CronacheDalCondominio #3: La Tifoseria Che Non T’Aspetti

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Ad Euro2016 alla fine le abbiamo prese dalla Germania, che a sua volta le ha prese dalla Francia, cosa che qualcuno considera una magrissima consolazione, e vabbé.

Non sono un’appassionata di calcio e mi limito a seguire la squadra della mia città e l’Italia nelle competizioni internazionali. In fondo come non si può non amare l’atmosfera dei grandi eventi, quella che avvolge i soliti impegni quotidiani e fa tirare la lancetta dei minuti indietro per uscire prima dagli uffici o chiudere i libri della sessione di esami estiva e correre ad accendere la tv, armati di pop corn e bibite fresche? Coinvolge tutti, perfino i più insospettabili e una alla volta spuntano sui balconi delle case bandiere e striscioni ed è bello vedere le persone partecipare a qualcosa, oggi che ci si vergogna pure di condividere una corsa in ascensore con dei perfetti sconosciuti.

Dove abitavo prima, in paese, la febbre da Europei o da Mondiali colpiva un po’ tutti, si, ma per le bandiere funzionava un po’ come per i babbinatale e gli addobbi appesi alle ringhiere durante le festività natalizie che sparivano già nel primo pomeriggio del sei gennaio. Così, a caldo. Mentre i bambini avevano ancora le teste infilate nelle calze dell’Epifania alla ricerca dell’ultimo cioccolatino incastrato nelle cuciture e i più grandi come me non avevano ancora iniziato a bestemmiare per l’inizio delle lezioni e della routine universitaria. Allo stesso modo, al primo segno di debolezza della nazionale italiana, venivano tirate dentro le bandiere tricolore. Nemmeno il tempo delle interviste stupide nel dopo partita, durante le quali cerchi di capire se c’è da prendersela più con gli avversari o con l’allenatore dell’Italia.

Qui nel condominio, invece, ho assistito a ben altro. Fin dall’inizio di Euro2016 avevo già notato i vari balconi decorati per l’occasione, altri soltanto dalla seconda partita in poi, ma giusto così, per scaramanzia. Ho sentito trombette festeggiare i goal segnati -qualcuno sembrava avesse noleggiato direttamente un elefante- e odore di pizza all’ingresso del palazzo alle 19:30, decisamente in anticipo per l’orario di cena da queste parti e non poteva non esser dovuto a qualche tifoso particolarmente bisognoso di avere mani libere per esultare e imprecare un’oretta e mezza più tardi. In più sabato mattina, al ritorno da alcune commissioni, ho visto che sul tetto del palazzo svettava una bandiera così grande che più che un condominio all’improvviso sembravamo l’ambasciata italiana di qualche paese sperduto nel deserto del Sahara. La cosa mi ha fatta ridere, ma resa anche un po’ orgogliosa. Su tutto, però, aleggiava lo spettro della sconfitta. Così come la speranza e la gioia, anche l’ansia finisce per essere condivisa, specie se si finisce per giocarsi tutto ai rigori, come quelli che abbiamo visto.

Domenica mattina la sensazione di esser fuori era palese e scottava ormai come il sole. Eppure, nonostante questo, il panorama nel quartiere non era cambiato di una virgola. Le bandiere erano ancora lì. Erano sopravvissute allo scoramento e alla delusione. Sono rimasta a bocca aperta. Non me l’aspettavo. Nemmeno una era stata riportata sull’armadio in attesa del prossimo campionato.

Stavano ancora tutti dormendo, penserete voi. Invece no. A distanza di una settimana quasi, giocano ancora con il vento, indisturbate. So che qualsiasi considerazione sarebbe retorica, ma io qualche domanda me la farei. Tipo, chissà se qualcuno ha sentito di tenerla lì ancora un po’ per i fatti di Dacca o per quelli di Brexit. Magari per la consapevolezza che nemmeno lecinquestelle in fondo ci rappresentano davvero, visto che qualche altra competizione, ad esempio a Roma, è stata vinta per mancanza di avversari e non perché qualcuno si è battuto veramente, sudando, per conquistare il gradino più alto del podio. Forse si è solo riconosciuto che i nostri giocatori ci hanno provato davvero e che abbiamo perso con onore e quindi le bandiere stanno lì a dimostrare ancora un po’ di orgoglio che lo sport, in qualche caso, ci fa provare ancora. Tutte sensazioni inconfessabili, a parole, ma per fortuna i gesti contano ancora molto di più.

Di Canzoni, Incubi E Riflessioni Da Ora Tarda

Credi che sia così coi nostri sogni e i nostri incubi, Martin?
Dobbiamo continuare ad alimentarli perché restino in vita?

