Attraverso.

Con la testa poggiata sulla mano fisso la cella del foglio Excel come se li dentro ci fosse qualcosa di estremamente importante. Ne è solo una in mezzo a centinaia di altre, ma è così che la mente sceglie quei punti che in realtà sono dei portali aperti su tutti gli universi paralleli che coesistono nello stesso istante: a caso.

In genere accade con i muri. I muri sono i posti preferiti dalla regia che regna dietro i nostri occhi per i fermoimmagine. Di solito è meglio quando sono bianchi o di colore chiaro, ma vanno bene anche quelli con la carta da parati a fantasia, purché ci sia qualche linea morbida, tipo il bordo di un ghirigoro che di solito è perfetto per posarci lo sguardo a lungo. Niente pallini e figure geometriche che portano la mente su qualche tipo di ragionamento razionale. Lo scopo non è pensare, ma guardare attraverso quel punto e lasciare che appaiano immagini e sensazioni così, dal nulla.

Un po’ come ha fatto la Luna con le nuvole questa sera. Ero uscita sul balcone per buttare della plastica e alzando gli occhi ho avuto come un senso di vertigine, sembrava che la Luna si muovesse veloce. Ad un tratto si è impantanata in un gruppo di nuvole traslucide, la mente ha ritrovato i punti di riferimento e ovviamente ha rielaborato la situazione, erano state le nuvole a sovrapporsi allo spicchio luminoso che continuava a distinguersi nitidamente nonostante la loro presenza che in genere è oscurante. Stavo guardando la Luna attraverso le nuvole, o forse stavo fissando le nuvole e oltre riuscivo a scorgere la Luna.

Io non ci ho mai creduto a quella cosa dell’essere speciale che guarirà da ogni malattia solo perché qualcuno decide di prendersene cura, perché non funziona così. Alla fine qualcuno può sentire di non essere stato abbastanza speciale, qualcun altro di non aver dato abbastanza cure. Non si solleva una persona dai suoi sbalzi di umore, te li scansi se va bene, li prendi in pieno se va male e potendo gestire le onde gravitazionali al massimo si potrebbe viaggiare di più per tutta la vita, ma nulla impedirebbe di invecchiare.

Le persone non si lasciano attraversare dalla mente. Hanno spessori profondissimi, di materiali impenetrabili. Qualche volta puoi entrarci dentro, magari percorrere anche un bel tratto. Però non ci troverai mai la Luna dall’altro lato. In genere giri intorno alla loro superficie, mutevole. A volte trovi un po’ di punti comodi dove fermarti, incastrarti, fonderti. Perché forse siamo fatti per stare così, di fianco, di spalle o abbracciati e insieme fissare i muri e gli universi paralleli che si celano dietro di essi.

La Terra con la mascherina

Questa immagine mi ha colpito per la sua tenerezza, per il colpo d’occhio che ci mostra quanto la questione sia globale e in qualche modo mi ricollego a ciò che dicevo nell’ultimo post, il mondo è malato, vero, però quel che sta accadendo è segno di uno squilibrio profondo che va oltre al solo problema del riscaldamento globale. O meglio, finora quando se ne parlava ci si sentiva poco coinvolti direttamente, come persone, come se fosse qualcosa che chissà quando o come avrebbe inciso sulle nostre vite. Insomma, qualche grado in più sul termometro ma la nostra realtà scorreva se possibile a velocità più elevata rispetto a qualche decennio fa. Che le due cose siano correlate oppure no non lo so, ma la Terra intera indossa una mascherina e non è solo una geniale illustrazione.

Vigilia

Arrivo sulle scale tra il secondo e il primo piano e la sento già.

Sembra suonata da un principiante che fa una nota per volta, senza accordi e riecheggia come le voci lontane e cupe che escono dagli altoparlanti delle stazioni.

La musichetta va a tempo con le lucine intermittenti dell’albero di Natale che sta nell’atrio del palazzo. In tutto sono tre melodie che si susseguono ventiquattrore su ventiquattro. Una proprio non capisco quale canzone sia. Rompono il silenzio e si insinuano tra i pensieri che si incantano a quel gracchiare che sembra venire da un tempo decisamente passato.

