L’insostenibile Incertezza dell’essere

incertezza-e-equilibrio

Ieri mattina, mentre scendevo le scale di corsa per andare al supermercato praticamente dieci minuti prima che chiudesse per la pausa pranzo, ho incrociato un bambino che dal piano terra si accingeva a salire la prima rampa di scale. Mi sono fermata di botto e l’ho guardato sbarrando gli occhi. Magrissimo e dai capelli a spazzola biondi si accingeva, come dicevo, ad affrontare i gradini che portano al primo piano, ma in condizioni abbastanza precarie. Si perché nella mano sinistra reggeva un ghiacciolo blu. Nella mano destra teneva la carta del suddetto ghiacciolo, azzeccosa e gocciolante. Intanto, in bocca, aveva un chupa-chups. Roba che se fossi stata sua madre, per portarlo a casa sano e salvo, sarebbe servita una gru che lo prelevasse dalle spalle per evitare inutili spargimenti di zuccheri innocenti.

Io però non sono sua madre. Né sua zia, né sua sorella.

Io sono un genio.

Perché appena ripresa dallo sbigottimento, gli ho sorriso e gli ho detto … ciao. 

E lui, sì, lui mi ha guardata di traverso. E me lo son meritato. Giustamente, non poteva in nessun, nessunissimo modo rispondermi. Ha rivolto lo sguardo e le sue forze ai gradini che gli restavano da affrontare ed è andato avanti.

Sono uscita dal palazzo e mi è saltata in mente la parola incertezza. 

Quando iniziano a capitare nella tua vita eventi spiacevoli pensi sempre che siano soltanto segmenti bui del tuo percorso, li percorri con pazienza e senza nemmeno un tuo cenno o protesta ti accorgi che già c’è qualcuno che dalla regia sta provvedendo a riparare quel guasto alle luci. Ti svegli un giorno e la tua vita è tornata pressoché uguale a com’era prima.

Quando gli eventi si susseguono con una cadenza tale che ti svegli, un altro giorno, e ti accorgi che la tua vita si è impigliata da qualche parte nel passato e ti brucia la pelle perché è rimasta per troppo tempo esposta alla realtà degli altri senza filtri e protezioni, allora, ecco, la questione cambia completamente. In regia sembra non ci sia più nessuno. Qualcuno poi lì ci piazza Dio, qualcun altro Paolo Fox. Io diciamo che negli anni ho composto una squadra di Ministri degli Affari Miei ben nutrita e variegata, forse anche discutibile, a cui chiedo consiglio nei momenti più facili, perché in quelli difficili faccio di testa mia, ma magari ve la presento in un altro post.

Insomma, camminavo verso il supermercato e ad ogni passo immaginavo che al posto dell’asfalto ci fossero dei fili come quelli che usano gli equilibristi per i loro spettacoli. Mi sono chiesta se davvero dovesse andare così. Se davvero alle tredici di un giorno qualunque soleggiato, con poco traffico e non molte persone per strada come me, stessi iniziando a pensare all’incertezza come ad una costante, una presenza imprescindibile, qualcosa da tenere con me sempre come la carta punti nel mio borsellino dei soldi per la spesa.

Mi son detta sì. Forse sì.

Dalla regia mi hanno suggerito che la paura però fa brutti scherzi. E anche la mente, quando si sente in pericolo. Il fatto è che per non cadere, quando ti trovi in bilico, cerchi ovviamente di aggrapparti a qualcosa. A meno che tu non abbia le mani occupate da ghiaccioli che si stanno sciogliendo, si sa.

E forse per evitare la sensazione ben peggiore di cadere nel vuoto quando qualcosa di troppo pesante colpisce i tuoi fili e ti fa perdere l’equilibrio, finisci per crederti in un vicolo cieco fatto delle ultime cose viste e sentite prima dell’impatto. Forse un altro giorno ancora imparerò che ci si fa meno male senza provare a non cadere incastrandosi da qualche parte, ma lasciandosi andare.

Intanto, giacché era sabato, il supermercato era ancora aperto.

 

 

 

 

Tutto Daccapo

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Da spettatrice passiva e occasionale di Beautiful mi è capitato spesso di imbattermi in un concetto che non sono mai riuscita ad afferrare mai davvero del tutto, nonostante negli anni Brooke l’abbia usato per risolverci diversi disastri sentimentali e drammi familiari ed esistenziali a loro annessi.

Ogni volta che le sentivo pronunciare il suo fatidico penso sia arrivato per me il momento di voltare pagina io restavo allibita e con tutti i sensi all’erta nel tentativo di captare parole o gesti collaterali alla frase che in qualche modo potessero svelarne il mistero e soprattutto, stupidamente, appariva nella mia immaginazione un enorme libro dalle pagine pesantissime che aspettava pazientemente un’anima pia disposta a sfogliarlo.