[John Nash – A Beautiful Mind]

 

Da piccola avevo paura di una canzone. Strano, assurdo, ridicolo, si, ma vero. Avevo otto anni circa e più o meno a metà della seconda o terza traccia del cd, un cantautore italiano, niente di strano, scoppiai a piangere. Ne avevo una paura irrazionale, inspiegabile. Smuoveva qualcosa in me che mi faceva profondamente orrore. Non avevo associato alcun brutto ricordo o sensazione, niente di niente, non ricordavo nemmeno più le parole, solo la musica, e la trovavo terrificante. La cosa ancor peggiore, poi, è stata che per anni non ho avuto la minima intenzione di affrontare la cosa. Stava lì, semplicemente. Era diventata una paura da compagnia. Come se un bambino si affezionasse al mostro chiuso nell’armadio di fronte al proprio letto, a patto che se ne stia lì buono senza fiatare e soprattutto non se ne vada via lasciando al proprio posto un vuoto ancora più estraneo.

Un bel giorno può accadere che qualcuno o qualcosa sfondi la porta dietro la quale abbiamo nascosto ogni nostra fragilità e fermi davanti ad essa le vediamo vorticare, come foglie che danzano con l’autunno, ma cadute chissà quanto tempo prima. Increduli di fronte all’evidenza che forti non siamo vorremmo soltanto che quel qualcuno o qualcosa tornasse immediatamente indietro ad aiutarci a fissare qualche asse di legno perché se la loro assenza fa male sembra sia ancora più dolorosa l’idea di farcela ugualmente da soli, come se bastarsi avesse un po’ il sapore di una condanna. Per tanto tempo mi sono chiesta se questo fosse un desiderio ovvio o solo un’idea irrazionale, una di quelle a cui soltanto la testa che l’ha generata da’ credito e pure più del dovuto. Ho visto porte sfondate in cuori che credevo più tosti del mio, trasformati in buchi neri che attiravano ogni negatività, soffrendo tanto, troppo, di parole e comportamenti che pensavano e pensano ancora di non meritare affatto.

Per quanto effettivamente sia un desiderio ovvio quello di voler avere accanto qualcuno che ci passi chiodi e martello per far quello che da soli ci siamo stufati di fare, è anche vero che la maggior parte delle idee irrazionali son tutte figlie di una sola dannatissima cosa. Non accettarsi. Non accettare di essere più complessi, più sensibili, di avere delle debolezze che si sono aggiunte in corsa e che non avevamo portato con noi fin dall’inizio del viaggio. Non avevo mai detto a me stessa prima io sono anche questo. Io sono anche ciò che ho paura di affrontare. Pensavo che il lasciar vivere quieto il mostro nell’armadio avrebbe preservato ciò che sono e mi piace essere. Invece, al contrario, chi mi vuole bene (o spero) mi stava facendo notare che proprio così stavo diventando tutt’altro.

La storia della canzone è finita un pomeriggio di qualche anno fa sgombro di pensieri superflui con me armata di cuffiette e si, diciamo, un po’ di coraggio. Qualche secondo dopo aver premuto play scoprii che alla rassegnazione si stava sostituendo la curiosità. La rimandai almeno altre tre o quattro volte. Capii cosa mi spaventava. Mi ci misurai come un pugile fa con l’avversario che teme di più. Adesso, ecco, non è diventata esattamente parte di qualche mia playlist. Io però avevo vinto una sfida e sentii di apprezzarmi.

E d’accordo si, che non si sappia troppo in giro, apprezzai un pochino, ma proprio un po’, anche lei.

*… CronacaDiUnBroncio …*

E d’accordo, immagino che non sia poi così tremendo. Dopo aver scoperto che l’influenza s’è portata via otto giorni che potevano esser sicuramente spesi meglio, due chili e un altro tono di colore dal viso, che in realtà il professore non aveva intenzione di tenermi in ostaggio al dipartimento ma semplicemente aveva già pranzato, lui, mentre io fino alle quattro non ho desiderato altro che divorare lui, le tavole del progetto, matite e scrivanie e che no, non mi stava prendendo in giro quando finalmente pensavo di poter andare via chiedendomi di calcolare l’area di terra da scavare per realizzare la strada in trincea soltanto per farmi notare che mi ero dimenticata di segnare un paio di misure sulla carta millimetrata. Dopo aver capito che con un po’ di impegno non è poi così vano sperare di riuscire a tornare a casa nonostante la sera prima avessi appreso dal tg che su 130 soltanto 20 sono i treni ancora in grado di portartici, tenuto conto che con te ogni giorno ci sperano altri 99.999 pendolari nell’arco di un’intera giornata.
Non è poi così tremendo scoprire, una volta arrivata a casa, che la canzone che avevo beccato alla radio, al mattino e continuato a canticchiare fino a sera, fosse poi dei Tiromancino. Che adesso pubblico un po’ in barba al titolo del mio blog, perchè ho un conto in sospeso con quel gruppo da quando anni fa imparai a memoria senza volerlo il ritornello di Per me è importante che non mi piaceva e non mi piacevano nemmeno loro. Un po’ come accade con la Pausini, di cui impari a memoria i testi senza mai averla ascoltata intenzionalmente. Per me è un complotto.
Nemmeno il video è male però.

*… And Put Up Your Head …*

 

“Ma finalmente capiva quello che Silente aveva cercato di dirgli. Era, si disse, la differenza fra l’essere trascinato nell’arena ad affrontare una battaglia mortale e scendere nell’arena a testa alta. Forse qualcuno avrebbe detto che non era una gran scelta, ma Silente sapeva – e lo so anch’io – pensò Harry con uno slancio di feroce orgoglio – e lo sapevano anche i miei genitori – che c’era tutta la differenza del mondo.”

