Il termostato empatico

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Insomma, è arrivato il fatidico momento di accendere i riscaldamenti. Molti condomìni della mia cittadina li hanno centralizzati, quindi i termosifoni di tutti gli appartamenti si accendono e spengono insieme agli stessi orari. Nel mio parco ognuno fa da sé e qualche anno fa l’elettricista della squadra che si occupò dei lavori di ristrutturazione montò il termostato per comandare la caldaia dall’interno della casa.
Ma a modo suo.
Ogni anno devo tornare per qualche istante al momento in cui mi spiegò come l’aveva impostato.
Ogni anno resto qualche istante davanti al termostato come un’ebete a ripetere mentalmente il suo breve e personale ragionamento. Lo sportellino del termostato ha un bottoncino che se si trova al centro significa spento. Poi ci sono due disegnini. Un sole e un fiocco di neve.
Adesso.
In genere il sole sta per l’estate, quindi dovrebbero accendersi i condizionatori spostando il bottoncino lì. Il fiocco di neve rappresenterebbe l’inverno, quindi comanderebbe i termosifoni.
Invece no.
Il mio elettricista la pensava diversamente. Giusto a sottolineare che niente è mai scritto per sempre, tutto si può guardare sempre da un altro punto di vista. Ricordo che con una semplicità disarmante, come fosse la cosa più ovvia del mondo, mi disse che spostando il bottoncino sul sole che lui associava al caldo si sarebbero accesi i termosifoni. Il fiocco di neve avrebbe azionato ciò che crea il freddo, i condizionatori. Facile. Da allora non so quante volte ho dovuto ripetere questa storia perché chiunque si accingeva ad accendere i termosifoni dieci volte su dieci avrebbe spinto il bottoncino verso il fiocco di neve.
Ammetto che mi piace questa piccola rivoluzione di pensiero. Insomma, ho qualche difficoltà con le convenzioni. Quando in palestra seguivo il corso di aerobica ciò che per l’istruttrice era destra per me era sinistra e viceversa. Ho scoperto che mi diverto molto di più in sala pesi, dove posso fare come mi pare purché i movimenti siano corretti. L’ordine però posso deciderlo io. Non riesco ad andar dritta nemmeno sul tapis roulant. Ogni tanto sbando perché mi distraggo e disegno curiose curve sul rullo mobile.
L’elettricista invece veniva da un piccolo paesino, di quelli dove regnano le tradizioni e il motto se nasci tondo non muori quadrato e lui aveva tutta l’aria di essere un suddito di quel regno. La sua non era una ribellione alle convenzioni. Lui semplicemente associava l’immagine alla sensazione e quindi alla funzione. Un po’ come facciamo noi che scriviamo guardando il mondo attraverso la pelle. Magari senza farlo apposta regoliamo anche noi un qualche termostato quando ci affacciamo dal balcone o dalla finestra o quando mettiamo il naso fuori alla porta e la realtà ci sembra più fredda un giorno, più calda un altro, di pochi o molti gradi, a prescindere dal meteo e dalle stagioni, che ci sia il sole o la neve è come se fuori da noi sentissimo sempre e comunque la temperatura dell’anima.

