, pur facendolo sembrare un regalo.

Sarà per la chiusura forzata in casa e quindi la mancanza di altri contatti umani, ma la morte del Principe Filippo insieme alle dichiarazioni della Regina è stato la mia forza me li ha fatti percepire per un momento come dei nonni e nulla più. I miei nonni sono mancati ormai molti anni fa, mia madre quasi due anni fa e a volte mi perdo ad immaginare le vite di chi ancora ha una grande famiglia, con i lunghi pranzi della domenica, le chiacchiere tra donne in cucina mentre i maschi si appisolano sul divano fino al momento del dolce, preceduto dall’arrivo del caffé. Ogni tanto sento il vociare proveniente da altri appartamenti, specie quando alcuni si riuniscono sui balconi a fumare.
Mi chiedo come riescono alcune famiglie a restare unite, mentre altre si slegano, semplicemente, anche senza chissà quali conflitti interni. Mi dico che forse è perché vengono a mancare le persone che fanno da collante con tutte le altre.

Ci svegliamo un giorno in un mondo completamente diverso da quello che conoscevamo e perdiamo l’identità che avevamo avuto fino a quel momento, per cui cambiano i ruoli, i rapporti e le dinamiche tra i membri della famiglia. Insomma, mi manca quella sensazione che qualsiasi cosa accada, andrà tutto bene. Perché si parla e non c’è nemmeno bisogno di chiedere aiuto. Le cose si fanno insieme e non ognuno per fatti propri, per poi raccontarsi solo quel che serve a mantenere il ricordo di ciò che eravamo. Sembrano esistere dei protocolli da famiglia reale perfino nelle vite di noi sconosciuti, tacite procedure se succede questa cosa o quell’altra che poi non è nemmeno apparenza, ma un non saperlo fare diversamente, risultando come affetto che viaggia distorto e gesti che non proteggono più di tanto dal freddo.

Il Principe e la Regina si sono separati dopo più di settanta anni insieme e non importa quanti protocolli reali staranno lì ad infagottare tutto o quante lacrime saranno sincere, è mancato un nonno, anche se Reale. Anche uno dei miei era del ’21, ma avrebbe già compiuto cento anni. Però non credo che alla Regina avrebbe fatto piacere il caffé.

Avanzi di pensieri della domenica sera

la mia primula

Per quanto io possa interrogarmi sulla questione, ormai sono certa che una risposta univoca non esiste.
La domenica è quel giorno della settimana che mangi. Punto. Senza se e senza ma. Mangi. Qualsiasi cosa ti capiti a tiro.
A colazione c’era la torta alle arance del weekend, che a stamattina era arrivata per miracolo. Pranzo, vabé quello è un delitto premeditato. Il radicchio in frigo aspettava il suo turno da qualche giorno. Una cottura al vapore, una frullata con noci, pistacchi, olio, aglio e formaggio spalmabile, un’unione con pancetta e cipolla che nel frattempo sfrigolavano in padella. Un lancio di fusilli integrali e dadini di mozzarella. E la dieta l’abbiamo uccisa. Prima, tra un’aggiustatina di sale qua e di olio là, ho preso un po’ di pizza avanzata che avevo fatto ieri sera per inaugurare il ruoto che ho preso per cuocere al microonde. Chiamiamolo aperitivo.
Alle 17 sembrava l’ora di uno spuntino e quel che era rimasto della pizza è andato. Alle 17:30 si decide per una tisana alla melissa che si è tirata dietro tra le sue fila un biscottino al cioccolato. A cena di solito si fanno fuori gli avanzi. Se non ci sono quelli, il fatto diventa pericoloso: la domenica sera non si cucina nulla di canonico, al massimo ci si infila in qualche esperimento culinario. Tipo, la settimana scorsa, son venute fuori delle crepes di farina di castagne che hanno dato il meglio di sé con i wurstel e non con la marmellata.

Ha aspettato il primo giorno di sole di tutto l’inverno per sbocciare.

