Fisso il bordo del piumone che mi piace sia rigorosamente tra naso e bocca.
Mi viene in mente A Christmas Carol. Mi stupisco perché in effetti non ci avevo mai riflettuto fuori dal momento della visione dei vari film che lo rappresentano. Sarà che sto invecchiando, penso. Mi si sono parati davanti agli occhi i Natali passati. La famiglia, le tavolate, la tombola, i nonni, il cibo che bastava per il triplo delle persone. Poi velocemente la scena cambia. L’atmosfera è fredda, i colori cupi. Non mi vedo, non vedo nessuno. Stanze vuote, luci spente, i contorni degli oggetti appena illuminati dalle luci della strada filtrate dai vetri dei balconi. I miei fantasmi non hanno avuto molto da fare, ho realizzato subito che l’unico Natale che esiste è quello presente. E’ quello per cui puoi fare qualcosa.
La stessa cosa vale un po’ per tutto il resto.
Oggi è l’unico giorno per cui puoi fare qualcosa. Puoi immaginarlo già tutto dal mattino, vederti nelle cose realizzate e vedere che in effetti si realizzano con poco sforzo. E così un giorno alla volta. Non puoi fare niente per le relazioni passate, le persone sparite e quelle che non ci sono più per davvero. Non puoi fare niente per quella te che avevi abbandonato per stare dietro agli altri, ma puoi guardarti adesso, ascoltarti adesso, prenderti cura del tuo corpo e della tua anima adesso.
Questa mattina mentre passeggiavo cercavo come al solito di sorprendere il nuovo anno in un guizzo nell’aria, una folata di vento diversa, in un raggio di sole specifico che qui sembra di primavera, in uno sguardo, ma come al solito non ho trovato nulla. Non credo che l’Universo sappia della bizzarra suddivisione che diamo al tempo e penso che di Capodanni nel corso di un anno ce ne siano diversi. Un passo alla volta ho cercato di spostare l’attenzione su oggi. Senza nostalgia di ieri, senza paura del domani.
natale
Il mistero del pastore

Stacco per l’ultima volta la spina alle lucine che infondono l’atmosfera calda nella scena e immagino i figuranti inanimati scambiarsi uno sguardo di intesa generale, è il momento, si smonta tutto.
Ammetto che quest’anno ho faticato a mettere su il presepe, forse per il significato diverso che la festa ha assunto per me e per il fatto di doverlo fare da sola, però avevo letto un articolo secondo cui quello religioso è solo uno dei motivi per cui allestirne uno. Sul piano spirituale rappresenterebbe quel che si ha dentro e il bambino appena nato non è che il Sole bambino che nasce con il solstizio d’inverno e che ci promette la vita e la primavera, mentre intorno a lui il mondo si affaccenda a combattere le difficoltà di sempre. Sul piano materiale sarebbe la riproduzione di un pezzo di Universo, un affresco della realtà. Quest’anno avevo deciso di tirar fuori dalle scatole solo i miei pastori preferiti. Ogni pastore ha la sua scatola su misura e per ricordarsi dove riporlo, alla fine delle feste, dentro ad ognuna c’è una piccola descrizione, scritta a mano dal membro della famiglia che per primo si trovava a farlo. Ne apro una e ritrovo la calligrafia morbida di mia madre pastorella con il pane. Facile, la trovo al primo piano dell’unica casetta e la ripongo nella sua custodia comoda. Con lo stampato grande di mio fratello trovo BUE, che intanto stava scommettendo con Asino su chi dei due sarebbe andato via prima dalla mangiatoia quest’anno. Il pastore nero con anfora nel cesto è quello con la descrizione più lunga e scritta in piccolo da mio padre. Ne apro un’altra e trovo con la stessa calligrafia pastore con piatto di rame. Guardo sul presepe e ho un attimo di smarrimento. Non so chi sia. Li guardo uno ad uno. Non è il Cuoco che in mano ha un mestolo. Non è il pastore con il pentolone che cucina qualche sorta di street food dell’epoca per strada. Lo zampognaro e il falegname scuotono la testa con fare ovvio. Boh. Vado avanti. Lo troverò per esclusione mi dico. La Madonna rientra prima di San Giuseppe e tiro giù dal soppalco della mangiatoia il pastore che dorme che io adoro perché si narra che il presepe sia frutto di un suo sogno e il tutto prende un’affascinante piega