ComeDiari #19: Quattro anni dopo

picture by Yaoyao

Nina gira la testa verso il balcone chiuso. Chissà quanto ci vuole a piedi e poi in treno ad arrivare al mare. Ha deciso, andrà sabato. Venerdì sera preparerà la borsa con un asciugamano, un libro e una bottiglia d’acqua. Basta rimandare. Gli orari dei treni, sì, quelli li vedrà direttamente venerdì. Ora basta perdere tempo, gli appunti non si studiano da soli. Un ultimo sguardo al Sole che brilla solo fuori dalla sua stanza. Arriva un tonfo dalla stanza accanto e lei sussulta, non vistosamente, ma il cuore inizia ad andarle a mille. Si sarà fatto male? Nessun altro rumore. Aspetta qualche istante, così magari si risparmia di andare di nuovo a controllare. E se non fa nessun rumore perché è successo qualcosa come l’altra volta? Le trema qualcosa dentro, si alza quasi buttando via la sedia e corre di là, ma a pochi passi dalla porta si avvicina piano. E’ tutto ok, è solo caduta della roba. Entra, la raccoglie e gliela sistema a portata di mano. Torna alla scrivania, dov’era rimasta? Ah si, al Sole. Forse sabato può approfittarne per fare quelle commissioni che aveva rimandato, pensa. Sì dai, l’estate è lunga, al mare ci andrà un altro giorno. E magari una di queste sere va ad ubriacarsi come non ha mai fatto. Anche se non servirebbe a nulla, insomma, facendo mente locale, quale uomo al mondo ha risolto qualcosa facendosi del male? Mettiamo pure che si faccia male, ma proprio per bene. Uccidendo ogni speranza, ogni luce dentro di sé, toccando il fondo. Ecco. Nina è quasi sicura che al mondo sono stati toccati già tutti i fondi possibili. Non è rimasto un solo modo originale di farlo. Ne ripassa a mente alcuni senza accorgersi che nella stanza inizia a farsi più buio. Invece, riflette, è molto più probabile che esista ancora un modo di essere felice che nessuno ha sperimentato mai. Si ripromette che l’indomani si metterà più presto sui libri, ormai si è fatta sera.

Nina alza la testa verso il balcone chiuso. A quell’ora, quando finisce di lavorare, la luce che entra da lì attraversa il living e inonda la sua piccola palestra nell’ingresso come una lingua dritta di fuoco. Sembra che il Sole offra una specie di sentiero a lei che pedala da ferma e la proietti direttamente fuori. Il cuore inizia ad andare a mille e lo legge bene sullo smartwatch al polso. Nelle orecchie la musica copre qualsiasi rumore, anche quello un po’ cigolante dei pedali che avrebbero bisogno di un po’ d’olio. Muove le labbra sulle parole straniere che la inebriano. Accelera sempre di più, abbassa le spalle come se dovesse tagliare meglio l’aria. Tenta di seguire gli intervalli del ritmo tabata che si è data, quaranta secondi di sprint e dieci di recupero, ma questi ultimi alle volte se li scorda quando arriva la canzone che la scatena più di tutte. Quella che la fa sentire bella, forte e selvaggia. Le gambe nemmeno le fanno male, saranno dolori dopo, ma non le importa, anzi. Saranno il segno che ha faticato per bene. La lingua di fuoco diventa tutte le strade del mondo, sono tutte lì davanti a lei. Niente le sembra più impossibile. Le passano i nervi, le paure, i dubbi. Il benessere la invade come una droga, sempre lì, sempre disponibile, bastano le cuffie, i suoi pesi e le scarpe da ginnastica.
Dopo si metterà sui libri, ormai si è fatta sera.

Ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.

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Questa è stata una giornata di suoni di pioggia, di odore di chiuso degli addobbi rimasti per un anno nelle loro scatole e di sapore di tiramisù. Mi lascio avvolgere dalle luci colorate e va bene così. Ho voglia di godermi le cose belle e sognare e come ho letto da qualche parte, di creare il mio mondo, prima di morire in quello degli altri.

Perché forse ormai ci sono arrivata a cosa mi rende diversa e cosa mi rende simile. Sto addestrando il mio baricentro a non dichiararsi sempre colpevole e a non perdere la calma. Mi risulta ancora molto difficile quando ho a che fare con un impiegato Asl o comunale. L’ultima volta che uno di loro mi ha detto che le carte della pratica X non erano quelle giuste mi sono quasi messa a piangere. In piena pandemia, chiusa in casa e nessun sito aggiornato o numero di telefono attivo non potevo sapere quali fossero le carte giuste. L’inefficienza, la negligenza e l’incompetenza mi fanno letteralmente schifo, anche se detto da me che scrivo dal divano lanciando occhiate feroci di tanto in tanto a quel pezzo di scotch rimasto penzoloni sul mobile sembra che il problema sia qualche mia mania invece che qualcosa di serio. Eppure quando la guardia giurata si è rivolta con arroganza ad un uomo che chiedeva informazioni ho provato rabbia. Se qualcuno rispondesse a quel dannato telefono non disturberebbero te, pensavo. Mi sono resa conto però che se ne fai una questione personale puoi anche implodere di dispiacere, ma non cambi le cose.