Quando l’ho portata a casa aveva un solo fiore sciupato. Gli altri boccioli erano tutti a testa in giù. Non mi sembrava un buon segno. Poi sono venute piogge fortissime e una decina di giorni di freddo gelido.
La vera questione che avevo per la testa oggi riguardava la libertà. Spesso si pensa che quando quella o quell’altra situazione finirà, allora finalmente ci si sentirà liberi. Allora mi ci sono proiettata mentalmente, a quel momento. Mi sono seduta a terra vicino alla primula. Ho sentito il sole sul viso e il vento leggero e ancora freddo sulle braccia. Non ho visto nulla di diverso. Nel senso, non c’era quel che mi aspettavo. Non c’era nulla. Perché le cose non accadono quando smette di fare freddo. La libertà non è un interruttore. A volte si confonde la mancanza di libertà con la mancanza di un progetto. Insomma, siamo sicuri di sapere cos’è che è bloccato, cos’è che vorremmo realizzare mentre quel qualcuno o qualcosa ce lo impedisce? Oggi mi sono accorta che stavo aspettando niente. Quelli che avevo in testa erano avanzi di qualcosa che non esiste più o che pensavo esistesse, perché viveva in un’idea di mancanza. E invece quel che ci sarà è quel che c’è già adesso. Perché nessuna pioggia di solito inaridisce un desiderio.

ComeDiari #12: Senza Dubbio

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In fondo quel che ti fotte è il dubbio. 

Quando invece sai, è diverso.

Non ci verrebbe l’ansia uscendo di casa al mattino se sapessimo che, qualunque sia la condizione di traffico e di salubrità mentale delle persone che incontreremo per strada, il treno o l’autobus sarebbero lì ad aspettarci comunque e potremo arrivare in sede in tempo, all’orario giusto.

Nel bene o nel male, quando sai, stai meglio. Almeno, sei più tranquillo. Puoi concederti il lusso di essere consapevole e regolarti di conseguenza. Perfino se è giorno di sciopero.

Perfino se lui non vuole più vederti.

Se non vuole più sentirti.

Se sai, allora finalmente tutto quadra e il dubbio sparisce. 

Capisci.

Non ne valevi la pena. 

Percorrere dei chilometri.

Rispondere al cellulare.

Scrivere un messaggio.

Azioni chiamate pretese nonostante non sia stata tu a chiederle.

Non è molto meglio, invece, sapere? 

Non le farebbe. Cose, così. Per te. 

Quando sai, non ti preoccupi più. Dormi serena e ti svegli concedendoti a colazione il lusso di essere consapevole. 

Il cellulare non squillerà.

Non vibrerà brevemente, nemmeno.

Non dovrai attendere nessun momento giusto.

Non devi prendere nessun treno.

E non c’è neanche sciopero.

Senza dubbio, è così.

 

Distanza

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Distanza.

Ultimamente ogni aspetto importante della mia vita, purtroppo, ha a che fare con questa parola. Già di suo sembra avere sempre e comunque un’accezione negativa.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Significa pure però che quella cosa, persona, non la stiamo vivendo. Non è presente nella successione di spazi e di attimi che ci circondano, in alcun modo. Oppure. Non possiamo non ferirci le dita provando ad accarezzare i bordi di un obiettivo che non si incastra ancora perfettamente nei nostri giorni. Robe così.

Nonostante ciò io la distanza non l’ho mai demonizzata. Non mi ha mai spaventata. Forse perché di mio tendo ad uscire dalle definizioni, inventare significati per vedere quanto vanno lontani da soli senza dover correre a sorreggerli e ogni tanto mi guardo intorno attraverso un tulle colorato, di quelli delle bomboniere, per vedere di che colore diventa la realtà. Forse, invece, è perché da piccola ho imparato che non c’era persona amata distante abbastanza da non poter essere raggiunta con un treno o un auto e molti dei miei familiari vivevano dai trenta ai novecento chilometri da me.

Distanza per me non è separazione. Eppure, mi sono dovuta arrendere a quell’evidenza che per tante persone è normalità, per cui non ho avuto scampo. I miei giorni si sono riempiti di quel significato da cui sono fuggita tante volte e s’è preso tutto lo spazio schiacciandomi a terra.

Da lì ho percepito un altro aspetto della questione: la distanza è anche un filtro. Non la si attraversa senza i requisiti necessari. Motivazioni deboli e legami sottili non ce la fanno, soccombono quasi subito. Qualcuno direbbe che è anche una questione di mezzi e di risorse disponibili ed è vero, anche se questo vale solo dal punto di vista fisico. Si può essere vicini anche in altri modi che ognuno può immaginare da sé. Qualcun’altro sosterrebbe che in fondo questa è una cosa positiva: se una persona riesci a sentirla nonostante lo spazio -e magari il tempo- allora un legame c’è davvero.