Come si fa a voltare pagina? Fare tabula rasa del recente vissuto, gettare della candeggina sui ricordi per sbiadirli quel tanto che basta affinché l’indomani al risveglio non se ne sentano più le voci, mettere una scadenza agli effetti di ogni causa e ricominciare daccapo. Davvero si può?
Ho sempre pensato no. Ho sempre creduto che fosse un’esagerazione, un espediente da copione. Una cosa irrealizzabile nella realtà o almeno una di quelle frasi che si buttano lì quando ne hai troppo di tutto e di tutti e vorresti poter morire e rinascere in una notte soltanto per liberartene.

Ultimamente però mi è tornato in mente, nonostante la mia convinzione che nella vita è impossibile mettere un punto e andare a capo. Ci si può rialzare da una caduta o riemergere da abissi di negatività, certo, ma fa tutto parte dello stesso percorso, il tempo ci spinge inesorabilmente in avanti lungo la sua freccia che ancora non abbiamo imparato a governare. Forse in un’altra vita potremo sparire e apparire in un qui e adesso diverso a nostro piacimento, spezzare il percorso e ogni limite della nostra mente, come insegna un certo Jonathan. 

Eppure quel voltare pagina è rispuntato fuori dal nulla mentre pensavo a tutt’altro.

O meglio, ne ha approfittato per far capolino dalla scatola delle assurdità quando un sonoro basta è risuonato nella mia mente una sera in cui, ripensando a come sono scivolati via questi ultimi mesi in balia di decisioni, problemi e imprevisti altrui, mi sono spaventata non riconoscendomi in quei ricordi. C’era una me che non tratteneva le lacrime per la prima volta alla vigilia di un proprio compleanno e voleva davvero sparire nel nulla sentendo che nessun qui e adesso diverso da quello valeva lo sforzo di riapparire, perché in fondo l’avrebbe lasciato scorrere come tutti gli altri sperando di non provare alcuna colpa, pur sapendo che in realtà non vivere è la peggiore di tutte.

Un attimo dopo ho immaginato ancora quel libro. Stranamente non sembrava né pesante né stupido.

E se ricominciassi daccapo? Se avessi davvero la possibilità di cancellare, seppellire, distruggere un pezzo di percorso e riscriverlo questa volta essendo la me stessa che voglio essere, ‘che quella non mi piaceva per niente?

Che, magari, uno ne ha pure il diritto, voglio dire.

L’idea mi ha caricata. Se ci si accorge di aver preso una deviazione, imboccato un sentiero sbagliato non è vietato indietreggiare, fare mente locale e ripescare quel qui e adesso da cui poi non s’è capito più nulla, raccogliere un po’ di sassi e ammucchiarli lì dove non si vuole più tornare, voltare le spalle e riprendere il cammino in una direzione diversa. Ecco, insomma, si. Voltare pagina.

Una cosa che non sa né di assurdo né di sconfitta. Solo un altro modo per ritrovare se stessi.

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*… Paura Del Buio …*

Qualche volta ancora lo faccio. Mi sposto da un punto all’altro della casa, quando è buio, accendendo tutte le luci che mi capitano a tiro, spegnendo di volta in volta quelle che mi lascio dietro. Fa tanto effetto discoteca, e fa tanto anche matta, eh. Magari la cosa più sensata sarebbe accenderne solo una e orientarmi con quella anche nelle stanze più buie. Invece no. Quando mi va, giro direttamente al buio, cercando di non sbattere contro porte e muri. Cercando di prevederne le posizioni un po’ come farebbe un pipistrello. Procedendo sicura, sicura di farmi un livido, si intende.

Come a dire che, o hai paura del buio o non ce l’hai. Non c’è una via di mezzo.

E non è detto che una volta deciso, se avere paura o no, la decisione vale per sempre. Certe volte non vorresti altro che il buio intorno e tiri la coperta su fino ai capelli, altre ti metti a cantare sottovoce passeggiando fino alla metro, di sera, uscendo dall’università, salvo zittirti all’improvviso al semaforo pedonale, dove c’è qualcuno che aspetta con te di attraversare. Certe volte prendi la mano di una bambina e le dimostri che effettivamente nella sua camera non ci sono lupi nascosti negli angoli bui, altre invece giureresti di sentirti osservata mentre porti fuori la spazzatura e l’unico lampione spento della strada è sempre quello fuori casa tua.

Riflettevo su queste cose negli ultimi giorni. Sulla paura del buio. Sulla mia personalissima paura del buio.