[J.K.Rowling – Harry Potter e il Principe Mezzosangue]

*… Ti E’ Mai Successo? …*

Ti è mai successo di sentirti al centro
Al centro di ogni cosa al centro di quest’universo
E mentre il mondo gira lascialo girare
Che tanto pensi di esser l’unico a poterlo fare

Sei così al centro che se vuoi lo puoi anche fermare
Cambiarne il senso della direzione per tornare
Nei luoghi e il tempo in cui hai perso ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so volare

Ti è mai successo di sentirti altrove
I piedi fermi a terra e l’anima leggera andare
Andare via lontano e oltre dove immaginare
Non ha più limiti hai un nuovo mondo da inventare

Sei così altrove che non riesci neanche più a tornare
Ma non ti importa perché è troppo bello da restare
Nei luoghi e il tempo in cui hai trovato ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so viaggiare

Oltre questa stupida rabbia per niente
Oltre l’odio che sputa la gente
Sulla vita che è meno importante
Di tutto l’orgoglio che non serve a niente

Oltre i muri e i confini del mondo
Verso un cielo più alto e profondo
Delle cose che ognuno rincorre
E non se ne accorge che non sono niente
Che non sono niente

Ti è mai successo di guardare il mare
Fissare un punto all’orizzonte e dire:
”È questo il modo in cui vorrei scappare
andando avanti sempre avanti senza mai arrivare”

In fondo in fondo è questo il senso del nostro vagare
Felicità è qualcosa da cercare senza mai trovare
Gettarsi in acqua e non temere di annegare
A me è successo e ora so volare

Ti è mai successo di voler tornare
A tutto quello che credevi fosse da fuggire
E non sapere proprio come fare
Ci fosse almeno un modo, uno, per ricominciare

Pensare in fondo che non era così male
Che amore è se non hai niente più da odiare
Restare in bilico è meglio che cadere
A me è successo, amore, e ora so restare.

[Ti è mai successo – Negramaro]

* …”Do You Understand?” cit. …*

“Aaaaaaaamamiiii come la terra, la pioggia, l’estateeeee
  aaaaamamiii come se fossi la luce di un faro nel mareeeee…”

ARGH! Per un momento ho seriamente pensato mi si fosse materializzata Emma dietro le spalle.

E invece no, era il figlio tamarro del vicino di casa che arrivava a tutta velocità con il volume della radio altissimo. Il che nella perfetta quiete che regna dove abito stona in una maniera pazzesca. Poche case da un lato della strada, sconfinate terre di noccioli dall’altro. Tutto ciò che si sente, a parte qualche macchina, ma solo quelle di chi abita qui, sono solo i cinguettii degli uccelli. E’ una vita che mi chiedo cosa hanno mai da dirsi tutto il giorno. Qualche volta che un merlo si posa abbastanza vicino al balcone di casa, provo a fischiare alla sua maniera. Il bello è che dopo tre secondi di silenzio, risponde pure, ma pur non capendo nulla, non confido su significati diversi dal questa-le-manca-qualche-rotella oppure, nel caso sia del posto, la versione in cinguettii del nel dubbio, a tua sorella. Come dargli torto, d’altronde. Se capita con i gatti, beh, quelli non te la fanno buona. Meaoooow, provi. E loro mettono su la faccia più schifata che hanno degnandoti giusto qualche istante d’attenzione.
Bisogna pur soddisfare qualche inclinazione idiota ogni tanto.

Prima che Emma mi urlasse in un orecchio, riflettevo, oltre che su tutte le maniere in cui una trave reagisce ad un cedimento, sulle parole del mio prof. Una volta a lezione mise su un’aria solenne e disse -Ragazzi, voi dovete avere pazienza. La Scienza delle Costruzioni è come… una bella donna. Ha bisogno di attenzioni. All’inizio pare scontrosa, altezzosa, inarrivabile, ma se vi ci mettete con pazienza e provate e riprovate giorno dopo giorno, vedrete che vi darà soddisfazioni. Inizierete a capirla bene e lei vi svelerà i suoi più profondi segreti. Ha bisogno di essere capita. E potrebbe nascere anche un bel rapporto, dopo.-

Ridemmo. Vabè, grazie prof, questa fa colpo sui maschi, che poi costituiscono la maggior parte della platea. Sulle donne un po’ meno, anzi. Messa su questo piano, l’approccio potrebbe addirittura diventare violento. Diedi poco peso a quelle parole e mi concentrai sull’affrontare in maniera più concreta lo studio. Essì, ora mi metto a fare pure la psicologa. Non basta già il rimediare ogni giorno alle tremile lacune lasciate dal corso.
Nonostante il moto di ribellione, però, alla fine ho dovuto riconoscere che non aveva torto. Certe parole ti restano nella testa e ronzano di continuo finchè non trovano uno spazietto dove posarsi. Mi son dovuta arrendere all’evidenza che lui, nonostante avrei preferito un’indicazione in più su come risolvere un esercizio e una in meno in merito a vizi e virtù della sua bella, aveva ragione. E’ una di quelle materie che non sai da che lato prendere all’inizio. Soprattutto se hai già deciso che non farai mai lo strutturista, ma son cose che devono far parte del bagaglio culturale di un ingegnere comunque. Poi è assurdo, te capisci una cosa e lei te ne rende un’altra, finchè insieme non arrivate a capo della questione. Finisce per piacerti, anche se non lo ammetteresti con anima viva.

