Mi aveva puntata da lontano.
Non avevo per niente voglia di discutere o innervosirmi. Mi sono guardata intorno smarrita, cercando una via di fuga, rendendomi conto di essere su una panchina al margine di una piazza enorme, deserta. Ma quale via di fuga, pensai. Ormai l’avevo visto camminare nella mia direzione e qualsiasi tentativo di dribblare sarebbe sembrato come minimo scortese. Stranamente però aveva su un gran bel sorriso.
Piacere, io chiama Prospero, tu come chiama?
Gli sorrido a mia volta. Era partito bene in fondo. Anche se, in realtà, non avevo voglia di discutere o innervosirmi e ancor meno di chiacchierare con uno sconosciuto.
Mi chiamo Bianca, piacere mio!
Ahah! Bianca! Se tu chiama Bianca, allora io chiama ‘Nero’! Ahahah Vedi, io cambia nome subito, a come serve..
Scoppiai a ridere, mi aveva presa alla sprovvista. Andiamo bene, pensai, mi piglia pure in giro.
Da dove viene tu, Bianca?
Napoli..
Ah io viene da Africa. Vicino.. disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Se non fosse stato per la sua espressione seria, stavolta avrei giurato che mi stesse davvero prendendo in giro.
Eppure tu non parla come napoletani. Io conosce napoletani, tu non parla come loro. Non è vero tu prende in giro! Ahah!
Aveva girato la frittata. Gli giurai in ogni modo che ero davvero napoletana. Non voleva credermi, finchè non osservò, serio, che in fondo ero anch’io lontana da casa. Non quanto te, pensai.
Io viene da Lampedusa. E’ davvero dura vivere. Dicono che qua è meglio, ma non è vero..
Scuoteva la testa, rassegnato. Disse che gli mancava tanto sua madre, suo fratello, suo padre che non c’era più. Erano rimasti in Africa. Riusciva a sentirli per telefono ed erano anni che non li vedeva. Andare a fargli visita è un casino, per i permessi di soggiorno e i costi. E doveva tirare avanti come meglio poteva. Notai che si sentiva terribilmente solo. Mi guardai un attimo intorno e mi resi conto che eravamo entrambi soli, lontani dalla famiglia, girovagando senza una meta ben precisa. Solo che io quella sera sarei tornata a casa, invece. Rimasi impressionata dalla sua voglia di parlare. Mi capita di vederne tante di persone nelle sue condizioni, eppure non mi era mai capitato di incrociare i miei passi con qualcuno di loro e capirne i sentimenti così da vicino. Le strade si incrociano in maniere imprevedibili, delle volte, e inevitabilmente ci si scambia qualcosa in quei pochi minuti di contatto. Non so cosa l’avesse spinto a parlare con me. Io di certo capii, mentre si allontanava, che non l’avrei più rivisto e che non l’avrei dimenticato facilmente. Se ne andò, si, non prima di aver provato a vendermi qualcosa.
Guarda, davvero, qualsiasi cosa possa prendere non saprei dove metterla. Piuttosto ti offro qualcosa..
Ci salutammo e mi augurò buon viaggio. Di nuovo sorridente, vivace, come se nonostante le difficoltà riuscisse ancora a guardarsi intorno e scorgere qualcosa di bello.
Probabilmente a qualcuno doveva esser sembrato davvero indecente il fatto di volermene stare un po’ per conto mio, quel giorno. Lo pensai nel momento in cui piombò uno straniero nella mia cabina del treno. Anche stavolta ero sola, tutta la carrozza quasi deserta, e per questo lottavo contro il sonno. La stanchezza m’avrebbe anche presa, ma ero sola e non potevo per niente abbassare la guardia. E infatti quando ‘Gerardo’ si piazzò di fronte a me, sveglio e allegro come se avesse appena vinto alla lotteria ebbi anche un po’ paura. Dove me ne sarei mai potuta scappare, poi. Tanto per cambiare. Iniziammo a parlare del ritardo del treno, ci presentammo e iniziò a raccontarmi della sua vita. Rigorosamente in inglese. Già, perchè se quella mattina avevo avuto la fortuna che Prospero sapesse qualche parola di italiano, Gerardo invece mi mise duramente alla prova, costringendomi a parlare in una lingua che non uso quasi mai. Dopo un po’ mi disse che ero brava. Superai perfino la mia convinzione di non resistere per più di 5 minuti in una conversazione del genere. Quando si dice convincersi dei propri limiti.
Gerardo aveva una storia incredibile. Nato in Messico, cresciuto a Los Angeles, era nell’esercito americano, in una base a Catania. Il suo lavoro lo costringeva a girare il mondo. Provò a convincermi di visitare il Giappone, dove l’ingegneria ha un futuro pazzesco, facendomi un corso accelerato sulle somiglianze tra l’inglese e il giapponese.
Once you speak English, it’s easy to learn it.
E che ci vuole, pensai.
Gli mancava la sua famiglia, molto allargata, visto che entrambi i genitori si erano risposati e nonostante ciò erano tutti molto uniti. Suo padre era venuto dall’America in quei giorni per stare con lui. L’avrebbe portato a Firenze, poi Roma e infine Napoli, prima di restare un po’ a Catania. Mi sembrò giusto che, avendo fatto tanti chilometri per arrivare da lì, girare l’Italia come se fosse un paesino di montagna per loro fosse normale. Mi fece un sacco di domande su di me e la mia vita. In un batter d’occhio passarono due ore quasi, tra i treni giapponesi a levitazione magnetica, alle pizzerie più famose di Napoli, a quanti possibili modi ci sono di dire il mio nome in altre lingue, passando per le assicurazioni auto e relazioni sentimentali. Sembrava che qualsiasi cosa gli passasse per la testa fosse uno spunto per chiacchierare. Ad un certo punto, stanco, disse che sarebbe tornato nella cabina da suo padre per dormire un po’. Ci tenne a precisare che per qualsiasi problema avrei potuto comunque chiamarlo.
If somebody tries to get in, you just – mimò una faccia spaventata gesticolando – and I come here.
Fu così buffo che mi misi a ridere e lo ringraziai. Lo rividi soltanto all’arrivo. Non glielo dissi, ma in fondo gli ero grata per avermi fatto compagnia. Mi aveva fatto sbirciare per un po’ dal punto di vista da cui lui osserva il mondo e lo ricorderò a lungo.
Ogni tanto ripenso ad entrambi. Prospero e Gerardo. A quanto sia stato assurdo incrociare i loro percorsi. Partiti da continenti diversi, incontrati lo stesso giorno, tutti e tre in viaggio attraverso conti da fare con se stessi. Ripenso ai loro sorrisi che allontanarono per un po’ qualche ombra dal mio viso. Mi è sembrato quasi fossero stati lì solo per quello. Per ricordarmi qualcosa. Per ricordarmi cos’è che stavo dimenticando di fare. Perchè ad allontanarle dal cuore, appunto, avrei dovuto pensarci io.
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