Il buio nella mente. Il buio nei giorni. Paura che, mentre ti rechi a svolgere le tue faccende, camminando per strada, tutto intorno diventi vuoto e meccanico. Che una coperta grigia si posi su tutto. Sui palazzi, le auto, gli alberi, sulle nuvole, sul sole, su di te e sulla tua volontà, sui tuoi pensieri e speranze, sulle tue intenzioni, su ciò che sai e peggio ancora, su ciò che non sai. Paura che tutto diventi ingestibile, che ne sfugga il senso. Paura che la testa si ficchi in qualche abisso e non riesca a tornare indietro. Paura di rimanere intrappolata, di diventare prigioniera di se stessa.

Inutile dirsi non avere paura. O c’è o non c’è. Aspetti che quel giorno passi, trattenendo un po’ il respiro. Aspetti che quella coperta si dissolva così come è apparsa. Al massimo capita che, volgendo lo sguardo a terra, scorgi una fiammella abbandonata da un fuoco più grande passato poco prima di te, di accoglierla tra le mani e portarla via. La proteggi dal vento e dall’effetto disastroso della coltre grigia. Non ci soffi sopra per farla diventare più grande. La porti a casa. La lasci sul comodino a riprendersi dalla brutta giornata, le chiedi se ha bisogno di qualcosa per rimettersi in sesto, che può prendersi tutto il tempo che vuole. Tu sarai lì a custodirla. Sarai lì a decidere che domani no, non sarà di nuovo così. Che domani avrà la sua possibilità, mentre la guardi splendere un po’ di più. Tutto sta a te e a darle fiducia. Sai che domani, dannazione, tu e lei potrete essere imbattibili insieme.

Sai che domani porterai a casa un livido, piuttosto. Perchè o hai paura o non ce l’hai. Non c’è una via di mezzo. E senza, non c’è buio che tenga.

*…A.A.A. Diavoletto Di Maxwell Cercasi…*

Il diavoletto di Maxwell è un esperimento mentale nato per provare a confutare il secondo principio della termodinamica. Quello per cui, per dirla rievocando un’immagine estremamente comune, tra un corpo caldo e un corpo freddo il calore fluisce sempre dal primo verso il secondo e mai viceversa finchè non raggiungono la stessa temperatura. Ed è impossibile che da uno dei due continui a fluire calore riscaldando di più l’altro. Poi di enunciati ne esistono diversi, ma questo è il più familiare.

In generale però si dice anche che in un sistema isolato l’entropia non può che crescere o restare invariata, e mai diminuire. Tempo fa (caspita, 2 anni fa, e chi se lo ricordava…) ne riportai una spiegazione in questo post. L’entropia è una misura del disordine di un sistema. Basta pensare ad una goccia di inchiostro lasciata cadere in un bicchiere d’acqua. Le particelle di inchiostro iniziano a diffondersi in maniera disordinata finchè non raggiungono un nuovo equilibrio miscelandosi all’acqua. E’ impossibile, però, che quelle particelle, così, all’improvviso, prendano iniziativa e tornino indietro a ricostituire una goccia.

Non sarebbe un processo spontaneo. Non è il naturale modo di evolversi del sistema. Un processo irreversibile non può tornare indietro di testa sua, al massimo ci si deve spendere altra energia per farglielo fare.

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Allora nacque questo esperimento mentale, ideato dal fisico Maxwell. Mi affascina sempre l’idea di mettersi dall’altra parte di un ordine precostituito e provare a vedere se esiste un’altra possibilità, un altro punto di vista. Era una sorta di ribellione a questo principio fondamentale. Mettiamo che esista un diavoletto, dotato di grande abilità e velocità e di una vista molto acuta. Si potrebbe prendere un contenitore diviso in due parti da una piccola botola, ogni parte riempita con lo stesso gas.
Vedendo una particella di gas muoversi più velocemente delle altre, lui aprirebbe la botola facendola passare dalla parte sinistra a quella destra, richiudendo subito dopo. Così, di testa sua. Impedendo che accada il contrario. A furia di far aumentare il numero di particelle a destra, in quella parte lì andrebbe ad aumentare anche la temperatura.

Ecco qui. La possibilità di riscaldare un corpo senza utilizzare altra energia. La possibilità di creare l’ordine dal disordine. Il gas disposto in una sola parte invece che vagante in due. Sovvertire un equilibrio spontaneo. Come se quello stesso diavoletto potesse ricreare la goccia di inchiostro mandando tutte le sue particelle in una direzione precisa, tutte belle in fila ordinate.

Sarebbe una cosa grandiosa. Se si avesse a disposizione un diavoletto del genere, si potrebbe realizzare qualunque cosa. Andar contro le logiche. Passare dal caos all’ordine, come ci pare e piace. Decidere di prendere una direzione qualunque, senza alcun limite.