Si da’ il caso che io sono più istintiva di ciò che sembro. Se una cosa non mi piace, non mi piace e basta. Non lo so nemmeno spiegare. Remo contro e finisco spesso per fare a capocciate con chi viene nell’altro senso, ma è più forte di me, se ho intravisto una strada che sento affine devo raggiungerla, pure se è disastrata o inadeguata. E’ mia, e ne ricaverò qualcosa di buono, di sicuro, nel percorrerla. Il “di sicuro” fa parte dell’istinto. Magari ci fosse qualcuno che dispensi certezze, di tanto in tanto. Macchè. Figurarsi che me l’ha letto in fronte anche la commessa delle gioielleria, ieri pomeriggio. In cerca di un regalo, insieme a mia madre, all’improvviso le fa dei complimenti per i suoi orecchini. -Me li ha regalati lei- dice, riferendosi a me. -Eeh, si vede che a te non piacciono le cose che piacciono a tutti!-. Grandioso, penso, pure questa adesso. Le avrei risposto si, e per punizione le cose che piacciono a me non piacciono mai a nessuno. Ma le ho sorriso e basta.

Capita, poi, come dicevo prima, che qualcosa mi fa cambiare idea. Tante storie per poi convincermi che, dopotutto, l’altro punto di vista non è poi così sbagliato. Basta lasciarsi andare, un po’, giusto il tempo di dare una sbirciatina dall’altro lato. Come quando cerchi la prospettiva migliore per scattare una foto. E se ne può trovare una che sia anche leggermente migliore.
Forse questo significa imparare. Allargare gli orizzonti e non fossilizzarsi su quel minimo raggio che possono coprire gli occhi ruotando lo sguardo, tenendo la testa ferma. Se giri la testa vedi più cose. Devi farlo però, e ciò che vedrai potrebbe sorprenderti.

In fondo ciò su cui insistono tanto i prof è, oltre alle nozioni, il dare una prospettiva. A loro interessa, e ne ho avuto la prova più di una volta, che si esca dall’università come persone che hanno spessore, che sanno cavarsela. Che sanno guardarsi intorno e costruire qualcosa di buono. Tra un anno magari dimenticherò come si fa un diagramma del momento, ma che l’apparenza è poca cosa rispetto a ciò che può celarsi dietro di essa penso proprio di no. E saper affrontare così tante altre questioni, non solo la Scienza.

Tutto ciò mi sembra così importante adesso, quasi alla fine. Avessi qualche rotella a posto, come auspicherebbe il merlo, tutte queste storie non le farei. Invece se mi trovo davanti ad un muro, bello alto, che sia un prof sibillino o una difficoltà qualsiasi devo riuscire a guardare oltre, mettercela tutta per mettere almeno il naso oltre quell’ammasso di cemento. Che non m’aiuta nemmeno l’altezza. Non mi do’ pace, però, finchè non riesco a capire, per sentirmi a mio agio e un po’ più sicura. Poche cose odio come il sentirmi inadeguata, soprattutto se poi non è nemmeno vero.
Chissà se ciò significa che son riuscita pure a ritrovarmi. Se ho trovato la mia sintesi. Però questo riguarda Hegel e le mie pippe mentali.

Non è poi così tanto tanto male la canzone di Emma.

 

* … E Questa Sera Si E’ Alzato Il Vento …*

Il cuore batte forte, chissà che gli è preso stasera, ecco, all’improvviso, chissà che motivo ha di agitarsi tanto, proprio ora, così, senza che sia successo nulla di particolare. Volevo scrivere, si, ma avevo in mente tutt’altro. E invece quel battito fuori dall’ordinario suggerisce tutt’altre parole, magari a sapere il perchè, a sapere dove vuole andare a parare. Una strana agitazione, una specie d’ansia che, butti uno sguardo in giro, soltanto tu percepisci. E grazie, come potrebbe essere altrimenti, per fortuna. Prima di iniziare ho pure cliccato sul corsivo, anche se di solito scrivo dritto e uso il corsivo per altre cose. In questo momento ho anch’io la testa inclinata a destra e forse è per questo che ho inclinato pure le parole, così sembra che siano dritte lo stesso.

