Short #6

breathe respiro yoga meditazione anima

Chiudo gli occhi. Cerco di captare una scintilla, un pensiero, una sensazione. Qualcosa di vagamente piacevole che mi sostenga giusto il tempo che la fiducia torni a farmi vivere. Non arriva nulla. Mi interesso al mio respiro. Mi concentro sull’aria, immagino il punto più profondo da cui nonostante tutto riesce sempre a risalire. Apro gli occhi.
Proprio da lì, da quel punto, nasce la volontà.

 

Elogio del selfie

Oggi, scorrendo le bacheche di alcuni social, mi chiedevo se davvero stiamo vivendo uno dei periodi più vanesi della storia dell’umanità, dal momento che vengono pubblicati con una continuità impressionante selfie di ogni tipo e da ogni parte del mondo.

Noi utilizzatori della fotocamera interna dei nostri cellulari siamo davvero così tanto vanitosi? E’ giusto bollare la questione in questi termini e basta? Creare nostri autoritratti è davvero qualcosa di così superficiale, così da millennial ed egoriferito?

Siamo diventati semplicemente dei cultori dell’io o c’è dell’altro?

Ecco, io credo di si. Sento ci sia da spezzare qualche lancia a favore di questi selfie.

Parlo a chi almeno una volta nella vita ha provato quella sensazione di completo smarrimento e terrore che nasce dal trovarsi l’obiettivo di una macchina fotografica puntato addosso. Sensazione che si trasfigura attraverso il processo di acquisizione dell’immagine dell’apparecchio fotografico in smorfie terribili, sorrisi tirati, espressioni spaurite o totalmente inespressive.

Nel tempo ho capito che molto dipende da chi ci sta fotografando. In qualche modo finiamo per apparire nel modo in cui quella persona ci vede davvero. E non sempre quel che ne viene fuori è un feedback positivo.

Un’altra buona parte della fotografia dipende da cosa noi pensiamo di noi stessi. Una percezione che può cambiare nel corso della vita ma anche della giornata. Su questa parte qui si può lavorare, certo, nel corso della vita ma spesso della giornata.

Ma sull’altra? Non abbiamo gran margine di decisione. Non tutti abbiamo tra parenti e amici dei fotografi professionisti, di quelli che flirtano con le modelle attraverso la loro Reflex e le decine di obiettivi costosissimi ad essa anessi. Al massimo ci è capitato uno zio che ci ha inquadrate dal basso verso l’alto, un’amica che ha chirurgicamente scovato un rotolino sul fianco che non ti eri mai vista in vita tua, per non parlare delle foto in cui abbiamo gli occhi chiusi, le luci a sfavore o il trucco sbavato.

Allora, se la fotografia in fondo è un’arte, un modo di esprimere sentimenti, emozioni e il proprio modo di vedere il mondo, in un quadro di questo genere, abbastanza deprimente, credo che il selfie ci abbia salvati. Siamo finalmente riusciti ad eliminare il terzo incomodo tra noi e l’obiettivo.

Non dobbiamo pregar nessuno di fotografarci a raffica finché non viene la foto giusta. Dipende solo dalla nostra pazienza e testardaggine. Nessun imbarazzo per le foto in cui siamo orribili, tanto basta cancellarle subito e nessuno le guarderà mai. Possiamo scegliere luci, posa, luogo preferito senza dover spiegare nulla a nessuno. Possiamo osservarci nello schermo senza alcun tipo di condizionamento e imparare a piacere a noi stessi prima che a chiunque altro. A guardarci bene dopo un po’ riusciamo perfino a scovare i nostri stessi pensieri in una ruga di espressione, nel lato verso il quale incliniamo la testa e nell’angolo che assumono i nostri occhi che tuttavia continuano ad essere lo specchio della nostra anima.

E sapete, c’è qualcosa di molto intimo e personale in questo. Quella piccola finestra sul nostro mondo interiore, nel momento dello scatto, resta a nostra disposizione soltanto e non alla mercé di qualcuno che nemmeno ci conosce poi così bene.

Così mentre ci osserviamo ben bene prima di scattare la foto, possiamo perfino scegliere.