Chiudo il pesante portoncino e faccio un breve giro sotto casa per comprare le ultimissime cose che mancano per le tavole di questi giorni. La maggior parte dei negozi in questi giorni ha occupato i marciapiedi con delle bancarelle. Ogni persona che incrocio è presa da quell’impazienza tipica delle vigilie. I negozianti guardano di traverso sia me che l’orologio sul polso, andando su e giù tra i banchi esterni e gli ingressi dei negozi. Eppure questo è il momento che mi piace di più del Natale. Amo quella leggera ansia che pervade ogni singola cosa e che si percepisce ad ogni passo a poche ore dall’inizio dei cenoni. Alzo sulla testa il cappuccio del parka perché sta iniziando a piovere.

Arrivo alla pasticceria con le mani già occupate. In una ho la busta con i limoni per le insalate di pesce, nell’altra un foglio di carta regalo. La signora che assomiglia terribilmente alla mia prof di italiano del liceo finisce di incartare le mie cassatine al pistacchio. Ci scambiamo gli auguri ed esco. Ogni volta che passo di lì dimentico che c’è una chiesa su quella strada perché è sempre chiusa e da fuori sembra il normale ingresso di un’abitazione. Dovevo mancarci da molto giacché mi accorgo solo in quel momento che dietro ai cancelli chiusi qualcuno ha illuminato l’interno della nicchia che ospita la statua della Madonna con dei neon blu e l’esterno con delle lucine rosse che disegnano un arco seguendo l’architettura della nicchia. Da qualche parte appena dopo i cancelli c’è una stella cometa di lucine appesa in alto. Tutt’intorno è completamente buio.

Delle persone mi passano affianco e aspetto che si allontanino per fermarmi di nuovo a guardare. Cerco di immaginare chi e perché ha illuminato quella madonnina di una chiesa praticamente sempre chiusa. Mi vengono in mente immagini di chiese enormi, bellissime e piene di gente, nelle quali sono stata e in cui spesso ho faticato a tenere l’attenzione sulle cerimonie che si stavano svolgendo e nelle quali, in generale, non mi sono mai sentita molto a mio agio. Quella scena invece mi rapisce con una semplicità così ovvia. Quelle luci male assortite insieme mi attirano e mi danno fastidio allo stesso tempo. C’è qualcosa di sbagliato che però è anche assolutamente giusto e che somiglia ad un mucchio di cose insensate, dolorose eppure inevitabili che fanno parte della vita.

E in quel momento ho capito che quest’anno il bello poco mi interessa. Mi interessa di più l’imperfezione. Ho voglia di gioire con chi fa tutto sbagliato, di ribellarmi e di additare e dispiacermi di chi crede di sapere già tutto. Vorrei conoscere le storie di imperfezione di chiunque perché, sapete, è inutile aver paura delle note stonate. Non ci si salva tappandosi le orecchie, anzi. Ci si perde ancora di più.

Rientro nell’atrio del mio palazzo, la musichina strana mi accoglie come ormai succede da giorni. Questa volta, però, arriva di qualche palmo più vicina al mio cuore.

Un augurio di buone feste imperfette a tutti.

Tu pesante, io leggera.

Quando si dice che non bisogna vivere di aspettative, accettare il prossimo per quel che può dare e per il modo in cui lo fa, non giudicare qualcuno solo perché non ha detto e non ha agito come ti aspettavi, che poi anche un gesto inaspettato può renderti anche più felice di uno in cui invece speravi, io sono d’accordo.
Non sentirsi chiedere “E tu?” dopo che hai chiesto a qualcuno “Come stai?”, però, non è aspettativa. È puro e semplice interesse che per quanto cerchino di raccontartela, evidentemente, non c’è.

Sarebbe tutto normale e nemmeno starei qui a scriverne se non fosse per il fatto che, insomma, basterebbe ammetterlo e amici come prima. In fondo, tanto di guadagnato se in qualche modo ci si evita a vicenda di perdere ancora tempo.