In fondo hai imparato che all’occorrenza il sistema di riferimento può essere cambiato, se ti serve per dimostrare una tesi o semplificare delle ipotesi, però lo dici prima, che vale solo in quel sistema di riferimento. Non ti illudi, non hai trovato una soluzione che va bene per qualsiasi caso, ma ti insegnano anche che è una giusta approssimazione del caso reale, che presenta così tante variabili che a tenerle tutte in conto si perde la testa, tanto poi l’influenza di quelle che non prendi in considerazione non è poi così significativa, e anche quel “significativa” lo stai a stabilire tu, in base al rischio che pensi di accettare. Per esempio una casa la tiri su sapendo di accettare una probabilità di “failure” pari ad un certo valore stabilito dalla legge. Quindi con la possibilità, remota, estremamente remota, che possa cascare giù o che non serva più per ciò per cui è stata progettata. Perde di funzionalità. I materiali non sono perfetti.

Perfezione… Lanci uno sguardo alla tv, si stanno ammazzando a trovare una spiegazione del perchè si ricorre alla chirurgia estetica. Pare siano tutti d’accordo che sia necessaria per problemi gravi, amen. Poi s’azzuffano ad analizzare tutti gli altri motivi. Uno di quei programmi in cui vanno sprecate tante parole soltanto per fare spettacolo e mostrare qualche seno nudo complice l’ora tarda. Basterebbe che si alzasse qualcuno a dire “E’ tutta una questione di gusti, di come ci si vuole vedere, dell’idea che ci si è fatti di sè, del proprio punto di vista, il proprio riferimento”. Che poi anche lì c’è il rischio, come per la casa, vabbè. Potrebbero anche alzarsi tutti da quelle poltroncine e andare a fare qualcosa di più utile. Stanno a dire che la bellezza vera dovrebbe essere quella naturale, senza troppe pretese, ogni donna ha la propria e hanno la capacità allo stesso tempo di celebrare gli stereotipi. Su quelli si che si va sempre sul sicuro. Come per il film che hanno mandato in onda prima, uno di quelli che ti sei sempre rifiutata di vedere, nemmeno fosse un horror, soltanto perchè ti stanno sulle scatole tutti quei luoghi comuni che sono nati sugli esami di maturità. Canzoni, film, libri. Odio quando qualcuno si mette sul piedistallo con la pretesa di aver capito cos’è che si prova in determinate situazioni e giù a scrivere sceneggiature tali che più cazzate fanno fare ai protagonisti, più soldi fanno ai botteghini. Come se tutti i ragazzi d’Italia avessero provato le stesse cose la notte prima dell’inizio degli esami. Tu non ti ci ritrovi e t’arrabbi. Però resti a guardarlo, perchè c’è Panariello che ti fa sempre ridere.

E’ sempre una questione di riferimenti allora. Guardi le cose da un altro punto di vista e cambiano. In realtà le cose cambiano proprio nell’atto di osservarle, ma questo lo sa bene quel povero gatto nella scatola. Non si sa se è vivo o morto finchè qualcuno non si da’ pena per andare a vedere che fine ha fatto. Chissà se qualcuno mai si è chiesto cosa pensa il gatto. E si, ogni tanto ti fai anche delle domande un po’ assurde. Lui non può vedere cosa succede là fuori. Credo che sappia almeno che qualcuno c’è e sa che lui sta lì. Soltanto questo sa. L’ha capito. I gatti sono furbi. Qualsiasi cosa stiano facendo, lui è lì tranquillo che pensa ai fatti suoi. Tutt’al più si chiede perchè proprio un micio. Potevano metterci pure un pappagallo, che ne so. Quella strana smorfia sotto ai baffi, però, forse è un sorriso. Non lo ammetterebbe mai, no, ma sotto sotto gli fa piacere, anche se è tutto un gioco, una creazione della mente, che stabilisce un limite e poi ci torna, ogni tanto, a spostarlo un po’ più in là. Sposti i confini, cambi i riferimenti, tutto per trovare sempre un nuovo equilibrio, mentre nel frattempo lì ci sei sempre tu.

“Tutto cambia, per non cambiare nulla.”

piena soddisfazione

E’ da più di un anno che hai questa frase tra le bozze. E’ del prof. Eppes della serie tv Numb3rs. E’ spuntata fuori proprio adesso. Qualche volta ti capita di conservare un pezzo di un puzzle e che tutto il resto dell’immagine ti si materializzi quando meno te l’aspetti. Una sera che il cuore ti batte forte. Una sera che troppe emozioni vengono tutte insieme a trovarti. Lo spazio non è piccolo, ma loro sono davvero tante. Sei troppo stanca per dare un nome a tutte però. Nella confusione se ne è intrufolata qualcuna non gradita, quelle che di solito lasci fuori alla porta perchè non ti piace immaginarti insieme a loro. Ciò che non ti piace lo chiudi fuori, di solito. Ti rendi conto che qualche anno fa eri molto più fiscale, adesso invece, un po’ più malleabile. Uno spiraglio lo lasci aperto perchè da un lato la curiosità in te è sempre più forte di ogni altra cosa (cavolo, la curiosità uccise il gatto… di nuovo lui, povero, ma mi chiedo se quella del gatto o dei tizi fuori) e dall’altro ti piace pensare che sai gestire questioni che prima depennavi, stracciavi, mandavi fuori dai piedi all’istante. Stai pensando a come sono nati questi cambiamenti, qualche volta tra una lacrima e una voglia matta di abbracciare qualcuno. Peccato che non c’era “qualcuno” che lo sapesse. Se tu non lo dici a “qualcuno”, come fa poi a saperlo, eh. Magari con la testa un po’ inclinata. Cambia il riferimento, e tutto viene da sè. Come le parole in corsivo, vengono fuori da sole, vedi? Che da dritte nemmeno sotto tortura lo farebbero.