Messa al tappeto dall’evidenza, dunque, ho pensato di arrendermi. E si. Basta. Tanto è inutile. Le circostanze hanno sempre la meglio. Ci sono rapporti, vite, alberi genealogici interi che si reggono su una o due di loro. Chi sono io mai per rivoltare l’ordine delle cose? Se mi spaventano le circostanze più delle distanze in fondo è un problema soltanto mio. Mi sono piantata lì a terra e ho iniziato a sentire freddo. Dentro. Un freddo strano.

Era trasparente. Limpido. Una sensazione che puliva via tutte le altre così ingarbugliate, dolorose, arrabbiate e tristi insieme. Sembrava libertà. Mi sono sentita come l’estremità di una distanza appena rotolata via chissà dove e di cui riuscivo a vedere solo alcuni tratti che ho capito avrei dovuto percorrere da sola. Mi sono alzata e ho iniziato a fare qualche passo. Non ho idea di dove si trovi l’altra estremità, ma di aspettare e di combattere le circostanze mi sono davvero stufata.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Adesso, però, non ci sono più neanch’io.

ComeDiari #10: A Tutti Voi Che Ve Ne Siete Andati

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I legami non si spezzano. Per loro natura è impossibile.

Se lo sembrano allora vuol dire che non sono mai esistiti.

Perché chi AMA non sparisce. Chi AMA non distrugge. Chi AMA si informa, chiede, spiega.

Chi SE NE VA lo fa per disinteresse. Perché ha di meglio da fare. Perché si sente in colpa o fuori posto. L’amore non concepisce il disagio, anzi.

Io mi sono accanita su delle cause perse. Ho difeso quelli che credevo fossero legami veri. Legami tra “esseri umani”. Ogni volta sono rimasta a difendere una cosa che non esisteva.
Pensavo -Vai, vai tu, qui ci penso io-.
Riattaccavo insieme i pezzi con la comprensione e l’accettazione di quel che non potevo capire delle vostre vite mentre della mia fiducia ne avete fatto macerie usando semplicemente l’indifferenza.

Adesso mi sento libera. Non ho nessun dovere, nessun tacito patto con la vita da rispettare. Non esiste un legame, quindi non esiste niente di cui prendersi cura, da custodire e amare.

E la LIBERTA’, sapete, ha un seducente profumo di futuro e di possibilità.

Grazie per esservene andati a fanculo senza aspettare che ve lo chiedessi io.

ComeDiari #9: (S)Legati

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Mi ci vedevo già tra le tue braccia, più forti del vento, più sicure delle mie parole. 

E no, invece. Non si può spiegare. Vederti andar via per l’ennesima volta è buffo e straziante insieme. Come se ci fossimo sporcati le mani di ironia e adesso ogni singolo istante di tempo è fottuto, condannato a macchiarsi e ci guarderà di traverso non appena superato, perché poteva essere bello, bello davvero. 

Un legame se è vero resiste ad ogni cosa. Unisce parole spezzate e traduce silenzi infiniti. Credevo fossimo questo, che in equilibrio sul filo ti avrei raggiunto sempre e ci saremmo capiti con uno sguardo soltanto. Questa volta però non capisco se hanno mentito gli occhi o le parole. La bugia ha preso a morsi la fiducia mentre io urlavo. Ti ho difeso frapponendomi tra le semplici impressioni e gli altri, raccontando di profondità e sincerità, disegnando schizzi del tuo mondo che adoravo visitare ogni volta che potevo.  

Adesso non sento più niente. Le emozioni sono ferme, immobili. Una specie di morte apparente. Forse, sono morte davvero. Forse aspettano solo che tu riprenda a contare voltandoti di nuovo verso il muro.

Cazzo, smettila di guardarmi in silenzio. 