Purtroppo, già a livello mentale, teorico, la cosa non funzionerebbe. Figuriamoci dei mille problemi sul pratico. Eh si, perchè sto diavoletto avrebbe bisogno di vedere quello che fa. Avrebbe bisogno di luce, quindi, di energia dall’esterno. E il famoso principio si riprende la sua rivincita mandandoci a quel paese. Vince lui, di nuovo.

Niente diavoletto, dunque, l’esperimento fallisce. Non è possibile impedire ad un sistema di raggiungere il suo naturale equilibrio. La direzione è unica. La freccia del tempo, ovvero l’entropia, prosegue inesorabile.

E noi qui. No, non la famosa canzone. L’entropia è un concetto che si estende a qualunque campo, non solo la fisica. Di processi irreversibili se ne potrebbero contare a migliaia. Che facciamo noi, allora?

Sempre tante scelte davanti ed un’unica direzione. Ad ogni scelta ne segue un’altra, sempre in maniera più o meno consapevole. Il tempo non torna indietro. Come l’acqua di un fiume che va sempre verso valle. Si è mai visto un fiume che sale su una montagna? No. Servirebbero delle pompe idrauliche. Energia.
E noi saltelliamo da un equilibrio all’altro. Ciò che siamo,vogliamo e facciamo lo rendono unico e soltanto nostro. Fermi sempre nello stesso punto è impossibile stare per troppo tempo. Il sistema si espande, si evolve. E cerca un equilibrio. Se ci si illude di rimaner fermi basta guardarsi un attimo intorno e rendersi conto che si sta andando avanti per inerzia.

Qualche volta scegliere è facile, altre difficile. Giornate intere, mentre si è apparentemente fermi, a pensare cosa sia meglio tra ciò che conviene e ciò che è giusto. Perchè poi c’è da considerare anche che la soluzione equilibrata non è detto sia anche la migliore per tutti. Teoria dei giochi docet. E la confusione e il caos ti prendono e tutto ciò che desidereresti è quel dannatissimo diavoletto. Che non esiste. Tutte le idee girano a vuoto perchè, intanto, il caos è diventato una specie di tromba d’aria e stanno girando su se stesse, mentre tu cammini nell’unica direzione che ti è concessa.

Ma in ogni tromba d’aria che si rispetti, però c’è la famosa zona di quiete, giusto al centro del vortice.

Quando ti va, puoi sempre buttare un occhio lì dentro.

Lì c’è silenzio e sereno. Puoi lasciare che i pensieri sfiorino quella pace. In fondo che male fa un esperimento mentale.
Una piccola anteprima di ciò che sarà quando, finalmente, il nuovo equilibrio sarà giunto.

* …”Do You Understand?” cit. …*

“Aaaaaaaamamiiii come la terra, la pioggia, l’estateeeee
  aaaaamamiii come se fossi la luce di un faro nel mareeeee…”

ARGH! Per un momento ho seriamente pensato mi si fosse materializzata Emma dietro le spalle.

E invece no, era il figlio tamarro del vicino di casa che arrivava a tutta velocità con il volume della radio altissimo. Il che nella perfetta quiete che regna dove abito stona in una maniera pazzesca. Poche case da un lato della strada, sconfinate terre di noccioli dall’altro. Tutto ciò che si sente, a parte qualche macchina, ma solo quelle di chi abita qui, sono solo i cinguettii degli uccelli. E’ una vita che mi chiedo cosa hanno mai da dirsi tutto il giorno. Qualche volta che un merlo si posa abbastanza vicino al balcone di casa, provo a fischiare alla sua maniera. Il bello è che dopo tre secondi di silenzio, risponde pure, ma pur non capendo nulla, non confido su significati diversi dal questa-le-manca-qualche-rotella oppure, nel caso sia del posto, la versione in cinguettii del nel dubbio, a tua sorella. Come dargli torto, d’altronde. Se capita con i gatti, beh, quelli non te la fanno buona. Meaoooow, provi. E loro mettono su la faccia più schifata che hanno degnandoti giusto qualche istante d’attenzione.
Bisogna pur soddisfare qualche inclinazione idiota ogni tanto.