metafisica, tutto è reale e niente lo è. Uno alla volta inscatolo gli altri miei preferiti: il pastore ubriaco con il fiasco, per il quale allestisco una tavola di assi di legno poggiate su dei barili, quello che tira un asino piantato con le zampe a terra e il pastore con il fagotto sulle spalle e l’aria smarrita, non sa dove si trova e in quale locanda andrà a cercare un po’ di calore e tanto vino. Le pecore si riuniscono nella scatolina di plastica e il presepe ormai è quasi vuoto. Nei pressi della locanda, all’angolo della strada, è rimasto un uomo con la barba bianca e una tunica blu. In mano ha un piattino con poche monete dentro. Mi è sempre piaciuta la sua aria elegante e gentile. Sei tu il pastore con il piatto di rame, quasi gli dico divertita dal piccolo mistero che ha avvolto il momento noioso e faticoso del rimettere tutto a posto. Fosse stato per me avrei scritto pastore che chiede l’elemosina, più chiaro, non credi? Mi guarda placido e silenzioso. Insomma a me non era mai sembrato importante di cosa fosse fatto il piatto. Lo ripongo nella custodia con calma e sorrido, lui sembra quello meno affannato e smarrito di tutti e penso che stia lì davvero il mistero. Alla prossima, dico, tra me e me.
Il Natale spiegato ad un gatto

L’altoparlante nel parcheggio del centro commerciale gracchia una canzone di Natale e per un momento non sono lì per gli ultimi acquisti prima delle feste, ma sono appena scesa da un treno fermo alla stazione di un paese di montagna imbiancato dalla neve, semideserto perché è tardi e la maggior parte delle persone è già rientrata al calduccio delle proprie case. Tiro giù la valigia e mi incammino in compagnia di quella melodia che si fa più lontana ad ogni passo e delle luci dei lampioni e delle luminarie natalizie fioche per la nebbia scesa dopo l’abbondante nevicata. Prendo le scale mobili e le immagini svaniscono tra le luci forti e il via vai fitto di persone intorno a me.
Al rientro l’ascensore si blocca tra il secondo e il terzo piano per l’ennesima volta e penso tra me e me che non vale più nemmeno quella vecchia citazione che l’unica cosa che va secondo i piani è l’ascensore. Per arrivare al terzo ormai più della metà delle volte devo salire prima fino al quarto piano, poi scendere. In realtà potrei anche fare quell’unico piano a piedi, ma è una questione di principio, specie quando sono carica di buste della spesa. In qualche modo voglio scendere al terzo così come dovrebbe essere. Le prime volte mi attaccavo al pulsante di allarme impaurita e il portiere richiamava l’ascensore al piano terra. Adesso invece quel piano secondo-e-tre-quarti mi sta simpatico. Su cinque piani è proprio lì che deve incepparsi e qualche volta mi perdo ad immaginare che deve esserci un motivo e che magari lì in mezzo ci sia l’ingresso nascosto di un qualche universo parallelo.
Mentre svuoto le buste un nasino curioso viene ad indagare tra i vari prodotti alla ricerca dei croccantini. Guardo la mia gattina e mi rendo conto che siamo terribilmente complicati. Abbiamo bisogno di un mucchio di cose che per lei hanno solo odori strani e sgradevoli. A lei non servono tanti tipi di cibo, detergenti, utensili. Ad un gatto, ecco, non serve immaginare. Ancor meno serve una cosa come il Natale. Al mio piace l’Albero ma solo perché può nascondercisi sotto e le luci proiettate sul soffitto che lo incantano per minuti interi non riuscendosi a spiegare di cosa si tratta.
A gambe incrociate sul divano il pomeriggio di Natale mi dico che se le potessi spiegare questa festa le direi di osservare i silenzi, le luci, quelle di casa o del paesino di montagna innevato o del mondo misterioso dietro la porta dell’ascensore e non fare distinzione tra ciò che sembra e ciò che è e allora avrebbe già riscaldato il buio e starebbe lì tutto il senso, senza bisogno di cercarne un altro.
La Notte di Natale

Prima parte, La Notte di Halloween.
Ho fame. Ho le dita congelate. E questa dannata serratura si è bloccata.
Si sta facendo buio ed è saltata la luce. Mi guardo intorno per cercare qualcosa in camera mia che possa aiutarmi. Mannaggia tutto.
