ComeDiari #13: Ostacoli

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Se un ostacolo ti capita davanti ai piedi due volte, allora vuol dire che c’è una qualche lezione che dovevi imparare e alla prima occasione non l’hai fatto.

Così si dice, almeno.

Non è il fatto in sé per sé che mi urta, ma proprio il suo ripetersi. Con tempi, circostanze e attori diversi. Perché?

Ah sì, la lezione.

Ci ho pensato su tutto il giorno. Non proprio in quest’ordine mi è venuto in mente:

-Non dare più fiducia a nessuno, nessuna persona di nessun genere, età, sesso e condizione sociale. L’idea più immediata e ovvia.

-Mai più distrazioni di nessun tipo. Niente progetti per il futuro, niente shopping, letture, social, modi alternativi di conoscere la vita oltre l’università. Insomma, se succedono certe cose è perché faccio passare troppo tempo distraendomi. 

-Piangermela da sola. In solitudine completa. Che però è più una conseguenza del primo punto.

-Perdonare. E prendersi non troppo sul serio. Arrabbiarsi non serve a niente. E tutti possono sbagliare.

-Imparare ad incassare ed essere pronta poi a ripartire. La vita vuole che io da carne ed ossa diventi di plastilina. Possibilmente profumata e di un colore sgargiante. La storia della resilienza ce la dimentichiamo? E su. 

Ma cos’è una lezione?

Nel senso, davvero c’è sempre una morale? Una e una sola, che ci aspetta paziente alla fine di lunghe telefonate e imprecazioni insensate? Aspetta davvero che passi l’ultima lacrima sul viso o l’ultimo pensiero di fumo dalla testa?

E’ che, capite, due volte. Due volte lo stesso ostacolo. Qualcosa deve pur significare, no?

Beh, ho capito una cosa. La morale dipende da noi. Non facciamo che sceglierci quella che più ci piace di volta in volta e quella ci da’ la direzione che avevamo perso e che ci serve per raggiungere il prossimo obiettivo. Insomma, dipende dalle nostre intenzioni. Quali azioni vogliamo giustificare. Dal modo in cui vogliamo vedere la realtà.

Oggi però di morali non ne ho scelte. Ho cercato una soluzione e basta.

Dove c’è un ostacolo, c’è anche una soluzione.

E questo mi ha fatta star bene più di qualsiasi altra grande verità nascosta.

 

 

Tutto Daccapo

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Da spettatrice passiva e occasionale di Beautiful mi è capitato spesso di imbattermi in un concetto che non sono mai riuscita ad afferrare mai davvero del tutto, nonostante negli anni Brooke l’abbia usato per risolverci diversi disastri sentimentali e drammi familiari ed esistenziali a loro annessi.

Ogni volta che le sentivo pronunciare il suo fatidico penso sia arrivato per me il momento di voltare pagina io restavo allibita e con tutti i sensi all’erta nel tentativo di captare parole o gesti collaterali alla frase che in qualche modo potessero svelarne il mistero e soprattutto, stupidamente, appariva nella mia immaginazione un enorme libro dalle pagine pesantissime che aspettava pazientemente un’anima pia disposta a sfogliarlo.

Come si fa a voltare pagina? Fare tabula rasa del recente vissuto, gettare della candeggina sui ricordi per sbiadirli quel tanto che basta affinché l’indomani al risveglio non se ne sentano più le voci, mettere una scadenza agli effetti di ogni causa e ricominciare daccapo. Davvero si può?
Ho sempre pensato no. Ho sempre creduto che fosse un’esagerazione, un espediente da copione. Una cosa irrealizzabile nella realtà o almeno una di quelle frasi che si buttano lì quando ne hai troppo di tutto e di tutti e vorresti poter morire e rinascere in una notte soltanto per liberartene.

Ultimamente però mi è tornato in mente, nonostante la mia convinzione che nella vita è impossibile mettere un punto e andare a capo. Ci si può rialzare da una caduta o riemergere da abissi di negatività, certo, ma fa tutto parte dello stesso percorso, il tempo ci spinge inesorabilmente in avanti lungo la sua freccia che ancora non abbiamo imparato a governare. Forse in un’altra vita potremo sparire e apparire in un qui e adesso diverso a nostro piacimento, spezzare il percorso e ogni limite della nostra mente, come insegna un certo Jonathan. 

Eppure quel voltare pagina è rispuntato fuori dal nulla mentre pensavo a tutt’altro.