Prima che Emma mi urlasse in un orecchio, riflettevo, oltre che su tutte le maniere in cui una trave reagisce ad un cedimento, sulle parole del mio prof. Una volta a lezione mise su un’aria solenne e disse -Ragazzi, voi dovete avere pazienza. La Scienza delle Costruzioni è come… una bella donna. Ha bisogno di attenzioni. All’inizio pare scontrosa, altezzosa, inarrivabile, ma se vi ci mettete con pazienza e provate e riprovate giorno dopo giorno, vedrete che vi darà soddisfazioni. Inizierete a capirla bene e lei vi svelerà i suoi più profondi segreti. Ha bisogno di essere capita. E potrebbe nascere anche un bel rapporto, dopo.-

Ridemmo. Vabè, grazie prof, questa fa colpo sui maschi, che poi costituiscono la maggior parte della platea. Sulle donne un po’ meno, anzi. Messa su questo piano, l’approccio potrebbe addirittura diventare violento. Diedi poco peso a quelle parole e mi concentrai sull’affrontare in maniera più concreta lo studio. Essì, ora mi metto a fare pure la psicologa. Non basta già il rimediare ogni giorno alle tremile lacune lasciate dal corso.
Nonostante il moto di ribellione, però, alla fine ho dovuto riconoscere che non aveva torto. Certe parole ti restano nella testa e ronzano di continuo finchè non trovano uno spazietto dove posarsi. Mi son dovuta arrendere all’evidenza che lui, nonostante avrei preferito un’indicazione in più su come risolvere un esercizio e una in meno in merito a vizi e virtù della sua bella, aveva ragione. E’ una di quelle materie che non sai da che lato prendere all’inizio. Soprattutto se hai già deciso che non farai mai lo strutturista, ma son cose che devono far parte del bagaglio culturale di un ingegnere comunque. Poi è assurdo, te capisci una cosa e lei te ne rende un’altra, finchè insieme non arrivate a capo della questione. Finisce per piacerti, anche se non lo ammetteresti con anima viva.

Si da’ il caso che io sono più istintiva di ciò che sembro. Se una cosa non mi piace, non mi piace e basta. Non lo so nemmeno spiegare. Remo contro e finisco spesso per fare a capocciate con chi viene nell’altro senso, ma è più forte di me, se ho intravisto una strada che sento affine devo raggiungerla, pure se è disastrata o inadeguata. E’ mia, e ne ricaverò qualcosa di buono, di sicuro, nel percorrerla. Il “di sicuro” fa parte dell’istinto. Magari ci fosse qualcuno che dispensi certezze, di tanto in tanto. Macchè. Figurarsi che me l’ha letto in fronte anche la commessa delle gioielleria, ieri pomeriggio. In cerca di un regalo, insieme a mia madre, all’improvviso le fa dei complimenti per i suoi orecchini. -Me li ha regalati lei- dice, riferendosi a me. -Eeh, si vede che a te non piacciono le cose che piacciono a tutti!-. Grandioso, penso, pure questa adesso. Le avrei risposto si, e per punizione le cose che piacciono a me non piacciono mai a nessuno. Ma le ho sorriso e basta.

Capita, poi, come dicevo prima, che qualcosa mi fa cambiare idea. Tante storie per poi convincermi che, dopotutto, l’altro punto di vista non è poi così sbagliato. Basta lasciarsi andare, un po’, giusto il tempo di dare una sbirciatina dall’altro lato. Come quando cerchi la prospettiva migliore per scattare una foto. E se ne può trovare una che sia anche leggermente migliore.
Forse questo significa imparare. Allargare gli orizzonti e non fossilizzarsi su quel minimo raggio che possono coprire gli occhi ruotando lo sguardo, tenendo la testa ferma. Se giri la testa vedi più cose. Devi farlo però, e ciò che vedrai potrebbe sorprenderti.

In fondo ciò su cui insistono tanto i prof è, oltre alle nozioni, il dare una prospettiva. A loro interessa, e ne ho avuto la prova più di una volta, che si esca dall’università come persone che hanno spessore, che sanno cavarsela. Che sanno guardarsi intorno e costruire qualcosa di buono. Tra un anno magari dimenticherò come si fa un diagramma del momento, ma che l’apparenza è poca cosa rispetto a ciò che può celarsi dietro di essa penso proprio di no. E saper affrontare così tante altre questioni, non solo la Scienza.

Tutto ciò mi sembra così importante adesso, quasi alla fine. Avessi qualche rotella a posto, come auspicherebbe il merlo, tutte queste storie non le farei. Invece se mi trovo davanti ad un muro, bello alto, che sia un prof sibillino o una difficoltà qualsiasi devo riuscire a guardare oltre, mettercela tutta per mettere almeno il naso oltre quell’ammasso di cemento. Che non m’aiuta nemmeno l’altezza. Non mi do’ pace, però, finchè non riesco a capire, per sentirmi a mio agio e un po’ più sicura. Poche cose odio come il sentirmi inadeguata, soprattutto se poi non è nemmeno vero.
Chissà se ciò significa che son riuscita pure a ritrovarmi. Se ho trovato la mia sintesi. Però questo riguarda Hegel e le mie pippe mentali.