Prendo il cacciavite dal cassetto della scrivania e inizio a smontare la serratura. Sono entrata qui per incartare un po’ di regali di nascosto. Tra poco sarà la Mezzanotte. Questa porta raramente viene chiusa a chiave. Forse per questo si è bloccata. Butto un occhio al balcone. La luce naturale scarseggia. Non ricordo come fosse il tempo fuori quando sono entrata, ma adesso l’aria sembra spessa e bianca. Ho provato a chiamare aiuto quando ho scoperto di esser rimasta chiusa in camera mia, ma nessuno mi ha risposto. Non è possibile che non mi abbiano sentita. Quando la corrente elettrica è andata via è calato il silenzio. Porca miseria. Ho freddo e non riesco a fare forza, lo scrocco è a forma di uncino e si è incastrato. Tiro un calcio alla porta. Provo a bussare e a chiamare di nuovo. Solo il vento tenta una timida risposta.
Mi avvicino al balcone. Le lucine blu e rosse che decorano i balconi del palazzo di fronte sono sfocate. Vado a cercare il telefonino. Nessun messaggio. Per un attimo mi manca il respiro quando mi rendo conto che questa Vigilia lui non scriverà. Mi guardo intorno, ma stavolta cerco con gli occhi un appiglio. Non è colpa mia. In fondo non ci ha messo molto a dimenticarmi. Tra il poco e il niente, voleva che scegliessi per il niente, è evidente. Non posso vacillare adesso. Mi siedo sul ciglio del letto. Gli occhi finiscono di nuovo sulle luci di Natale oltre i vetri appannati della mia stanza. Le imploro di restare lì. Di non andarsene. Almeno loro. Solo un momento, ancora. Finisco automaticamente tra i messaggi di un anno fa. Questo però è rimasto senza mittente.
“C’era qualcosa che volevi stasera. Se ti sbrighi sei ancora in tempo. La notte è appena iniziata”. Qualsiasi persona sana di mente seguirebbe le indicazioni provenienti da messaggi anonimi ricevuti durante la notte di Halloween, come no. Non ricordo nulla di quella notte, solo che presi ad inseguire risate di bambini nella nebbia. Mi risvegliai il giorno dopo nel mio letto. Sul telefono trovai un suo buongiorno. È ancora lì. Era il suo solito modo di rispondere senza rispondere. Sbuffai, ma un calore piacevole come al solito si diffuse dalla mano al cuore. Eppure, chissà, quella volta svanì in fretta. Un po’ come la paura di guardare attraverso la nebbia. Il vento annuisce lasciando oscillare le luci sfocate. Mi alzo. Torno velocemente verso la porta. Tiro forte. La porta si apre. L’albero di Natale in corridoio è acceso. Sento rumori di bicchieri, risate, profumi dolci, una luce calda abbraccia tutto il salone. Questa volta penso che la ricorderò, la magia.
Ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.

Questa è stata una giornata di suoni di pioggia, di odore di chiuso degli addobbi rimasti per un anno nelle loro scatole e di sapore di tiramisù. Mi lascio avvolgere dalle luci colorate e va bene così. Ho voglia di godermi le cose belle e sognare e come ho letto da qualche parte, di creare il mio mondo, prima di morire in quello degli altri.
Perché forse ormai ci sono arrivata a cosa mi rende diversa e cosa mi rende simile. Sto addestrando il mio baricentro a non dichiararsi sempre colpevole e a non perdere la calma. Mi risulta ancora molto difficile quando ho a che fare con un impiegato Asl o comunale. L’ultima volta che uno di loro mi ha detto che le carte della pratica X non erano quelle giuste mi sono quasi messa a piangere. In piena pandemia, chiusa in casa e nessun sito aggiornato o numero di telefono attivo non potevo sapere quali fossero le carte giuste. L’inefficienza, la negligenza e l’incompetenza mi fanno letteralmente schifo, anche se detto da me che scrivo dal divano lanciando occhiate feroci di tanto in tanto a quel pezzo di scotch rimasto penzoloni sul mobile sembra che il problema sia qualche mia mania invece che qualcosa di serio. Eppure quando la guardia giurata si è rivolta con arroganza ad un uomo che chiedeva informazioni ho provato rabbia. Se qualcuno rispondesse a quel dannato telefono non disturberebbero te, pensavo. Mi sono resa conto però che se ne fai una questione personale puoi anche implodere di dispiacere, ma non cambi le cose.