E sono le emozioni e quella spiacevolissima sensazione di frustrazione ciò che muove gli haters, i leoni da tastiera o le persone che ti amavano ad insultarti, anche in anonimo. Poco tempo fa si è accesa una questione pseudo-femminista sui social in seguito a qualcosa accaduto in tv. Un programma Rai aveva inviato in onda un tutorial rivolto alle donne su come fare la spesa in maniera sexy. Si è alzato un coro di femministe indignate e offese, tanto che il programma, uno dei pochi ancora validi secondo me, è stato chiuso. Ho letto manifestazioni di rabbia assurde e mi accorgevo che nel leggerle mi stava venendo voglia di insultare loro a mia volta. Quando ho provato a spiegare la mia opinione ad una persona amica poco ci è mancato che mi processasse. Avevo qualche problema, io, se un tutorial su come una donna possa muoversi in modo sexy non mi offendeva. Non ero indignata perché secondo me aveva problemi chi quel tutorial l’aveva preso sul serio, ma soprattutto perché finché le donne etichettano un’altra donna come oggetto allora andiamo indietro pensando di andare avanti. La vera parità si avrà quando una donna Presidente o astronauta o Rettore universitario non farà notizia perché sarà assolutamente normale. Pochi giorni dopo è andata in onda una partita della nazionale femminile di calcio, commentata da giornaliste sportive, donne. Ed questo è il femminismo vuoto e insulso che si merita la maggior parte del genere femminile e mi dispiace molto.

Insomma, credo che avrò sempre una certa difficoltà a trovarmi d’accordo con buona parte del mondo. Una volta ho sentito dire che forse non è il corpo che contiene l’anima, ma è l’anima a contenere il corpo. Se così è davvero, allora forse non siamo così tanto fragili e in pericolo di disgregarci da un momento all’altro. Siamo molto più stabili e solidi di quanto pensiamo a patto però di prenderci cura di ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.

La seconda volta siamo ovunque.

Ogni tanto mi avvicino al balcone, scosto la tenda e butto un occhio al mondo per vedere che fa.
Insomma, ci risiamo. Quando chiudono gli alimentari e la farmacia quel po’ di movimento finisce del tutto. Passa solo qualche auto, ma adesso sono le nove e mezza di sera e le strade sono deserte.
Quasi avevo dimenticato le difficoltà di Marzo e Aprile. Pur confinata in scelte poco azzardate, l’estate aveva agito come una camomilla sulla mente. Quando si è ripresentata l’ipotesi del lockdown, perfino io che in fondo avevo accolto bene la prima volta lo stare in casa, il non uscire, non vedere nessuno, ho percepito che adesso sarebbe stato diverso. Perché il contagio è più diffuso e perché la gente su Facebook cerca bombole di ossigeno invece che arcobaleni. Perché in primavera in fondo è stato un po’ come quando da bambini si giocava al campeggio con le coperte sul pavimento di casa, facendosi bastare la propria stanza come mondo e vedendo cose incredibili negli oggetti più banali. Io forse non ho mai smesso di farlo e perciò sono stata bene. Ho recuperato un po’ di gap che avevo accumulato con quel tempo che ha preso l’abitudine a muoversi come il nastro trasportatore della cassa del supermercato, fregandosene della tua capacità di mettere la spesa nelle buste al ritmo giusto.
Diciamo che ci si può risolvere da soli fino ad un certo punto però.
Perché poi delle coperte impari a conoscere ogni centimetro quadrato e i demoni li rimetti a posto con una pacca sulle spalle, ma certe cose di te stessa non le conoscerai mai se non ti capita, una sera, una tempesta di lacrime e una pioggia di frasi sconnesse che ti bagna le orecchie e se qualcuno, pure a suo discapito, non ti dice che va bene se esageri, va bene se deludi, va bene se non sei perfetta e se rischi di non piacere e ti restituisce qualcosa che a quanto pare l’Universo aveva dato a lui invece che a te direttamente, te lo metti nel cuore e non importa più dove sei, a casa, fuori, ovunque, sei tu. E sei felice.