Cartolina

“At this place…”

Rinchiusa nel suo cappotto si lamentava del freddo, sperando che qualcuno cogliesse il riferimento alla propria anima più che alla temperatura e guardava i piedi delle donne con cui stava conversando come se all’improvviso le loro paia di scarpe così diverse tra loro fossero più interessanti di tutti i commenti e le osservazioni che aveva ascoltato fino ad allora. Mi ero accorta che ormai aveva smesso di prestare attenzione alle parole degli altri già qualche minuto prima quando la vicina di casa aveva timidamente sfoggiato un -Vedi, si chiude una porta, ma forse, ecco, magari si apre un portone- come se avesse perso un lavoro e non una persona cara. Aveva annuito assorta. “… my thoughts came to you…”.
Un po’ la capivo, anch’io mi ero distratta. La casa era ormai piena di gente, sembrava una festa quasi, in tanti si ritrovavano dopo anni di assenze nelle rispettive vite, cresciuti, invecchiati, pieni di avvenimenti e novità da raccontarsi a vicenda. Io stavo lì cercando di riconoscere qualcuno, ogni tanto una prozia o una cugina di chissà che grado si avvicinava trovandomi più o meno somigliante a mia madre. “… came to you, then I…”
La casa era ordinata e semplice. Pochi quadri, pochi mobili. Alle pareti c’erano più che altro fotografie di nipoti da piccoli e souvenir. Uno di questi si trovava proprio lì dove stavo cercando di sembrare il più possibile invisibile per limitare baci e strette di mano all’indispensabile. Era un quadretto rettangolare delle dimensioni di una cartolina, in legno spesso un paio di centimetri. Su di esso c’era una foto ancora più piccola e poco riuscita delle cascate del Niagara e sotto, in caratteri dorati c’era una scritta che mi aveva colpita, forse per la rima, non so. Volevo appuntarla, fotografarla, ma mi sembrava inopportuno tirar fuori carta e penna o il cellulare allora sottraendomi di tanto in tanto agli sguardi altrui provavo a leggerla e memorizzarla, tra un sorriso e un saluto veloce. “At this place, my thoughts came to you, then…” –Vedi quella signora? E’ lei che ti cucì quei cuscini di cui mi hai chiesto l’altra volta, trentamila lire chiese all’epoca- mi disse all’improvviso mia madre sottovoce riferendosi alla signora bassina che stava poco più avanti a me, capelli ramati e in piega, mani congiunte in apprensione. Le risposi dicendo qualcosa sul fatto che andrebbero riutilizzati, sarebbe un peccato buttarli. Quella stessa signora poco prima in ascensore aveva accennato allo sconforto che ormai le era preso nei confronti della vita, dell’amicizia e delle persone in generale, specie pensando a quanto siamo fragili, al come poi tutto finisce così, non per nostra decisione per giunta e forse, credo, stavo provando qualcosa di simile anch’io. In giorni così infatti le lacrime più che altro sanno di mancanze, ci sentiamo persi e vorremmo un abbraccio o quell’abbraccio, tra quelle braccia meravigliose e calde, che ci sembravano il posto più bello del mondo.
“… I took this picture, so you can see it too.”. Ero rapita da quella frase, mi portava lontano e allo stesso tempo ero lì e potevo osservare, appuntare sguardi e reazioni, in fondo parlava anch’essa di qualcuno che era distante, ma importante al punto tale da desiderare che fosse presente proprio lì, in quel posto, in quel momento! Era una frase da cartolina in fondo, era ovvio fosse così. Chissà chi aveva portato quel quadretto lì, se l’aveva scelto apposta tra tanti o preso al volo prima di andar via, senza troppa attenzione. Ho pensato a tutte le cose che avevo visto, posti visitati, frasi, libri che avrei voluto mostrargli, ma non potevo. Altra lacrima. Mi sono venuti in mente scene di film e canzoni che nello stupido entusiasmo di un attimo ero certa gli sarebbero piaciute, salvo poi ricordare che non dovevo lasciarmi andare, l’idea di noi era già stata rinchiusa e messa via come si fa con le cose importanti da conservare e non servono ogni giorno. Tutti dimenticano che in fondo si rovinano lo stesso, anche così, mentre sbirciano il mondo da quell’angolo buio e riparato, al sicuro ma irraggiungibile. All’idea di essere anch’io una di quelle cose distolsi lo sguardo da quella dannata cartolina, ma era già troppo tardi, ormai non l’avrei dimenticata mai più.