Scegliere di mostrare quella tristezza o trasformarla in allegria, di lanciare una corda ad un qualsiasi altro sentimento che può così risalire dai punti più nascosti e profondi di quell’abisso interiore, protetto da sguardi indiscreti e quindi libero di essere se stesso. Il selfie in qualche modo ci ha restituito la libertà di esprimerci e mostrarci al meglio di noi stessi -o al peggio, ma consapevolmente, forse- purché, ecco, non si trasformi sul serio in una sorta di culto della propria immagine fine a se stesso.

Che io credo che la vanità non sia un difetto, anzi. Quest’epoca è piena di spunti e sproni a rimettere noi stessi al centro della nostra vita. Tutti i vari qui e ora, l’attenzione a ciò che mangiamo, il fitness, i divorzi brevi. Possiamo davvero costruire la nostra vita praticamente su noi stessi e basta. E in un attimo la vanità diventa narcisismo.
Quindi, attenzione.

Short #3

 

Sarei voluta restare ad un battito di ciglia dai tuoi occhi, per osservarci il mondo ancora un altro po’.

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Occhi Da Sposa

C. si guardava intorno ansiosa. Bionda, ma era evidente fosse nata castana, indugiava con i suoi occhi scuri sugli abiti favolosi che la circondavano. La sua taglia le avrebbe permesso di provarli tutti certo, ma ormai aveva già scelto ed era lì per l’ultima prova prima di portare quell’abito via con sè per sempre. Già, per sempre sperava sarebbe durata anche la promessa che avrebbe indossato sulle labbra quel giorno raggiungendo l’altare e il suo uomo. Gli occhi si posarono su di lui. Impaziente, a braccia conserte aspettava che la fila si smaltisse il più in fretta possibile. Lo immaginò rilassato, sorridente mentre al fianco del testimone -lo sguardo le si illuminò- avrebbe aspettato che dall’altra parte della navata lei arrivasse a passo lento, con grazia, elegante. La sua attenzione si spostò sulla bambina che ormai aveva preso a saltellare per il negozio, indicando con il dito gli abiti che le piacevano di più, quelli da principessa s’intende. Per caso si fermò davanti ad un abito simile al suo. Unico vezzo, di lì in poi non se ne sarebbe dovuta aspettare altri, forse. C. si rabbuiò scacciando via quel pensiero insistente.

G. sul lavoro aveva sempre l’aria seria, concentrata. Puntava dritta da una signora all’altra, senza indugiare più del dovuto su nessuna. Shampoo, asciugatura, qualche volta una piega più ricercata. Si concedeva qualche chiacchiera con le clienti mentre lavorava. Diete, vestiti, shopping. Una volta per rompere un po’ il ghiaccio mi complimentai con lei per i suoi stivali. Prese a raccontarmi tranquillamente di come era riuscita a permetterseli, di quanto fossero più comodi di quelli comprati a pochi euro dai cinesi e del fatto che per stare molto tempo in piedi le erano davvero necessari. Quando si allontanò dai miei capelli notai il suo passo, un po’ più fiero e deciso. A parte momenti del genere io e lei di solito parlavamo davvero poco. Io stavo sulle mie, lei concentrata non distoglieva gli occhi dal suo lavoro. Gli argomenti con le altre clienti ad un certo punto presero ad aumentare. -E il ristorante? Ma la casa l’avete già arredata? Scommetto che tu si avrai dei capelli favolosi!-. Rispondeva, lavorava, tirava fuori dettagli da lanciare in pasto ai chiacchiericci al momento opportuno. Si accorse che la sua vita intera ormai andava avanti in funzione di quel solo unico giorno. Tutto ruotava intorno a quel momento. Tutto le ruotava davvero intorno mentre ascoltava il prete che spiegava come si sarebbe trasformata la sua vita di lì in poi. Attenta, non distoglieva lo sguardo da lui. Recepiva ogni indicazione, suggerimento: le sarebbero tornati utili. Doveva tener duro ancora per poco, concentrata, impassibile. Gli invitati si erano disposti intorno al portone della chiesa. Una rapida occhiata a tutti loro mentre con la mano saldamente stretta in quella di suo marito -il cuore mancò un battito a quella parola- si dirigeva verso loro. Furono secondi di applausi, flash, chicchi di riso e palloncini che volarono ovunque. La tensione svanì tutta di colpo, abbandonando G. che per un attimo si resse al braccio del suo sposo. Tutte le fatiche e lo stress erano valse per quel solo momento: fissò gli occhi dolcemente sorridenti nei suoi, felice, finalmente.