Apri l’ultima scheda del browser, per questa sera. Tutta questa storia ti ha ricordato di qualche nozione di grafologia di cui hai sentito parlare da qualche parte. E trovi questo:

“La scrittura dritta o leggermente inclinata mantiene il centro di gravità dentro se stessa, vale a dire l’individuo pone le basi del suo rapporto con il mondo all’interno dell’Io, vive la sua realtà interiore individuale come origine della sua costruzione della realtà e a partire da questa si relaziona con il mondo esteriore.
Quando aumenta progressivamente la spinta a destra, il centro di gravità si sposta dall’interno all’esterno: ora l’individuo non riesce più a percepirsi in modo autonomo e sufficiente a se stesso, ma necessita di un rapporto di relazione per stare in piedi.”

Per stare in piedi adesso ti ci vorrebbe più una dormita, magari. E’ tardi, quella gente si è pure alzata dalle poltroncine, e te stai friggendo sotto al calore del pc. Ci penserai domattina. Qualcosa ti dice, però, che a parte un crampo nel collo e un enorme sproloquio nelle bozze ben poco ti rimarrà di questa sera. E’ ovvio, certe emozioni ti travolgono, come un’onda spinta da un vento un po’ più forte del normale. E ci credo, soltanto un surfista starebbe in equilibrio su un’onda e io non lo sono. Poi l’onda si ritira e ti lascia sulla pelle solo l’odore del mare. Solo. Alla faccia. Tra un’onda e l’altra è quell’odore che ti accompagna sempre, pure se non ci fai troppo caso, a volte. Ma appena si alza il vento, si fa sentire eccome.

E fuori, infatti, c’è un bel temporale.

*…It’s Worth Living, Anyway…*

Mi guardavo intorno stupita ma allo stesso tempo rassicurata. Non solo casa mia è piena di quadri e quadretti appesi più o meno ovunque, allora. In fondo, però Chiara aveva svolto gli stessi studi artistici di mio padre. Tra un’occhiata ai mobili intarsiati, antichi, che in duecento anni avevano visto un po’ di case, e una al panorama, le colline della mia città mai viste da così vicino, pensavo che probabilmente una cosa così è difficile che un giorno la farò anch’io. Già adesso non ci si sente più, nonostante amicizie su vari social network. Figuriamoci se tra trent’anni ci si potrà ritrovare a cena, insieme alle proprie famiglie, tra vecchi compagni di liceo.

Mi avvicinai ad un tavolino basso con diverse fotografie in bianco e nero incorniciate. La madre di Chiara mi raggiunse e ne prese una.

Eh, guarda, questo qui è mio marito. Non era un uomo bellissimo?
Mi disse, annuendo soddisfatta.

Si, si, infatti. Che bella presenza. Le risposi sorridendo. Nel vedere la foto del giorno del suo matrimonio i suoi occhi s’erano già persi nei ricordi. Si rivolse di nuovo a me, tirando leggermente la testa all’indietro e scandendo le parole lentamente e con eleganza, come per non perderne nessuna:

Sai cosa mi disse in punto di morte? Benedetto il giorno che t’ho incontrata. Fece una pausa, riflettendo compiaciuta.
Eh, parole così ti restano dentro. Non si possono dimenticare. Restano impresse per sempre. E io me le ricordo benissimo, sai?

Che gran tesoro custodisce nel cuore, pensai. Parole così possono racchiudere per intero un grande amore. E in quel momento si mostrò nella sua interezza sul suo viso che non dimostrava affatto i suoi 91 anni. Che poi dimenticava di avere. Come dimenticava di aver già avuto parole di ammirazione per tutti, a tavola. Ci ripeteva sempre quanto amasse la sua famiglia e quanto le piacessimo noi. Raccontava storie che pescava qua e là dalla sua memoria, come quella della casa in cui da giovane era vissuta, in pieno centro, tra il Palazzo Reale e il teatro San Carlo, in affitto, che suo padre fece bene a non comprare perchè appartenevano alla chiesa e tutti quelli che l’avevano fatto avevano avuto misteriose perdite in famiglia nel giro di un anno. Parlava dithe come una donna deve imparare ad essere dolce e posata, elegante nei modi perchè è giusto così. Altro che le caricature che oggi fanno vedere in tv. Avevo davanti una vera napoletana, che portava dentro di sè l’orgoglio e la gioia per tutte le esperienze che aveva vissuto (e che, sottolineava, tante altre doveva ancora vivere). Andò a prendere le foto di suo padre e di suo zio. Raccontava di loro e di quanto fossero uomini belli e di presenza. L’avrei ascoltata per ore, come facevo con mia nonna.

Hai preso un po’ di vino, cara?