“At this place, my thoughts came to you, then I took this picture so you can see it too”

 

‘Ma Non Fa Niente’

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“Mi sentirei di dirti che il viaggio cambia un uomo
E il punto di partenza sembra ormai così lontano
La meta non è un posto ma è quello che proviamo
E non sappiamo dove né quando ci arriviamo
Trascorsi giorni interi senza dire una parola
Credevo che fossi davvero lontano
Sapessimo prima di quando partiamo
Che il senso del viaggio è la meta, è il richiamo
Perché ti voglio bene veramente
E non esiste un luogo dove non mi torni in mente
E avrei voluto averti veramente
E non sentirmi dire che non posso farci niente
Avrei trovato molte più risposte se avessi chiesto a te
Ma non fa niente
Non posso farlo ora che sei così lontano”
[Ti ho voluto bene veramente – M. Mengoni]

Della Mancanza (Di Aspettativa)

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Se l’avere delle aspettative sia da considerarsi giusto oppure sbagliato penso nessuno l’abbia mai capito davvero.

O meglio, ogni volta si cambia idea a riguardo, così, a seconda di come è andata l’ultima volta che si è provato a darci un taglio con una situazione con un avrei dovuto saperlo da oggi in poi non mi aspetto più nulla. 

Sinceramente non ci avevo mai dato troppo peso finché mi sono accorta che delle persone avevano delle aspettative su di me e per giunta le avevo pure mancate. Così, senza accorgermene. Perché poi la vita su questo non ti aiuta affatto, non ti segnala il pericolo, non ti avvisa ogni cinquanta metri che stai per scontrarti contro quella cosa che non hai fatto o non hai detto e tu viaggi tranquilla alla velocità che desideri cantando a squarciagola le canzoni passate in radio senza percepire minacciosi sguardi altrui o presenze ingombranti su quella che era la tua innocente e già ingarbugliata tabella di marcia. Agli scontri di solito poi si susseguono litigi, arrabbiature, musi lunghi e delusioni varie. La delusione in particolare non ho mai saputo gestirla bene. Inscatolando un po’ di cose per il trasloco ho ritrovato un vecchio diario in cui c’era uno di quei test sulla personalità e tra le cose che mi facevano paura avevo scritto deludere le persone che amo. Poi nel tempo ho capito che questo magari accade e non sempre ci si può far qualcosa, non sempre dipende da una persona soltanto, per quanto si possa far attenzione, districarsi nella trappola di corde delle sensibilità degli altri non è semplice e prima o poi si finisce per pestarne almeno una.

Comunque l’idea mi faceva arrabbiare. Come si può essere a conoscenza delle aspettative di tutti? E chi dice che la loro idea di me corrisponda davvero a quella che ne ho io?

Poi mi son chiesta se anche io ne ho. Beh, si. Mi sono accorta del fatto che la maggior parte di loro sono implicite, nel senso che uno non sta lì a pensarci giorno e notte, ma esistono e vivono di vita propria. Alcune nascono automaticamente, come gli effetti dalle cause, vengono prodotte dalla mente che per sua natura non ci sa stare nel presente e sbircia in quel che sarà, o quel che potrebbe essere.  Se è giusto o sbagliato non lo so, ma la cosa che più mi innervosisce è un’altra.

Si perché prima o poi la fatidica frase la pronunciamo un po’ tutti. Per non essere deluso non voglio aspettarmi più niente da nessuno. 

Amen.

E poi?

Fermo restando che eliminare anche la più nascosta microscopica aspettativa è praticamente impossibile, mi sono chiesta cosa accade a quel punto. In fondo è come dire che si è pronti ad accettare l’altro per quel che è. Spogliato dei preconcetti -non per forza negativi- può diventare davvero più semplice costruire un rapporto sincero e onesto con lui. La mancanza di aspettative significa più libertà di esprimersi ed essere se stessi.

Da un lato.

Dall’altro è anche vero che quella persona all’improvviso la sentiamo anche più lontana, giacché le si è detto tra le righe fai un po’ come cavolo ti pare, a me non importa più. Allora l’aspettativa all’improvviso sembra racchiudere tutto il nostro interesse per quella persona, la voglia di averla vicina e continuare a camminarci insieme. Senza di essa è come se il cuore si chiudesse, muore la fiducia e la speranza.

Più ci penso e più mi sembra complesso. Forse anche in questo caso la verità è nel mezzo, o almeno immagino che sia così.

Si, insomma, me lo aspetto.

Ops.