Non bastano le strade del mondo.

Quando a Marzo ci fu il cambio dell’ora dimenticai di sistemare subito l’orario al cruscotto dell’auto. Pensai lo faccio domani. Solo che in realtà eravamo in lockdown e l’auto la prendevo una volta ogni dieci giorni. Domani divenne prossima volta. E così via di settimana in settimana.

Insomma sono arrivata a oggi che per sapere che ora è mentre sono alla guida mi sono abituata mentalmente a mettere avanti l’orologio di un’ora e sei minuti di ritardi vari ed eventuali che qualsiasi orologio non collegato a internet accumula per definizione, pur di risparmiarmi la fatica di inoltrarmi nel bosco di menù e sottomenù del cruscotto che mi permetterebbero di mettere in orario l’orologio come farebbe qualsiasi persona normale.

L’altra mattina mentre andavo al lavoro ci riflettevo su e sono arrivata alla conclusione che questa cosa (non) l’ho fatta per dimostrare a me stessa che so resistere alla tentazione di tenere tutto in ordine e di riuscire a tollerare le imperfezioni della vita, le note stonate, le disarmonie. Pochi istanti dopo però ho realizzato che decidere cosa potesse essere una mania e cosa no poteva essere essa stessa una mania e che quindi ero punto e a capo. Ho pensato allora di metterlo a posto ma ormai siamo ad Ottobre e tra poco sarà praticamente di nuovo in orario.

Mi piace pensare che esista un piccolo esercito di persone sparso per il mondo che ogni giorno rende difficile qualcosa di banale, senza un motivo preciso, ma solo assecondando un’innata resistenza a tutta una serie di idee, convenzioni e comportamenti normalmente condivisi dalla maggior parte delle persone che abita da qualche parte vicino al cuore, una specie di bisogno. E’ come se le strade del mondo non bastassero e allora si avverte la necessità di costruirsene altre, a modo proprio.

Lo scorso sabato ho avuto una piccola conferma che forse c’è davvero. Stavo camminando da un’ora quasi e avevo deciso di fermarmi a sedere sulla panchina di un piccolo parco. C’erano diversi bambini e pochi adulti seduti o in giro per i vialetti ricoperti di foglie, sassolini e aghi di pino. Stavo per rialzarmi giacché stando ferma le gambe stavano per urlarmi la stanchezza che non avevo per nulla avvertito durante i tre chilometri e più di passeggiata, quando mi si para davanti una bambina di sette o otto anni, occhi tondi e blu, capelli castano scuro raccolti in due codini ai lati della testa, un impermeabile blu scuro. Aveva l’aria seria di una che stava facendo qualcosa di estremamente importante. Mi ha mostrato un ciucciotto da neonato e mi ha chiesto se per caso avessi visto a quale bambino fosse caduto.

Non ricordo a cosa stavo pensando, però ricordo che all’improvviso mi era sembrato del tutto stupido. Ho cercato di assumere in fretta l’aria un’adulta all’altezza della questione. Mi sono guardata intorno, ma non c’erano carrozzine o neonati in giro. Le dissi che mi dispiaceva ma che non sapevo proprio a chi potesse appartenere. Senza un attimo di esitazione si è rivolta, senza successo, alle persone sedute sulle altre panchine. Poi è andata verso l’altro lato del parco e l’ho persa di vista.

Insomma avrebbe potuto lasciarlo da qualche parte in vista e tornare a giocare e invece, mentre camminava a passi lunghi affondando bene gli scarponcini nel terreno di una strada che conosceva soltanto lei, sembrava davvero non dovesse far nulla che fosse un po’ meno che salvare il mondo.

Vuoto per pieno, Pasqua.