Mi ripetè un paio di volte. L’avevo preso, certo, ma fosse stato per lei sarei tornata a casa ubriaca (!).
Un po’ dimenticava di avermelo già chiesto e un po’, diciamo, lei aveva degli standard più alti. Come per il liquore, del maraschino fatto in casa da sua figlia. Soltanto io ne ebbi un bicchierino pieno, per sbaglio. Anche lei lo ebbe, ma per richiesta. Avevo appena deciso di lasciarne un po’, perchè già stava andando un po’ in testa quando la vidi finire il secondo giro.

E no. E che cavolo. E se lo regge lei, fresca come una rosa, io che figura ci faccio? Pensai. Con un moto d’orgoglio lo finii tutto.

Ecco, diciamo che sarei stata ad ascoltarla giusto per un’altra mezz’ora, dopo quello. Chiara doveva esserci andata pesante con le proporzioni. La signora, nel frattempo, sosteneva, con aria molto seria, di non essersi mai ubriacata in vita sua. Non si addice ad una signora. Sua figlia prontamente le fa:

Mamma, ma se pure fosse stato, non è che te lo saresti ricordato!

No, ti dico. Mai successo. Ribattè.

E ci tenne a sottolineare che nemmeno si sentiva avanti con gli anni:

Io sono una vecchia giovane! Vedi, nemmeno mi ricordo quanti anni ho. Ma sono nata nel gennaio del 1922.

In poco tempo era riuscita a condividere con tutti, e soprattutto con me che aveva più a tiro, tutti i valori che la vita le aveva insegnato. Desiderosa di far sapere che l’amore è stupendo, anche se il proprio consorte è ormai da un po’ che non c’è più, che i legami con gli altri sono la cosa davvero preziosa e che la vita ti da’ anche delle batoste, ma non averle sarebbe poi non vivere davvero. Che qualche doloretto ce l’ha, ma non le impedisce di andare a Milano o a Roma dagli altri suoi figli. Che vale la pena, sempre, di perdonare, perchè la rabbia alla fine resta solo a se stessi e fa male. Che può far paura ciò che c’è dopo la vita, ma soltanto perchè è l’ignoto a mettere timore.

Mi ha insegnato che alla sua età si può guardare indietro, al percorso già fatto, e sentirsi felici.

Andai via da quella casa con una domanda nella testa… Non è forse lo scopo della vita, il motivo per cui siamo qui, arrivare finalmente ad avere tali consapevolezze così ben salde nel cuore e nella mente?

*ಇ … Qualsiasi Cosa Tranne l’Ordinario, Per Favore … ಇ*

“Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perchè ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.”
[A. Baricco]

Hai un gran bell’obiettivo davanti. Diverse cose da fare per andare lì e raggiungerlo. Diverse cose che hai pianificato più o meno bene, di cui ti sei fatta un’idea, nonostante la consapevolezza di essere abbastanza una frana a seguire tabelle di marcia troppo serrate (che questa cosa ancora non riesco a capirla, come si fa ad essere tanto precisi e pignoli e allo stesso tempo così incapaci di seguire i consigli dettati dal proprio buonsenso, bel mistero) pensando comunque che la tua strada è lì, davanti a te, e non devi far altro che adoperarti per seguirla nel migliore dei modi. E poi accade di tutto.

Proprio come in uno di quei film catastrofici che ispirano tante persone a costruirsi dei bunker antiatomici sotto casa (e dove sembra che molti si rinchiudano pur senza catastrofi in arrivo) ti ritrovi proprio al punto in cui il protagonista fa appena in tempo ad avvisare i propri cari che un forte uragano è in arrivo e che ti farai risentire appena verranno ripristinate le linee di comunicazione. Già all’alzarsi dei primi venti più forti del solito, vedi quelle tue belle idee che vengono sollevate in aria, vorticando allegramente come foglie cadute da un albero e che volano via da te mentre tu inizi ad aggrapparti alla prima cosa che hai sottomano, sebbene curiosa di sapere dove se ne stiano andando così di fretta, ma allo stesso tempo più preoccupata della fine che faresti tu, piuttosto che loro. Poi mentre sei lì che faticosamente arranchi nel vento (che tralaltro ti sta scompigliando i capelli in maniera fastidiosissima) provando a raggiungere la porta di casa tua, ti fermi un attimo per voltarti e vedi con gran stupore che dietro di te il resto dello spettacolo sta andando avanti, nonostante tu non sia riuscita ancora a metterti comoda. Alla danza vorticosa si stanno aggiungendo anche il tuo ottimismo, la tua determinazione, le tue rosee-visioni e la mappa che indicava la strada. Arrabbiata e infreddolita entri finalmente in casa e inizi a rendere noto alle pareti e ai quadri di ciò che è accaduto poco prima, con tutto il fiato che hai in gola. Ti metti comoda e provi a mettere ordine nella testa. In stile Protezione Civile compili una lista provvisoria dei danni e dei dispersi, tanto per rendersi conto da dove iniziare a metter mano per i soccorsi. Sconfortata ti accorgi che mancano anche la tua voglia-di-fare, la positività e la tua tanto amata razionalità. Poi per fortuna nemmeno il tempo di scriverlo che una piccola delegazione in rappresentanza di quest’ultima bussa al citofono… E’ riuscita a sottrarsi alla bufera e prontamente è tornata a casa, a darti una mano.