E sono le emozioni e quella spiacevolissima sensazione di frustrazione ciò che muove gli haters, i leoni da tastiera o le persone che ti amavano ad insultarti, anche in anonimo. Poco tempo fa si è accesa una questione pseudo-femminista sui social in seguito a qualcosa accaduto in tv. Un programma Rai aveva inviato in onda un tutorial rivolto alle donne su come fare la spesa in maniera sexy. Si è alzato un coro di femministe indignate e offese, tanto che il programma, uno dei pochi ancora validi secondo me, è stato chiuso. Ho letto manifestazioni di rabbia assurde e mi accorgevo che nel leggerle mi stava venendo voglia di insultare loro a mia volta. Quando ho provato a spiegare la mia opinione ad una persona amica poco ci è mancato che mi processasse. Avevo qualche problema, io, se un tutorial su come una donna possa muoversi in modo sexy non mi offendeva. Non ero indignata perché secondo me aveva problemi chi quel tutorial l’aveva preso sul serio, ma soprattutto perché finché le donne etichettano un’altra donna come oggetto allora andiamo indietro pensando di andare avanti. La vera parità si avrà quando una donna Presidente o astronauta o Rettore universitario non farà notizia perché sarà assolutamente normale. Pochi giorni dopo è andata in onda una partita della nazionale femminile di calcio, commentata da giornaliste sportive, donne. Ed questo è il femminismo vuoto e insulso che si merita la maggior parte del genere femminile e mi dispiace molto.
Insomma, credo che avrò sempre una certa difficoltà a trovarmi d’accordo con buona parte del mondo. Una volta ho sentito dire che forse non è il corpo che contiene l’anima, ma è l’anima a contenere il corpo. Se così è davvero, allora forse non siamo così tanto fragili e in pericolo di disgregarci da un momento all’altro. Siamo molto più stabili e solidi di quanto pensiamo a patto però di prenderci cura di ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.
Voglia di.

Vicino casa mia da un po’ di tempo ha aperto un negozio cinese, di quelli che vendono un po’ di tutto, non tanto per la gioia degli altri negozianti ma sicuramente per la mia dal momento che ci vado spesso, trovo ogni diavoleria che mi serve visto che mi piace fare qualche lavoro a mano e ho un debole per addobbi natalizi, decorazioni e arredamento in genere. La ragazza cinese che sta alla cassa parla abbastanza bene l’italiano, è gentile, ma ha una qualità che apprezzo in particolare: è estremamente seria. Qualsiasi sia la cavolata con cui mi presento al bancone, lei non mi guarda, non commenta, non cambia espressione del viso. In genere non sopporto commesse e negozianti che a tutti i costi cercano di rivolgermi la parola e chiedermi come sto, come sta la mia famiglia, di parlare del tempo, del lavoro e degli studi o di aiutarmi o peggio ancora di seguirmi per tutto il negozio in attesa che mi decida a comprare qualcosa.
Eppure, l’altra sera, devo averla sconvolta davvero.
Avevo voglia di sushi. Giacché avevo in casa riso, salmone e avocado ho deciso di improvvisare un sushi fatto in casa. Qualche giorno prima avevo già visto lì nel reparto degli utensili da cucina la stuoia in bambù che serve ad arrotolare il riso, così quella sera ho fatto un salto lì per prenderla. Mi sono recata alla cassa come ho fatto decine di altre volte. Stavolta però la cinese alza lo sguardo. Allarga la bocca in un sorriso che non le avevo praticamente mai visto mostrando dei denti bianchissimi e mi fa:
–Devi fare sushi?
Mi imbarazzo e le balbetto prima un no, poi un forse, quasi, una specie di sushi, non proprio ecco. Un ci provo. Lei tutta sorridente imbusta il pacchetto e me lo porge mentre la mia mente lavora a mille, insomma chi, come, cosa. Perché?