Picture by margherita_grasso

Una signora bionda sulla settantina si ferma sotto al balcone al primo piano del palazzo di fronte al mio. Credo sia la seconda o terza volta. Aspetta un po’, poi alza lo sguardo e sorride al suo nipotino. Come stai, hai fatto i compiti, come sei bello tesoro mio. La prima volta le sono passata accanto mentre andavo a fare la spesa, poi mi è capitato di rivedere la stessa sequenza di azioni direttamente dal mio balcone. Un signore anziano qualche piano più su invece apre le porte degli infissi con slancio e si appoggia alla ringhiera. A volte va su e giù per il balcone. Cerchiamo implicitamente di approfittare con lo sguardo di spazi di mondo diversi. In un altro balcone ancora due bambini giocano con la palla e in quello del palazzo alla mia destra ogni tanto la famiglia si riunisce chiacchierando in quello che sembra uno spazio comune, diversamente dall’interno della casa, forse, dove ognuno ha il suo da fare. Solo la donna più anziana porta la mascherina e cerca di farsi ubbidire dal cane che le gironzola intorno.

Le abitudini si adattano agli spazi ristretti e questa settimana ho capito che vale anche per me, nonostante all’inizio sentissi poco il peso delle restrizioni. C’è un altro spazio che al contrario sembra allargarsi, agguantando centimetri su centimetri ogni giorno approfittando che non ci sia quasi nessuno in giro a guardare, curiosare, giudicare. Mi chiedo se forse non sia meglio così e mi sorprendo nel pensare ogni tanto che il dopo mi fa un po’ paura. Non voglio che al via libera qualcuno apra con slancio le porte del mio mondo ficcandocisi dentro e rimettendo in disordine tutto, dopo lunghi giorni passati a rassettare, catalogare, a far prendere aria a quegli angoli dell’anima dove non si accende mai la luce per tenerli nascosti e al sicuro dagli altri. Per non parlare di tutti quei padiglioni nuovi di zecca che sto cercando di attrezzare con fonti di energia rinnovabili in maniera che vadano da sé anche quando sarò troppo occupata per curarli per bene. Non voglio che arrivi la folla, la confusione, il dubbio, l’invidia o la paura a sciuparli.

Questa sera ho visto alla TV una Basilica di San Pietro vuota, ma per esempio, per la prima volta non mi sono vista come da fuori. Insomma, quando è piena di gente per forza di cose te che la guardi da lontano sei fuori. Adesso che è vuota, mi sembra di esserci, di essere lì dentro.

Io che non sono particolarmente religiosa, che quando capito a Messa mi lascio distrarre dal cappello, dalla borsa che cade, dal colpo di tosse, dal freddo, dal caldo, dall’eco, dalle sculture, mi godo questo vuoto che è pieno, questo escludere che include.

La Terra con la mascherina

Questa immagine mi ha colpito per la sua tenerezza, per il colpo d’occhio che ci mostra quanto la questione sia globale e in qualche modo mi ricollego a ciò che dicevo nell’ultimo post, il mondo è malato, vero, però quel che sta accadendo è segno di uno squilibrio profondo che va oltre al solo problema del riscaldamento globale. O meglio, finora quando se ne parlava ci si sentiva poco coinvolti direttamente, come persone, come se fosse qualcosa che chissà quando o come avrebbe inciso sulle nostre vite. Insomma, qualche grado in più sul termometro ma la nostra realtà scorreva se possibile a velocità più elevata rispetto a qualche decennio fa. Che le due cose siano correlate oppure no non lo so, ma la Terra intera indossa una mascherina e non è solo una geniale illustrazione.

Appunti di quarantena

Sono in fila per entrare al supermercato, intorno a me le persone indossano mascherine di vari tipi e chi non ce l’ha avvolge naso e bocca in una sciarpa di lana sotto i quasi venti gradi di un Marzo che cerca di fare il suo dovere nonostante tutto.
Esce una coppia di anziani, lui zoppica un po’, lei sembra affaticata, portano un paio di buste che sembrano poco pesanti. Una signora chiede ma come, voi uscite di casa, lei risponde che tanto in quarantena ci stanno sempre e la zittisce in fretta. Io che so cosa significa per qualcuno non poter uscire liberamente di casa annuisco tra me e me, mentre sento un paio di sensazioni perdere la strada e fare un pericoloso slalom per non scontrarsi.