Non è poi così tanto tanto male la canzone di Emma.

 

* … E Questa Sera Si E’ Alzato Il Vento …*

Il cuore batte forte, chissà che gli è preso stasera, ecco, all’improvviso, chissà che motivo ha di agitarsi tanto, proprio ora, così, senza che sia successo nulla di particolare. Volevo scrivere, si, ma avevo in mente tutt’altro. E invece quel battito fuori dall’ordinario suggerisce tutt’altre parole, magari a sapere il perchè, a sapere dove vuole andare a parare. Una strana agitazione, una specie d’ansia che, butti uno sguardo in giro, soltanto tu percepisci. E grazie, come potrebbe essere altrimenti, per fortuna. Prima di iniziare ho pure cliccato sul corsivo, anche se di solito scrivo dritto e uso il corsivo per altre cose. In questo momento ho anch’io la testa inclinata a destra e forse è per questo che ho inclinato pure le parole, così sembra che siano dritte lo stesso.

In fondo hai imparato che all’occorrenza il sistema di riferimento può essere cambiato, se ti serve per dimostrare una tesi o semplificare delle ipotesi, però lo dici prima, che vale solo in quel sistema di riferimento. Non ti illudi, non hai trovato una soluzione che va bene per qualsiasi caso, ma ti insegnano anche che è una giusta approssimazione del caso reale, che presenta così tante variabili che a tenerle tutte in conto si perde la testa, tanto poi l’influenza di quelle che non prendi in considerazione non è poi così significativa, e anche quel “significativa” lo stai a stabilire tu, in base al rischio che pensi di accettare. Per esempio una casa la tiri su sapendo di accettare una probabilità di “failure” pari ad un certo valore stabilito dalla legge. Quindi con la possibilità, remota, estremamente remota, che possa cascare giù o che non serva più per ciò per cui è stata progettata. Perde di funzionalità. I materiali non sono perfetti.

Perfezione… Lanci uno sguardo alla tv, si stanno ammazzando a trovare una spiegazione del perchè si ricorre alla chirurgia estetica. Pare siano tutti d’accordo che sia necessaria per problemi gravi, amen. Poi s’azzuffano ad analizzare tutti gli altri motivi. Uno di quei programmi in cui vanno sprecate tante parole soltanto per fare spettacolo e mostrare qualche seno nudo complice l’ora tarda. Basterebbe che si alzasse qualcuno a dire “E’ tutta una questione di gusti, di come ci si vuole vedere, dell’idea che ci si è fatti di sè, del proprio punto di vista, il proprio riferimento”. Che poi anche lì c’è il rischio, come per la casa, vabbè. Potrebbero anche alzarsi tutti da quelle poltroncine e andare a fare qualcosa di più utile. Stanno a dire che la bellezza vera dovrebbe essere quella naturale, senza troppe pretese, ogni donna ha la propria e hanno la capacità allo stesso tempo di celebrare gli stereotipi. Su quelli si che si va sempre sul sicuro. Come per il film che hanno mandato in onda prima, uno di quelli che ti sei sempre rifiutata di vedere, nemmeno fosse un horror, soltanto perchè ti stanno sulle scatole tutti quei luoghi comuni che sono nati sugli esami di maturità. Canzoni, film, libri. Odio quando qualcuno si mette sul piedistallo con la pretesa di aver capito cos’è che si prova in determinate situazioni e giù a scrivere sceneggiature tali che più cazzate fanno fare ai protagonisti, più soldi fanno ai botteghini. Come se tutti i ragazzi d’Italia avessero provato le stesse cose la notte prima dell’inizio degli esami. Tu non ti ci ritrovi e t’arrabbi. Però resti a guardarlo, perchè c’è Panariello che ti fa sempre ridere.

E’ sempre una questione di riferimenti allora. Guardi le cose da un altro punto di vista e cambiano. In realtà le cose cambiano proprio nell’atto di osservarle, ma questo lo sa bene quel povero gatto nella scatola. Non si sa se è vivo o morto finchè qualcuno non si da’ pena per andare a vedere che fine ha fatto. Chissà se qualcuno mai si è chiesto cosa pensa il gatto. E si, ogni tanto ti fai anche delle domande un po’ assurde. Lui non può vedere cosa succede là fuori. Credo che sappia almeno che qualcuno c’è e sa che lui sta lì. Soltanto questo sa. L’ha capito. I gatti sono furbi. Qualsiasi cosa stiano facendo, lui è lì tranquillo che pensa ai fatti suoi. Tutt’al più si chiede perchè proprio un micio. Potevano metterci pure un pappagallo, che ne so. Quella strana smorfia sotto ai baffi, però, forse è un sorriso. Non lo ammetterebbe mai, no, ma sotto sotto gli fa piacere, anche se è tutto un gioco, una creazione della mente, che stabilisce un limite e poi ci torna, ogni tanto, a spostarlo un po’ più in là. Sposti i confini, cambi i riferimenti, tutto per trovare sempre un nuovo equilibrio, mentre nel frattempo lì ci sei sempre tu.