Ecco. Insomma, guardo le calze dell’Epifania ormai vuote dormire sul mobile di fronte a me mezze penzoloni, credo di esser stata l’unica nel quartiere ad aver acceso le luci natalizie anche oggi, mi guardo intorno e appunto mentalmente le cose che penso non toglierò via perché in fondo simboleggiano l’inverno e non il Natale in senso stretto, così per tenere ancora con me il calore di qualche luce, di una candela e delle decorazioni in legno che pendono dai pomelli dei mobili. Decido che voglio godermi ancora un po’ tutto questo, trascorrere un’altra serata in compagnia dell’Albero e dei pastori incastrati nelle loro posizioni lì sul Presepe, come se fosse una fotografia di un momento e allo stesso tempo anche un pullulare di attività, un vociare che si fa più sottile e si perde tra le note suonate dai zampognari ai lati della capanna.
Ho vicina a me l’agenda del 2020 su cui ancora non ho trasferito le cose appuntate sull’ultima pagina di quella del 2019, lo farò domattina, penso, voglio risvegliarmi dolcemente, a modo mio, da questo incanto. Ripenso alle parole di qualcuno che mi ha suggerito di non dimenticare che si può non smettere di creare e di crearsi e sento che mi sono affezionata a questa parola. Ho davvero voglia di creare, che poi secondo l’etimologia significa produrre dal nulla. Senza dimenticare che se non si ha un piano si finisce per rientrare nei piani di qualcun altro. E allora decido di creare il mio tempo, il mio spazio, le mie relazioni, le mie attività e con un po’ di esercizio, le mie emozioni. Al momento creo l’atmosfera che mi accompagnerà verso un Gennaio che non ho mai amato come mese ma con cui voglio almeno provare ad andare d’accordo, o almeno a farlo passare più in fretta possibile.
Intanto mi esercito con la stuoia per il sushi. Sembrava più semplice porcamiseria.
Dentro, la luce.

Quest’anno ho addobbato casa più del solito. In particolare mi sono dedicata alle luci. Una serie di quelle minuscole a led alimentate a batteria, un proiettore di fiocchi di neve e altri due che mandano in loop sul soffitto del corridoio cuori e puntini rossi e verdi. Avevo preso un tubo di luci per il balcone che però con l’ultima forte tempesta si è fulminato e allora oggi sono andata al negozio vicino casa e il ragazzo indiano che si trova nel reparto luci mi ha sopportata per circa mezz’ora mentre facevo domande su queste e quelle altre serie di lampadine riguardo lunghezza, qualità, tipo di uso. Ho fissato a lungo degli alberi di luci che purtroppo ho scoperto essere solo da interno e una renna della grandezza di un dalmata fatta di un tubo di led dorati. Alla fine ho scelto due serie di luci a led a cascata e una piccola renna di plastica a batterie. L’indiano deve avermi ripetuto almeno tre volte che non è da esterno, ma l’ho avvolta nella plastica e fissata alla ringhiera del balcone meglio che potevo.
Ho cercato di mettere intorno a me quello che ho dentro, nonostante tutto il buio che ho vissuto quest’anno. Non credevo me ne fosse rimasta di luce, almeno così, ecco, adesso, ma come ho sicuramente detto altre volte qui, il Natale serve proprio a questo. E’ proprio qualcosa che ci serve. Non ci si rifiuta di festeggiare perché “adesso si sta male e forse l’anno prossimo andrà meglio”. Insomma cosa meglio di una luce che si accende nel freddo e nel vento e nella pioggia di questi giorni può darci la forza di andare avanti? Basta una candela, sapete, soltanto una candela per farsi calore nell’anima. Io forse quest’anno ne ho presa qualcuna in più e non vedo l’ora di sentirmi al sicuro, domani sera, tra le mie luci e nei pochi abbracci rimasti. E aspetterò Babbo Natale, lo spirito natalizio apparire come un sorriso sui volti delle persone che amo, guarderò le saracinesche dei negozi chiudersi assaporando l’ultimo minuto di lavoro frenetico che è il momento più bello di tutta la Vigilia, mi dedicherò a cucinare le cose buone che finora ho imparato a fare e sarà Natale, silenzioso, dolce, in punta di piedi, Natale.
Vigilia

Arrivo sulle scale tra il secondo e il primo piano e la sento già.
Sembra suonata da un principiante che fa una nota per volta, senza accordi e riecheggia come le voci lontane e cupe che escono dagli altoparlanti delle stazioni.