La commessa-capo del negozio venne di gran carriera verso di me, in una mano un blocchetto, nell’altra una penna, le estremità di un metro da sarta avvolto al collo svolazzavano insieme ai suoi capelli lunghi e ricci. Il portaspilli era ancorato come un prezioso stemma sul bavero della sua giacca. -Sei una sposa tu?- mi disse guardandomi attentamente. Inorridita scossi la testa balbettando qualcosa a proposito del mio esser lì ad accompagnare delle persone. Volevo aggiungere che nemmeno, al momento, era tra le mie priorità definirmi tale, ma mi sarei dilungata inutilmente. -Sicura?- coma avrei potuto non esserlo pensavo, mentre aggiunse -Hai … hai gli occhi da sposa, mi sembrava … Non so-. Rimasi interdetta. Volevo chiederle che occhi hanno le spose, così, per sapere perché aveva preso proprio me per una di loro. Erano tristi o delusi, in attesa o impazienti, rassegnati o decisi? Poi frettolosamente mi superò, spostando l’attenzione verso le altre clienti in attesa del loro turno.

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illustrazione di etsy.com

*… Immagini …*

Eri tu lì, dannazione. Eri proprio tu.

Le cose cambiano d’aspetto sotto una luce diversa. Anzi, senza, non le vedremmo proprio. La luce definisce i colori. E i confini, i contorni, le forme. E nemmeno si mostra per intero agli occhi. Si nasconde in lunghezze d’onda che loro non possono percepire. Quando le pare ci gioca e nei tuoi ci finisce a tradimento, all’improvviso e loro se la prendono, eh. Scende una lacrima. Che porta con sè un po’ della matita nera che sfidando il caldo era rimasta attaccata, fedele, alla pelle.

Maledetto raggio di sole. Quelli lì erano i tuoi capelli. Il tuo profilo. Il mento e la barba e la testa un po’ inclinata e le mani che gesticolando accompagnavano le parole. E quella perfino una camicia che dovevo averti visto addosso una di quelle volte che il cuore s’è perso un battito tra le aiuole ai lati della strada adiacente. Se ne è persi parecchi, in realtà. Un po’ perchè aveva imparato e guidava i passi per trovarsi lì, in quel punto e in quel preciso istante. Altre volte ci finiva davvero per caso. Con tutto ciò che per caso vuol pretendere di significare. La parola coincidenza deve averla inventata quel furbo lì. Tanto per levarsi dai casini. Se solo si sprecasse a dare una spiegazione logica, ogni tanto. Invece no, coincidenza è perfetto. Così lui non c’entra nulla. Tu ti ritrovi lì e non sai perchè. Non è colpa di nessuno, o di nessuno che rientri in quello spettro di luce visibile, almeno.
Colpa, poi. Suvvia, casomai merito. Perchè tante volte quel sorriso, in beffa alla luce, illuminava tutto in maniera più forte e più bella. Alla faccia dei fotoni. Se ne sarebbero pure potuti tornare a casa loro, qualche migliaio di chilometri lassù.

L’immagine che mi era apparsa davanti eri tu, seduto al’ombra del gazebo, in strada, parlando con qualcuno al tuo fianco. Di lì a pochissimi metri avrei cercato anch’io un posto all’ombra e chissà, uno sguardo. Dove gli occhi non arrivano ci pensa la testa a metterci una pezza. A completare l’immagine. Come se ci fosse una zona buia che deve sembrarti così inopportuna che in automatico, voilà, è lì che appare il pezzo mancante del puzzle.

Mezzo metro. Mi chiedo pure che ci fai lì, che nemmeno ti ci avevo mai visto in quella pizzeria. In effetti altre volte mi sono chiesta, mentre appena mi rendevo conto di esser sveglia e che un raggio di sole filtrato dalla persiana ancora abbassata tentava di convincermi che fosse già mattino, che ci facevi lì. Lì, quel luogo assolutamente libero di inventarsi idee di spazio e tempo o di sentirsi così stretto ed imbrigliato in esse da potersene fregare altamente, lasciando a te l’ingrato compito, appena aperti gli occhi, di collocarti di nuovo in un qui e un ora. Che ci facevi tra immagini senza senso, volti inventati e altri un po’ meno, nonostante fosse da tempo oramai che mancavi anche dai sogni ad occhi aperti.