“Tutto cambia, per non cambiare nulla.”

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E’ da più di un anno che hai questa frase tra le bozze. E’ del prof. Eppes della serie tv Numb3rs. E’ spuntata fuori proprio adesso. Qualche volta ti capita di conservare un pezzo di un puzzle e che tutto il resto dell’immagine ti si materializzi quando meno te l’aspetti. Una sera che il cuore ti batte forte. Una sera che troppe emozioni vengono tutte insieme a trovarti. Lo spazio non è piccolo, ma loro sono davvero tante. Sei troppo stanca per dare un nome a tutte però. Nella confusione se ne è intrufolata qualcuna non gradita, quelle che di solito lasci fuori alla porta perchè non ti piace immaginarti insieme a loro. Ciò che non ti piace lo chiudi fuori, di solito. Ti rendi conto che qualche anno fa eri molto più fiscale, adesso invece, un po’ più malleabile. Uno spiraglio lo lasci aperto perchè da un lato la curiosità in te è sempre più forte di ogni altra cosa (cavolo, la curiosità uccise il gatto… di nuovo lui, povero, ma mi chiedo se quella del gatto o dei tizi fuori) e dall’altro ti piace pensare che sai gestire questioni che prima depennavi, stracciavi, mandavi fuori dai piedi all’istante. Stai pensando a come sono nati questi cambiamenti, qualche volta tra una lacrima e una voglia matta di abbracciare qualcuno. Peccato che non c’era “qualcuno” che lo sapesse. Se tu non lo dici a “qualcuno”, come fa poi a saperlo, eh. Magari con la testa un po’ inclinata. Cambia il riferimento, e tutto viene da sè. Come le parole in corsivo, vengono fuori da sole, vedi? Che da dritte nemmeno sotto tortura lo farebbero.

Apri l’ultima scheda del browser, per questa sera. Tutta questa storia ti ha ricordato di qualche nozione di grafologia di cui hai sentito parlare da qualche parte. E trovi questo:

“La scrittura dritta o leggermente inclinata mantiene il centro di gravità dentro se stessa, vale a dire l’individuo pone le basi del suo rapporto con il mondo all’interno dell’Io, vive la sua realtà interiore individuale come origine della sua costruzione della realtà e a partire da questa si relaziona con il mondo esteriore.
Quando aumenta progressivamente la spinta a destra, il centro di gravità si sposta dall’interno all’esterno: ora l’individuo non riesce più a percepirsi in modo autonomo e sufficiente a se stesso, ma necessita di un rapporto di relazione per stare in piedi.”

Per stare in piedi adesso ti ci vorrebbe più una dormita, magari. E’ tardi, quella gente si è pure alzata dalle poltroncine, e te stai friggendo sotto al calore del pc. Ci penserai domattina. Qualcosa ti dice, però, che a parte un crampo nel collo e un enorme sproloquio nelle bozze ben poco ti rimarrà di questa sera. E’ ovvio, certe emozioni ti travolgono, come un’onda spinta da un vento un po’ più forte del normale. E ci credo, soltanto un surfista starebbe in equilibrio su un’onda e io non lo sono. Poi l’onda si ritira e ti lascia sulla pelle solo l’odore del mare. Solo. Alla faccia. Tra un’onda e l’altra è quell’odore che ti accompagna sempre, pure se non ci fai troppo caso, a volte. Ma appena si alza il vento, si fa sentire eccome.

E fuori, infatti, c’è un bel temporale.

*…It’s Worth Living, Anyway…*

Mi guardavo intorno stupita ma allo stesso tempo rassicurata. Non solo casa mia è piena di quadri e quadretti appesi più o meno ovunque, allora. In fondo, però Chiara aveva svolto gli stessi studi artistici di mio padre. Tra un’occhiata ai mobili intarsiati, antichi, che in duecento anni avevano visto un po’ di case, e una al panorama, le colline della mia città mai viste da così vicino, pensavo che probabilmente una cosa così è difficile che un giorno la farò anch’io. Già adesso non ci si sente più, nonostante amicizie su vari social network. Figuriamoci se tra trent’anni ci si potrà ritrovare a cena, insieme alle proprie famiglie, tra vecchi compagni di liceo.