O meglio, ne ha approfittato per far capolino dalla scatola delle assurdità quando un sonoro basta è risuonato nella mia mente una sera in cui, ripensando a come sono scivolati via questi ultimi mesi in balia di decisioni, problemi e imprevisti altrui, mi sono spaventata non riconoscendomi in quei ricordi. C’era una me che non tratteneva le lacrime per la prima volta alla vigilia di un proprio compleanno e voleva davvero sparire nel nulla sentendo che nessun qui e adesso diverso da quello valeva lo sforzo di riapparire, perché in fondo l’avrebbe lasciato scorrere come tutti gli altri sperando di non provare alcuna colpa, pur sapendo che in realtà non vivere è la peggiore di tutte.

Un attimo dopo ho immaginato ancora quel libro. Stranamente non sembrava né pesante né stupido.

E se ricominciassi daccapo? Se avessi davvero la possibilità di cancellare, seppellire, distruggere un pezzo di percorso e riscriverlo questa volta essendo la me stessa che voglio essere, ‘che quella non mi piaceva per niente?

Che, magari, uno ne ha pure il diritto, voglio dire.

L’idea mi ha caricata. Se ci si accorge di aver preso una deviazione, imboccato un sentiero sbagliato non è vietato indietreggiare, fare mente locale e ripescare quel qui e adesso da cui poi non s’è capito più nulla, raccogliere un po’ di sassi e ammucchiarli lì dove non si vuole più tornare, voltare le spalle e riprendere il cammino in una direzione diversa. Ecco, insomma, si. Voltare pagina.

Una cosa che non sa né di assurdo né di sconfitta. Solo un altro modo per ritrovare se stessi.

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*… Prospero E Gerardo …*

Mi aveva puntata da lontano.
Non avevo per niente voglia di discutere o innervosirmi. Mi sono guardata intorno smarrita, cercando una via di fuga, rendendomi conto di essere su una panchina al margine di una piazza enorme, deserta. Ma quale via di fuga, pensai. Ormai l’avevo visto camminare nella mia direzione e qualsiasi tentativo di dribblare sarebbe sembrato come minimo scortese. Stranamente però aveva su un gran bel sorriso.

Piacere, io chiama Prospero, tu come chiama?

Gli sorrido a mia volta. Era partito bene in fondo. Anche se, in realtà, non avevo voglia di discutere o innervosirmi e ancor meno di chiacchierare con uno sconosciuto.

Mi chiamo Bianca, piacere mio!

Ahah! Bianca! Se tu chiama Bianca, allora io chiama ‘Nero’! Ahahah Vedi, io cambia nome subito, a come serve..

Scoppiai a ridere, mi aveva presa alla sprovvista. Andiamo bene, pensai, mi piglia pure in giro.

Da dove viene tu, Bianca?

Napoli..

Ah io viene da Africa. Vicino.. disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Se non fosse stato per la sua espressione seria, stavolta avrei giurato che mi stesse davvero prendendo in giro.

Eppure tu non parla come napoletani. Io conosce napoletani, tu non parla come loro. Non è vero tu prende in giro! Ahah! 

Aveva girato la frittata. Gli giurai in ogni modo che ero davvero napoletana. Non voleva credermi, finchè non osservò, serio, che in fondo ero anch’io lontana da casa. Non quanto te, pensai.

Io viene da Lampedusa. E’ davvero dura vivere. Dicono che qua è meglio, ma non è vero..

Scuoteva la testa, rassegnato. Disse che gli mancava tanto sua madre, suo fratello, suo padre che non c’era più. Erano rimasti in Africa. Riusciva a sentirli per telefono ed erano anni che non li vedeva. Andare a fargli visita è un casino, per i permessi di soggiorno e i costi. E doveva tirare avanti come meglio poteva. Notai che si sentiva terribilmente solo. Mi guardai un attimo intorno e mi resi conto che eravamo entrambi soli, lontani dalla famiglia, girovagando senza una meta ben precisa. Solo che io quella sera sarei tornata a casa, invece. Rimasi impressionata dalla sua voglia di parlare. Mi capita di vederne tante di persone nelle sue condizioni, eppure non mi era mai capitato di incrociare i miei passi con qualcuno di loro e capirne i sentimenti così da vicino. Le strade si incrociano in maniere imprevedibili, delle volte, e inevitabilmente ci si scambia qualcosa in quei pochi minuti di contatto. Non so cosa l’avesse spinto a parlare con me. Io di certo capii, mentre si allontanava, che non l’avrei più rivisto e che non l’avrei dimenticato facilmente. Se ne andò, si, non prima di aver provato a vendermi qualcosa.