Un istante. Giusto il tempo che quel raggio di sole rimbalzi via dai miei occhi. Giusto il tempo che, passando una mano tra i capelli mossi dal vento, mi accorgo che non ci sei più.

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*…”Come Se Leggesse Nei Tuoi Sentimenti”…*

Sarà la musica, che travolge con la delicatezza di tintinnii e corde pizzicate e la sua voce, che riesce a modulare in una serie di alti e bassi, a tratti così dolce da cullar la mente e poi rauca e decisa come per scuoterla non appena si adagia sulle sue parole mentre si svuota, anche, da ogni altro pensiero che con forza viene cacciato via perchè è lei, la canzone che ti invade, si espande nella tua testa nonostante tu stessi facendo tutt’altro. E ti ferma, lasci la penna sul foglio mentre stavi scrivendo o la borsa che tenevi sulle gambe, seduta in auto, zittisce chi ti sta intorno e magari anche te, che ti innervosisci perchè ti sembra scritta apposta e poi invece ti ipnotizza che nemmeno riesci a chiudere gli occhi, che ti trovi a fissare nel vuoto… Provi almeno ad immaginarlo, cavolo, chissà come potrebbe essere un uomo così, nel caso dovessi incontrarlo almeno lo riconosci, ma poi pensi anche che magari non è reale perchè lo stesso Finardi ha detto, forse con una punta d’amarezza, che “è un uomo che esiste soltanto quando una donna decide di vederlo tale”. Per cui non puoi far altro che ascoltare e lasciare che la canzone faccia un po’ come le pare…

* . . .Meet The Eyes. . .*

“Le anime hanno un loro particolare modo d’intendersi, d’entrare in intimità fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali.”
[L.Pirandello – Il Fu Mattia Pascal]

[Immagine tratta dallo straordinario cortometraggio Disney-Pixar “Paperman”.]