La musichetta va a tempo con le lucine intermittenti dell’albero di Natale che sta nell’atrio del palazzo. In tutto sono tre melodie che si susseguono ventiquattrore su ventiquattro. Una proprio non capisco quale canzone sia. Rompono il silenzio e si insinuano tra i pensieri che si incantano a quel gracchiare che sembra venire da un tempo decisamente passato.
Chiudo il pesante portoncino e faccio un breve giro sotto casa per comprare le ultimissime cose che mancano per le tavole di questi giorni. La maggior parte dei negozi in questi giorni ha occupato i marciapiedi con delle bancarelle. Ogni persona che incrocio è presa da quell’impazienza tipica delle vigilie. I negozianti guardano di traverso sia me che l’orologio sul polso, andando su e giù tra i banchi esterni e gli ingressi dei negozi. Eppure questo è il momento che mi piace di più del Natale. Amo quella leggera ansia che pervade ogni singola cosa e che si percepisce ad ogni passo a poche ore dall’inizio dei cenoni. Alzo sulla testa il cappuccio del parka perché sta iniziando a piovere.
Arrivo alla pasticceria con le mani già occupate. In una ho la busta con i limoni per le insalate di pesce, nell’altra un foglio di carta regalo. La signora che assomiglia terribilmente alla mia prof di italiano del liceo finisce di incartare le mie cassatine al pistacchio. Ci scambiamo gli auguri ed esco. Ogni volta che passo di lì dimentico che c’è una chiesa su quella strada perché è sempre chiusa e da fuori sembra il normale ingresso di un’abitazione. Dovevo mancarci da molto giacché mi accorgo solo in quel momento che dietro ai cancelli chiusi qualcuno ha illuminato l’interno della nicchia che ospita la statua della Madonna con dei neon blu e l’esterno con delle lucine rosse che disegnano un arco seguendo l’architettura della nicchia. Da qualche parte appena dopo i cancelli c’è una stella cometa di lucine appesa in alto. Tutt’intorno è completamente buio.
Delle persone mi passano affianco e aspetto che si allontanino per fermarmi di nuovo a guardare. Cerco di immaginare chi e perché ha illuminato quella madonnina di una chiesa praticamente sempre chiusa. Mi vengono in mente immagini di chiese enormi, bellissime e piene di gente, nelle quali sono stata e in cui spesso ho faticato a tenere l’attenzione sulle cerimonie che si stavano svolgendo e nelle quali, in generale, non mi sono mai sentita molto a mio agio. Quella scena invece mi rapisce con una semplicità così ovvia. Quelle luci male assortite insieme mi attirano e mi danno fastidio allo stesso tempo. C’è qualcosa di sbagliato che però è anche assolutamente giusto e che somiglia ad un mucchio di cose insensate, dolorose eppure inevitabili che fanno parte della vita.
E in quel momento ho capito che quest’anno il bello poco mi interessa. Mi interessa di più l’imperfezione. Ho voglia di gioire con chi fa tutto sbagliato, di ribellarmi e di additare e dispiacermi di chi crede di sapere già tutto. Vorrei conoscere le storie di imperfezione di chiunque perché, sapete, è inutile aver paura delle note stonate. Non ci si salva tappandosi le orecchie, anzi. Ci si perde ancora di più.
Rientro nell’atrio del mio palazzo, la musichina strana mi accoglie come ormai succede da giorni. Questa volta, però, arriva di qualche palmo più vicina al mio cuore.
Un augurio di buone feste imperfette a tutti.
Cronache Dal Condominio #6: La conversazione da ascensore
Da quando vivo in un condominio ho dovuto imparare in fretta a fronteggiare situazioni che nella palazzina bifamiliare di paese in cui abitavo prima non avevano assolutamente modo di delinearsi per mancanza di elementi che propriamente ne sono le cause.
Non c’era, ad esempio, l’ascensore. Soprattutto, però, non c’erano possibili interlocutori. Di conseguenza, nessun pericolo di rientrare dopo aver portato fuori la spazzatura e trovare davanti all’ascensore qualcun altro in attesa dello stesso. Decisamente, non potevano crearsi imbarazzanti momenti del tipo entro-prima-io-no-meglio-prima-tu dovuti al fatto che non sempre si riesce a riconoscere all’istante la persona che ci è di fronte e ad associare in due nanosecondi il relativo piano d’appartenenza. Che si sa, l’ordine di entrata nell’ascensore deve essere contrario a quello di uscita, per evitare di incastrarsi nel tentativo di scambiarsi il posto o, peggio, di dover uscire fuori tutti per consentire al condomino giunto al proprio piano di raggiungere la porta di casa.