La prima considerazione che ho appuntato mentalmente all’inizio di questa settimana è che all’italiano medio è stato chiesto praticamente di condurre per quindici giorni la vita di una persona anziana o disabile, ma anche di uno studente universitario sotto esame e ha quasi dato di matto, tra fughe, paranoie, crisi ed escamotage vari per riuscire lo stesso a mettere un piede fuori casa. Per non parlare del fatto che ci ha messo un po’ a capire che la quarantena andava fatta per proteggere se stesso.

Perfino la TV ha cambiato i palinsesti per poter intrattenere i bambini a casa da giorni, come se fossero delle bombe a mano con la sicura tolta, pronti ad esplodere al primo accenno di noia. Al quinto giorno di clausura sono iniziati i flash-mob per sentirci più vicini a gente di cui nemmeno sapevamo l’esistenza. La sensazione sui social era parliamo per due tre giorni di questa cosa poi la dimentichiamo e passiamo alla prossima come accade sempre e ho assistito pian piano alla conversione di tutti al solo e unico tema Coronavirus.

La prima volta che però ho sentito che davvero si tratta di un momento storico è stato sabato sera, quando mi sono affacciata al balcone e non c’era nessuno. Nessuno, né a piedi, né in auto. Il silenzio mi è piaciuto ma poi dopo pochi secondi ha iniziato ad inquietarmi. Mi sono ricordata di quando da piccola nei miei voli pindarici mentali mi chiedevo come sarebbe stato il mondo senza persone, come le strade sarebbero apparse più larghe e di lunghezza infinita, ma soprattutto mi chiedevo quanto potesse essere divertente andare in autostrada con la bicicletta. Per un istante è sembrato davvero che il mondo si fosse svuotato.

Con il passare dei giorni mi abituo a queste sensazioni, ma soprattutto inizia a piacermi l’estrema calma in fila dal fruttivendolo, i posso entrare, grazie, mi scusi nei piccoli negozi di alimentari, perché sto cercando di uscire a piedi e usufruire delle attività dei piccoli commercianti invece di recarmi nei grandi supermercati, con più gente e più rischio, almeno secondo me. Mi piace vedere le Istituzioni che lavorano sodo, i politici che non litigano. Mi piace l’idea che lo smart working oltre che ad evitare possibili contagi stia anche diminuendo traffico e inquinamento. Mi piace che la TV sia diventata di nuovo davvero servizio pubblico, che non inventa più frivolezze per intrattenere la gente, ma solo aiuta a capire, imparare, a fare da ponte con le Istituzioni di cui spero si possa tornare ad aver fiducia. Mi piacciono i Sindaci che si chiudono negli uffici, anche da soli, a lavorare, lavorare tanto. Mi piace che si sia placata l’ansia di andare, vedere, correre ovunque e mi piace l’idea che in qualche modo ho come del tempo regalato per me stessa, per rimettermi in piedi.

E se è vero che ogni malattia nasce da uno squilibrio degli individui con la realtà che li circonda come la medicina orientale ci insegna, allora tutto ciò significa che qualcosa deve cambiare necessariamente o forse, che questo momento storico ci cambierà, anche duramente e non accetterà se o ma o scuse per uscire lo stesso di casa o per non entrare e guardare dentro di sé.