*…Quando Si Dice Che Il Viaggio è Più Importante Della Destinazione…*

Ovviamente bisognava omettere qualcosa. Quando si ha un’unica possibilità, poche righe a disposizione e un’occasione più unica che rara di cui approfittare… beh, c’è da mettersi davvero d’impegno. Di certo non si poteva far riferimento a cose specifiche. Cose che in quelle righe non potevano aver posto, ma che l’avranno sempre nella mia testa, nel mio cuore e che gridano e pretendono da me di essere capite e apprezzate fino in fondo, davvero davvero in maniera completa, come nessuno mai potrebbe, come è giusto che sia. Non si sarebbe mai potuto far riferimento a tutte le volte che i sorrisi scaturiti da incontri casuali sono rimasti sul mio viso, non senza incertezze nei passi, nelle parole e spesso anche nei pensieri, tutte le volte che quei bricioli di euforia sono stati fondamentali per portare euforia anche in tutto il resto della giornata, o a tutte le volte in cui lunghi sguardi son finiti ben dietro gli occhi o altre volte in cui la testa finiva per vagare per altre vie, mentre i miei passi seguivano, per fortuiti casi, quella che percorreva precedendomi. Le innumerevoli volte che mi son svegliata, al mattino, con la sua immagine nella testa, perchè da qualche altra parte ci si era incontrati, in circostanze assurde, improbabili, ma che, sempre sorridendo, ricordavo di tanto in tanto durante la mia giornata piacevolmente, tanto da credere fermamente che in fondo tra sogno e realtà non c’è alcuna differenza, se in fondo ci sono sempre io, sia dall’una che dall’altra parte, io con i miei pensieri e i miei sentimenti e le mie sensazioni, come un continuo, un tutt’uno inseparabile. Ma come ci si potrebbe, in fondo, separare da queste cose senza togliere significato a tutto ciò che di materiale ci circonda o a tutte le persone che abbiamo scelto di avere intorno, nella nostra vita? Lui c’era. E per qualche motivo ben valido, pure. Che poi non fosse esattamente lui ma ciò che di fisico è possibile percepire con gli occhi, insieme a qualche sensazione su ciò che potrebbe essere al di là di quelle percezioni, aggiungendo qualche traccia di personalità presumibile dalle poche parole sentite… è effettivamente limitativa come cosa. Ma era abbastanza. Almeno per quelle minime intersezioni dei miei passi con i suoi. Perchè niente di più era possibile ottenere, perchè c’era da aspettare una bella, grande occasione, che tra le altre cose mi avrebbe permesso di rendere quelle intersezioni, beh, “meno minime” almeno di un po’. Alla fine però tutte le mie scelte, ogni decisione, ogni tassello che ero più che certa stava a costruire ciò che avevo sempre pensato, a lungo termine hanno costruito tutt’altro scenario. Avevo già scelto, inconsapevolmente, di andare altrove da ciò che avevo immaginato. Almeno a saperlo prima! Sarei arrivata più preparata a quel momento. Ma come si fa ad arrivare preparati ad un qualcosa che nemmeno si ha idea di cosa sia? Perchè non si è consapevoli, fin da subito, di tutte le coseguenze delle nostre scelte? Perchè si vive nel frattempo all’oscuro di ciò che “ci siamo riservati” per il futuro? Credo che il segreto sia in ciò che possiamo imparare, durante quel tempo, dagli ostacoli che scegliamo per noi stessi, come se fosse un gioco in cui riesci ad evolverti, a maturare, non prima di aver sconfitto il nemico di turno, o superato il muro di cinta alto abbastanza  da farti imparare, che la prossima volta, non avrai bisogno di nessun muro e di nessun nemico e di nessun intoppo e nessuna occasione speciale per fare ciò che vuoi davvero fare. Già perchè crollato il muro, resti tu, da sola, davanti al tuo obiettivo. Allora lì inizi con tutta un’altra serie di domande. E’ davvero ciò che voglio? Non è che ne rimarrei delusa, infastidita, o mi incastro in qualche situazione spiacevole per cui in fondo quel muro era pur sempre una sorta di protezione? -Aspetta un momento- pensi. -Cos’è che ho scritto prima? “Ciò che vuoi davvero fare”. E credo, che non ci sia nient’altro che conta, una volta cancellate una ad una tutte le suggestioni negative-. E qui si torna a quella possibilità, che forse era, ancora una volta, una maniera per dimostrare a me stessa ciò che dall’inizio si era prospettato. O che forse non lo sarà, chissà. Di nuovo, non so nello specifico chi o cosa ho riservato per me nel futuro. Ma questo basta a rinnegare tutto? A dire che è stata tutta un’enorme perdita di tempo, una stupidaggine? NO. Nonostante l’estenuante sensazione di attesa, nonostante fosse soltato un’idea a piacermi, beh, mi piaceva. Mi piaceva. E soltanto per questo, ne è valsa la pena. Una cosa bella, che di più belle non ne esistevano, per quel poco che fosse, per quello che rappresenta per me. In poche righe si possono mandare dei segnali impliciti a qualcuno, e segnali molto più espliciti a se stessi. E per ciò che riguarda me, sono contenta, almeno di esser riuscita ad essere me stessa e di aver imparato tanto.

E sono già contenta, adesso, per tutto ciò che di bello, ancora, deve venire.

* . . . Ma C’è Un’Unica Ragione . . . *

Delle volte gli occhi vorrebbero continuare a parlarsi, quando le bocche non hanno più niente da dirsi…

Rubano qualche secondo in più, qualche attimo ancora, prima di distogliersi, e sono sinceri limpidi e trasparenti, immediati, più del pensiero che cerca di cogliere l’infinità di quell’attimo, cerca di capire trovando mille ragioni. Gli occhi, invece, quando si incrociano catalizzando tutta l’attenzione, si capiscono perfettamente.

§ . . . Chiudi e riapri gli occhi, e dimmi davvero cosa Vedi . . .§

Ero arrabbiata. Con tutti o con nessuno, per una sciocchezza o per un problema grosso. Non capivo, sapevo solo che ad intervalli regolari compariva qualcosa nella mia giornata che mi faceva andare in bestia. Tra cui un caffè alla nocciola venuto schifosamente male. Allora esaminavo tutto ciò che era accaduto e cercavo il motivo per cui quella cosa mi aveva innervosito. Lo trovavo, ma non appena ne parlavo con qualcuno, poi, bah, non era così importante alla fine, era una questione di punti di vista, di modi di vedere la vita e le cose che per ogni persona sono più importanti in essa. -Bene- pensavo -ho risolto, in fondo chi se ne frega, io non avrei agito così, non me l’aspettavo, forse avrei fatto lo stesso o forse no, ma forse ci sono anche altre cose che non ho considerato e probabilmente proprio queste cose rendono così giusto per una persona alcuni modi di fare. In fondo ognuno deve agire secondo il proprio più alto senso di ciò che è giusto, quindi va bene per lei, non vedo perchè dovrebbe turbarmi.- Intanto però, ero ancora arrabbiata.