Sembra una cosa stupida, ma trovatevici e poi me lo raccontate.
In fondo pure Einstein l’aveva già detto. Parlando della relatività del tempo una volta affermò: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora“. Si immagini quanto può sembrare lungo il tempo chiusi in ascensore con un estraneo durante il viaggio che porta dal piano terra al quarto piano.
A questo punto, confesso.
Devo dire che ho tentato, a costo di sembrare fuori di testa, ma l’ho fatto.
Eh si perché per evitare di trovarsi in situazioni del genere, specie quando l’umore non è dei migliori, i modi ci sono.
Una volta vidi con la coda dell’occhio qualcuno che stava per varcare la soglia del portoncino d’entrata. Per evitare di condividere la corsa col suddetto ho accelerato il passo verso l’ascensore, ho aperto in fretta le porte e mi ci sono infilata dentro senza troppi complimenti. Mi sono sentita in colpa per aver costretto l’altro ad aspettare che io liberassi l’ascensore, ma un po’ anche soddisfatta, ecco.
Qualche altra volta mi è andata peggio. Alla domanda “Deve salire?” ho risposto che no, non avevo bisogno dell’ascensore e che io e le mie due buste della spesa avremmo potuto senza problemi prendere le scale. Aehm.
Poi ci sono quei momenti in cui proprio non puoi defilarti in nessun modo. E ti tocca.
La conversazione da ascensore.
Cosa, ditemi, di cosa si può parlare mai in una manciata di secondi? Di niente. Ecco. Fosse per me starei zitta. Il silenzio però è poco amico del tempo e lo fa sembrare ancora più lungo e imbarazzante. Allora bisogna inventare.
Se ci si trova in periodi di feste, l’argomento è facile da trovare. Pasqua e Natale offrono diversi spunti per considerazioni di pochi secondi, così come se c’è Ferragosto o qualche lungo weekend alle porte. In maniera simile, si può parlare del meteo. L’altro giorno, ad esempio, ho annunciato all’inquilino del secondo piano dell’arrivo di Burian, la perturbazione di origini russe che ha portato la neve OVUNQUE tranne che nella mia città. Il tempo di traumatizzarlo e ci siamo congedati.
Spesso si può prendere spunto dal look, da qualche gossip da condominio, dalla lampadina al terzo piano che è fulminata da due giorni e nessuno è andato ancora a cambiarla e cose così.
Insomma, si sopravvive.
Una volta, però, ne ho proprio approfittato.
Ho condiviso la corsa in ascensore con la vicina di casa. Lì, chiuse nella scatola elevatrice, condividendo poco più di un metro quadrato di spazio e pochi secondi di tempo, senza che potesse fuggire da nessuna parte o avesse la possibilità di cambiare argomento o trovare un qualsiasi motivo per evitarmi, gliel’ho detto.
La scala che ha nel balcone adiacente a quello della mia camera da letto sbatte tutta la notte contro il muro quando c’è vento e non mi fa chiudere occhio.
E che cavolo.
Cinque minuti del mio Natale
Cinque minuti.
Giusto il tempo di assaggiare l’aria e sentire quanto sa di attesa.
Il mondo è teso, sospeso, come i fili di lucine intermittenti attaccati ai lampioni che si guardano ai due lati della strada.
Siamo tutti come quei lampioni. Ci scrutiamo attraverso distanze di tanti tipi diversi.
Ci tocchiamo con le parole.
Senti. Senti?
E’ una gioia semplice. Non si muove nulla. C’è silenzio.
Poi accendo una candela e allora l’attesa si compone di secondi che si consumano in successione uno dopo l’altro, fino a quando le distanze si azzerano e tutti noi riusciamo a toccarci addirittura con i pensieri.
Adesso però aspetta.
Ascolta.
Io ti sento.
È tutto qui. È quella parte di Natale che è solo mia e adesso conosci ed è anche un po’ tua.
Cinque minuti del mio Natale.
Auguri di vero cuore a tutti voi e spero abbiate “cinque minuti” per raccontarmi qual è il vostro Natale. Non quello condiviso con amici e parenti, ma quello soltanto vostro, il momento in cui sentite il significato, qualunque esso sia, invadervi.