Ti prepari una camomilla e prendi consapevolezza del fatto che con tutto ciò che manca, beh, ti senti alquanto persa. E si stagliano di fronte a te scenari terribili, rappresentazioni visive di alcuni dei tuoi peggiori limiti. Pensi alla frase di Bach che ami tanto:

Cavilla sui tuoi limiti, e senza dubbio essi t’apparterranno-.

Già. Ti appartengono e non sono altro che il metro con cui ti misuri ogni volta che compi una scelta nella vita. E poichè sei tu che decidi, sai benissimo anche che puoi liberartene quando ti pare. *Puff* uno schiocco di dita e puoi farli scomparire. Sempre che, ovviamente, tu non ne abbia bisogno per definire il tuo campo di azione. Ed è per questo che in fondo li lasci lì, in quell’angolo della testa, perchè sai che più di tanto non danno fastidio, di solito, e riesci a tenerli a bada. A quanto pare però, in occasione di particolari eventi della tua vita, in vista del raggiungimento di obiettivi importanti tirano fuori striscioni, bandierine e megafoni e partecipano più attivamente di quanto vorresti alle tue vicende. Fanno talmente casino che non riesci a vedere nient’altro. L’uragano che lì fuori sta dando il meglio di sé deve averli proprio entusiasmati. Per cui resti chiusa in casa, insieme alla tua festosa compagnia, mentre tutti si chiedono che fine hai fatto. Sanno che ogni tanto capita, ma sanno anche che non appena metti di nuovo il naso fuori potranno contare su di te, come sempre. Mentre tu, orgogliosa e testarda, vuoi contare solo su te stessa.

Vuoi a tutti i costi ritrovare tutti quei dispersi e ripartire. Non ti va di essere trascinata fuori con una scusa, o con una promessa da parte di qualcuno, nonostante tu gli voglia bene più di quanto fai sembrare. Intanto i giorni passano e l’uragano pure. Solo che i tuoi ospiti a furia di urlarti nelle orecchie con i megafoni ti hanno intontita e camuffi in “relax” ciò che in realtà è una ritirata strategica, durante la quale speri che mettendo nero su bianco tutte quelle zuffe di pensieri, riflessioni e considerazioni varie possano placarsi e darsi una calmata, invitando tutti a collaborare affinchè si possa tornare al più presto alle attività consuete, e soprattutto, a pieno regime. Ha funzionato tante volte, pensi, funzionerà anche con questi signori qua.

Molto bene, abbassate i megafoni per favore e ascoltatemi. E’ vero, io odio assolutamente quando i miei piani vengono messi sottosopra, e soprattutto quando non ho il piano B già pronto da qualche parte. Stavolta non me l’aspettavo. Son rimasta spiazzata e voi avete approfittato di qualche minuto di indecisione per invadermi casa. Grazie davvero, eh. Il problema è che senza piano B, o C, senza insomma un piano qualsiasi, c’è il rischio di farsi trascinare e seguire il piano di qualcun altro, che essendo appunto non tuo potrebbe adattarsi a te, con qualche aggiustatina qui e lì, ma non ti calzerà mai a pennello come a chi l’ha ideato per sé.
E’ vero, si, poi al mio obiettivo ci arrivo, ma mi piacerebbe che nessuno poi pensasse di candidarmi agli Oscar per il premio di Miglior Attore Non Protagonista. (Eccolo lì, c’è uno dei tizi con il megafono che ha già capito dove voglio andare a parare, sta già di nuovo a saltellare con la sua bandierina in mano…). Per carità, non stiamo qui nemmeno a girare il film del secolo tanto per conquistarsi il premio più ambito. La questione è che mi piacerebbe sbrigarmela da sola. Vorrei riprendere in mano le redini della situazione. Vorrei decidere da me. E vorrei sentirmi sempre e comunque protagonista della mia vita, vorrei che tornasse il mio spirito di ottimismo e di positività che mi ispira tanto e mi sprona a dare il meglio e a non dubitare mai di me. Chi può mai credere in me non io stessa per prima? Chi deve vivere la mia vita, se non io? Senza tali prospettive, mi sento persa, banale … I’D RATHER BE ANYTHING BUT ORDINARY, PLEASE (per l’occasione ti sembra pure di sentire in sottofondo la citata canzone di Avril). 
Ci saranno persone che si allontaneranno e piani sconvolti, ancora e ancora. Trattenere però disperatamente tra le mani situazioni che più o meno palesemente stanno scomparendo è peggio che lottare contro i mulini a vento.
Io farò, nonostante tutto, a modo mio. E i propri limiti, quando diventano stretti, bisognerebbe spostarlì un po’ più in là, per darsi più spazio e andare avanti… Ed è proprio per questo che apprezzerei molto se poteste liberarmi il soggiorno e levarvi dai piedi.

Finalmente sei sola. Vai a prendere il telefono. Sembra che le linee stiano a posto, adesso.