Ad un certo punto, quando man mano riesci a liberarti di tutti questi ‘apparenti motivi’, uno dopo l’altro, o uno  insieme all’altro, insomma, pian piano scorgi qualcosa, in mezzo a tutta quella confusione, si perchè è proprio quello che sembra, una gran confusione, un mattone dopo l’altro, riconosci quel muro, e centimetro dopo centimetro, la tua gabbia. E’ lì dentro che continui a sbattere la testa, senza accorgertene, ma la prima domanda che ti fai è: ‘Da dove diavolo è spuntata fuori? Non è possibile, l’altroieri qui c’era un giardino, meraviglioso, pieno di fiori ovunque, il sole accarezzava i petali con delle splendide promesse di vita e felicità, l’aria era trasparente…’ e avresti scommesso tutto quello che avevi che quel giardino fosse la cosa più vera bella e certa che potesse esistere intorno a te.

E poi spunta fuori una parola, “aspettare”……  Ti ronza nella testa, quella piccola bastarda, si nascondeva tra i fiori pur di non farsi vedere, al suo solo pensiero, cavolo, andavo in bestia. Il giardino è lì certo, ma c’è da aspettare, ti sei sempre detta che era lì meraviglioso, ma nel frattempo però stavi anche costruendo una muratura in mattoni che ti costringeva a guardarlo, da lontano, senza poterci entrare. -Ma tu guarda che idiozia!- pensi, ad un tratto, la rabbia pian piano svanisce, -Tu piccolo giardino sei lì dentro felice, perfetto, allegro, mantieni un perfetto equilibrio, non solo con quel che già hai ma addirittura ti ingrandisci, porti dentro di te novità (novità niente male direi, a giudicare dagli occhi, dal modo di parlare, vabè non divaghiamo…), ti vanti della tua perfezione e poi mi lasci qui fuori a guardarti? E a cosa servi scusa? E poi chi l’ha deciso che devo aspettare? Forse il momento in cui questa parola è uscita fuori è stato lo stesso in cui mi sono resa conto che per altri non ha per niente senso. Non che io renda vero per me ciò che lo è per gli altri, però in fondo, delle cose ti lasciano un po’ senza parole e resti a riflettere. Cominci a pensare se ha senso per te. E in tutta sincerità no, non ce l’ha. Non serve a niente avere una cosa bella lì e restarne fuori, seppur felice del fatto che esista e sia vera. Eri felice, ma non stavi vivendo la felicità. Sono due cose diverse. Sei felice perchè esiste il giardino, ma non perchè fa parte già della tua vita, non perchè ti rende felice adesso, o perchè ti mette in condizioni di esser pronta, al momento giusto di godere delle cose che conserva. Non è detto che accadrà domani, o dopodomani, ma non è vero nemmeno che per chissà quale imposizione ci sia per forza da aspettare! La rabbia è un sentimento fastidiosissimo, però ho imparato che si può sfruttarlo a proprio vantaggio. Serve a scovare i nostri limiti, le limitazioni che per chissà quale ragione abbiamo scelto per noi stessi, magari nemmeno consciamente, che però sono lì e ci impediscono di essere felici. Non voglio dimenticare questa lezione, perchè non si trattava altro che di una trappola, ben nascosta, ma subdola e feroce, che non oso immaginare dove avrebbe portato. Poi magari con parole più semplici, direi che in fondo ho riscoperto la gioia del carpe diem. Wow ma che genio! Che grandiosa scoperta! Mi sono chiesta cos’era che stessi spacciando per carpe diem, piuttosto di usare quello originale! Mi domandavo -E il tuo ottimismo, il tuo bicchiere mezzo pieno, le tue suggestioni positive che fine hanno fatto? Non ti vantavi del fatto che ci stavi riuscendo a far di loro la tua vita?-. Certo che si, però diciamo che riguardo  certe cose il bicchiere mezzo pieno poi lo svuotavo in una fontana, bella e imponente nel bel mezzo del giardino! Voglio essere felice perchè i suoi occhi sono belli, e non arrabbiata perchè non so quando riuscirò a rivederli, anche se so che la strada è quella giusta.