Guarda, davvero, qualsiasi cosa possa prendere non saprei dove metterla. Piuttosto ti offro qualcosa..

Ci salutammo e mi augurò buon viaggio. Di nuovo sorridente, vivace, come se nonostante le difficoltà riuscisse ancora a guardarsi intorno e scorgere qualcosa di bello.

Probabilmente a qualcuno doveva esser sembrato davvero indecente il fatto di volermene stare un po’ per conto mio, quel giorno. Lo pensai nel momento in cui piombò uno straniero nella mia cabina del treno. Anche stavolta ero sola, tutta la carrozza quasi deserta, e per questo lottavo contro il sonno. La stanchezza m’avrebbe anche presa, ma ero sola e non potevo per niente abbassare la guardia. E infatti quando ‘Gerardo’ si piazzò di fronte a me, sveglio e allegro come se avesse appena vinto alla lotteria ebbi anche un po’ paura. Dove me ne sarei mai potuta scappare, poi. Tanto per cambiare. Iniziammo a parlare del ritardo del treno, ci presentammo e iniziò a raccontarmi della sua vita. Rigorosamente in inglese. Già, perchè se quella mattina avevo avuto la fortuna che Prospero sapesse qualche parola di italiano, Gerardo invece mi mise duramente alla prova, costringendomi a parlare in una lingua che non uso quasi mai. Dopo un po’ mi disse che ero brava. Superai perfino la mia convinzione di non resistere per più di 5 minuti in una conversazione del genere. Quando si dice convincersi dei propri limiti.

Gerardo aveva una storia incredibile. Nato in Messico, cresciuto a Los Angeles, era nell’esercito americano, in una base a Catania. Il suo lavoro lo costringeva a girare il mondo. Provò a convincermi di visitare il Giappone, dove l’ingegneria ha un futuro pazzesco, facendomi un corso accelerato sulle somiglianze tra l’inglese e il giapponese.

Once you speak English, it’s easy to learn it.

E che ci vuole, pensai.

Gli mancava la sua famiglia, molto allargata, visto che entrambi i genitori si erano risposati e nonostante ciò erano tutti molto uniti. Suo padre era venuto dall’America in quei giorni per stare con lui. L’avrebbe portato a Firenze, poi Roma e infine Napoli, prima di restare un po’ a Catania. Mi sembrò giusto che, avendo fatto tanti chilometri per arrivare da lì, girare l’Italia come se fosse un paesino di montagna per loro fosse normale. Mi fece un sacco di domande su di me e la mia vita. In un batter d’occhio passarono due ore quasi, tra i treni giapponesi a levitazione magnetica, alle pizzerie più famose di Napoli, a quanti possibili modi ci sono di dire il mio nome in altre lingue, passando per le assicurazioni auto e relazioni sentimentali. Sembrava che qualsiasi cosa gli passasse per la testa fosse uno spunto per chiacchierare. Ad un certo punto, stanco, disse che sarebbe tornato nella cabina da suo padre per dormire un po’. Ci tenne a precisare che per qualsiasi problema avrei potuto comunque chiamarlo.

If somebody tries to get in, you just – mimò una faccia spaventata gesticolando – and I come here. 

Fu così buffo che mi misi a ridere e lo ringraziai. Lo rividi soltanto all’arrivo. Non glielo dissi, ma in fondo gli ero grata per avermi fatto compagnia. Mi aveva fatto sbirciare per un po’ dal punto di vista da cui lui osserva il mondo e lo ricorderò a lungo.

Ogni tanto ripenso ad entrambi. Prospero e Gerardo. A quanto sia stato assurdo incrociare i loro percorsi. Partiti da continenti diversi, incontrati lo stesso giorno, tutti e tre in viaggio attraverso conti da fare con se stessi. Ripenso ai loro sorrisi che allontanarono per un po’ qualche ombra dal mio viso. Mi è sembrato quasi fossero stati lì solo per quello. Per ricordarmi qualcosa. Per ricordarmi cos’è che stavo dimenticando di fare. Perchè ad allontanarle dal cuore, appunto, avrei dovuto pensarci io.