ComeDiari #17: Fiato sospeso

Mi accorgo del tempo che passa perché sul legno liscio dei mobili si è posata di nuovo la polvere. Se non fosse per quella direi che oggi è lo stesso giorno di ieri. Almeno dentro di me sembra essere così.
E se le luci della città non brillassero così tanto in lontananza non sarei nemmeno così sicura del fatto che, no, sui miei occhi non c’è nessun velo opaco e grigio. Fuori da me il mondo è acceso e la Luna mi prende alla sprovvista quando alzo un po’ di più lo sguardo, nel caso il concetto non mi sia abbastanza chiaro.
Le labbra mi bruciano e se così non fosse penserei ancora che la questione sia chiusa tutta in una bocca che non parla, un’assenza silente e una strada lunghissima cosparsa di briciole di parole e di sguardi.
Riesco a sentire l’Amore sotto ai polpastrelli e la musica bollire nelle orecchie nonostante a volte ancora mi precipitano dentro vorticando furiosamente cadendo dalla soglia della Paura e sprigionando immagini che arrivano alla mente senza passare dai sensi.
Succede allora che una mente affollata appesantisce il cuore e tutti gli altri organi e l’Anima trattiene il respiro per allontanare da sé il prossimo istante.

Quale domani

picture by Drawingfish

La cassiera maltratta i miei funghi pleurotus in vaschetta mentre cerca di far riconoscere il codice a barre della confezione agli infrarossi ormai esausti alla fine di un lungo sabato di lavoro. Guardo i funghi che finalmente rotolano mogi fino a me che li attendo alla fine della cassa con la busta in plastica riciclabile tra le mani.

Ho letto sul web un’intervista a Piero Angela. Diceva che la mia è la generazione che non ha speranza nel futuro. A parte le certezze che mancano, siamo in qualche modo convinti del fatto che domani andrà peggio. A prescindere. La nostra unica certezza è che domani ci sarà una nuova crisi economica, una qualche catastrofe ambientale o semplicemente ci sarà difficile crearci una famiglia, trovare un lavoro a tempo indeterminato, comprare una casa o semplicemente avere ancora un Pianeta su cui abitare.

Esco dal supermercato, spingo il carrello che ha seri problemi a tenere la traiettoria fino all’auto. Si è fatto buio. La mia di speranza lavora a contratto. Certi periodi le va bene e l’Universo decide di rinnovare, altri invece è costretta a stare a casa ma per sua natura cerca lo stesso qualcosa da fare, insomma ne approfitta per mettere in ordine, rinnovare casa qua e là, fare meditazione. Diciamo che non mi chiedo spesso domani come andrà. Cerco di fare il meglio con quello che ho oggi. Eppure quest’ansia generale la percepisco negli altri ed è come un velo che si incastra nei meccanismi delle cose della vita e rende tutto più faticoso.

L’ascensore è ostaggio di una mamma che non riesce a farci entrare i suoi due piccoli maschietti al fine di salire al primo piano. Uno entra ed esce dal vano come un coniglietto Duracell impazzito, l’altro fa le capriole sulle scale. Uno dei due qualche giorno prima mi aveva additata per strada storcendo il nasino al motto di “Tu sei brutta e cattiva!”, così a gratis. Ho provato a spiegargli che forse si trattava di uno scambio di persona ma non ha voluto sentire ragioni. Ho immaginato che forse anche avere cinque anni comporta l’insorgenza di momenti di forte stress.
Se fosse stata un gatto la signora avrebbe potuto afferrarli per il collo e tirarli dentro, ma deve accontentarsi di prenderli per le orecchie.

Il fatto che questi siano tempi duri ci condiziona a pensare a domani, ma non al futuro. Ci teniamo a soddisfare i bisogni prossimi e ci stiamo disabituando a pensare a lungo termine. Altro che fine del mondo dei Maya o Millennium Bug. L’importante è potersi rintanare nelle proprie abitazioni a fine giornata davanti alla televisione da cinquanta pollici. Durante quel paio d’ore dopo cena l’ansia sembra placarsi, sia che siamo riusciti a portare a termine tutti gli impegni della giornata, sia che no.

L’altro giorno però mi è presa fortemente a male. Non avevo voglia di far niente, ma questo mi faceva sentire profondamente in colpa. In più mi sono accorta che davvero le mie ambizioni si sono ridotte a riuscire a rispettare la mia agenda settimanale. Cerco di fare il meglio con quello che ho oggi.
Si, okay.

Non basta però. Sento il bisogno di fare ogni giorno qualcosa che prenderà senso e forma in quella cosa lì che si chiama futuro, di riuscire ad essere costante in qualcosa che non so ancora come e in quale domani sarà.