Mi avvicinai ad un tavolino basso con diverse fotografie in bianco e nero incorniciate. La madre di Chiara mi raggiunse e ne prese una.

Eh, guarda, questo qui è mio marito. Non era un uomo bellissimo?
Mi disse, annuendo soddisfatta.

Si, si, infatti. Che bella presenza. Le risposi sorridendo. Nel vedere la foto del giorno del suo matrimonio i suoi occhi s’erano già persi nei ricordi. Si rivolse di nuovo a me, tirando leggermente la testa all’indietro e scandendo le parole lentamente e con eleganza, come per non perderne nessuna:

Sai cosa mi disse in punto di morte? Benedetto il giorno che t’ho incontrata. Fece una pausa, riflettendo compiaciuta.
Eh, parole così ti restano dentro. Non si possono dimenticare. Restano impresse per sempre. E io me le ricordo benissimo, sai?

Che gran tesoro custodisce nel cuore, pensai. Parole così possono racchiudere per intero un grande amore. E in quel momento si mostrò nella sua interezza sul suo viso che non dimostrava affatto i suoi 91 anni. Che poi dimenticava di avere. Come dimenticava di aver già avuto parole di ammirazione per tutti, a tavola. Ci ripeteva sempre quanto amasse la sua famiglia e quanto le piacessimo noi. Raccontava storie che pescava qua e là dalla sua memoria, come quella della casa in cui da giovane era vissuta, in pieno centro, tra il Palazzo Reale e il teatro San Carlo, in affitto, che suo padre fece bene a non comprare perchè appartenevano alla chiesa e tutti quelli che l’avevano fatto avevano avuto misteriose perdite in famiglia nel giro di un anno. Parlava dithe come una donna deve imparare ad essere dolce e posata, elegante nei modi perchè è giusto così. Altro che le caricature che oggi fanno vedere in tv. Avevo davanti una vera napoletana, che portava dentro di sè l’orgoglio e la gioia per tutte le esperienze che aveva vissuto (e che, sottolineava, tante altre doveva ancora vivere). Andò a prendere le foto di suo padre e di suo zio. Raccontava di loro e di quanto fossero uomini belli e di presenza. L’avrei ascoltata per ore, come facevo con mia nonna.

Hai preso un po’ di vino, cara?

Mi ripetè un paio di volte. L’avevo preso, certo, ma fosse stato per lei sarei tornata a casa ubriaca (!).
Un po’ dimenticava di avermelo già chiesto e un po’, diciamo, lei aveva degli standard più alti. Come per il liquore, del maraschino fatto in casa da sua figlia. Soltanto io ne ebbi un bicchierino pieno, per sbaglio. Anche lei lo ebbe, ma per richiesta. Avevo appena deciso di lasciarne un po’, perchè già stava andando un po’ in testa quando la vidi finire il secondo giro.

E no. E che cavolo. E se lo regge lei, fresca come una rosa, io che figura ci faccio? Pensai. Con un moto d’orgoglio lo finii tutto.

Ecco, diciamo che sarei stata ad ascoltarla giusto per un’altra mezz’ora, dopo quello. Chiara doveva esserci andata pesante con le proporzioni. La signora, nel frattempo, sosteneva, con aria molto seria, di non essersi mai ubriacata in vita sua. Non si addice ad una signora. Sua figlia prontamente le fa:

Mamma, ma se pure fosse stato, non è che te lo saresti ricordato!

No, ti dico. Mai successo. Ribattè.

E ci tenne a sottolineare che nemmeno si sentiva avanti con gli anni:

Io sono una vecchia giovane! Vedi, nemmeno mi ricordo quanti anni ho. Ma sono nata nel gennaio del 1922.

In poco tempo era riuscita a condividere con tutti, e soprattutto con me che aveva più a tiro, tutti i valori che la vita le aveva insegnato. Desiderosa di far sapere che l’amore è stupendo, anche se il proprio consorte è ormai da un po’ che non c’è più, che i legami con gli altri sono la cosa davvero preziosa e che la vita ti da’ anche delle batoste, ma non averle sarebbe poi non vivere davvero. Che qualche doloretto ce l’ha, ma non le impedisce di andare a Milano o a Roma dagli altri suoi figli. Che vale la pena, sempre, di perdonare, perchè la rabbia alla fine resta solo a se stessi e fa male. Che può far paura ciò che c’è dopo la vita, ma soltanto perchè è l’ignoto a mettere timore.

Mi ha insegnato che alla sua età si può guardare indietro, al percorso già fatto, e sentirsi felici.

Andai via da quella casa con una domanda nella testa… Non è forse lo scopo della vita, il motivo per cui siamo qui, arrivare finalmente ad avere tali consapevolezze così ben salde nel cuore e nella mente?