Invece no. Quello o quella che non ha speso energie per articolare la semplice e banale domanda di rimando si innervosisce pure. Perché sei tu quella che si lamenta, che polemizza, a cui non sta mai bene niente e bla bla bla bla. Vuole pure avere ragione. Tu devi star lì e farti star bene il loro menefreghismo. Perché guai a te se insinui che si comportano non proprio bene.

E a me in tutto ciò è venuto in mente quel suono sottile, acuto e dolcissimo che viene fuori quando si passano le dita sui bicchieri di cristallo pieni d’acqua. Ho messo in loop questo video e mi sento già molto meglio. Perché, sapete una cosa?

La pesantezza tenetevela per voi. Io sto con chi mi sfiora la mente con uno sguardo, che non vende le proprie parole e non si nasconde nei labirinti del proprio ego, ostentandoti comunque sorrisi.

Per cui meglio se alzate gli occhi e vi mettete a guardare la luna, perché per il momento io vi mostro soltanto il dito.

Calma E Niente Pathos

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Amanda Cass

Qualche tempo fa il mio amico blogger SM in un suo articolo in riferimento a delle proprie esperienze parlò del pathos e in generale della sua irrazionalità.

A distanza di mesi quella parola mi è rimasta in testa.

Pathos.

In realtà deve essermi rimasta anche nelle orecchie, in ciò che ho pensato e detto. Forse c’era già ma non l’avevo mai riconosciuta. Eppure da quando ne ho sentito parlare nel blog del mio amico è come se si fosse attivato uno scanner che passa in rassegna ogni pensiero, discorso e da’ segnale di allarme quando riconosce del pathos al suo interno.

Perché allarme?

E si. Diciamolo. Il pathos fa parecchi guai. Specie se lo si trova in contesti che non gli appartengono. – Cavolo! C’è del pathos nel telegiornale, passami un fazzoletto per favore, vorrei pulire la notizia-. Gli incidenti diventano tragedie e le tragedie diventano orrori. Quelli veri poi nessuno sa più come chiamarli. Qua e là viene aggiunta potenza drammatica a quella che dovrebbe essere una lineare esposizione di fatti e avvenimenti. Finché si tratta di una  di quelle telenovelas che le mie nonne adoravano, una rappresentazione teatrale o cinematografica, d’accordo, ci sta. Chissà, forse quel surplus di intensità emotiva appartiene al mondo della finzione da sempre ed è quello il suo habitat naturale. Cosa succede se invece ce lo portiamo dietro, nella realtà?

Beh, succedono casini. Farsi prendere dal pathos, nella realtà… Ecco, allontana dalla realtà.

Una multa diventa un dramma. Un’incomprensione si tramuta in un litigio in centotrenta puntate che nemmeno Beautiful. Il fatto è che nella realtà quel surplus di drammaticità non significa grandiosità. Nessuno ci guarda da uno schermo abbracciando un cuscino con una mano e stringendo una tisana nell’altra. Non c’è nessuna giuria lì pronta a giudicarci per l’interpretazione. Nel mondo reale il pathos, in mancanza di registi e produttori che in qualche modo hanno sempre la storia sotto controllo, si fa accompagnare dalla paranoia. Si, lei. Quella cosa per cui si crede di sapere e poi si finisce sempre per prendere granchi colossali.

Tutto questo per dire che un conto è provare empatia per persone e situazioni, un altro è il riversarci le nostre paure, ingigantendo parole e gesti e perdendo completamente di vista la verità, rinunciando ad usare la ragione. Non sarebbe importante se non fosse per il fatto che l’abbandonarsi a quei tipi di emozioni sovraccariche di significati decisamente improbabili fa male. La paura diventa dolore, anche fisico. Le vie della razionalità forse portano verso platee vuote e in generale creano poco audience,  però davvero alle volte sarebbe meglio fermarsi un po’ prima e chiedersi se davvero vale la pena lasciarsi andare così.

 

Semaforo Rosso

Sessanta secondi. L’ultima volta ho notato i suoi guanti di lana neri e la maglia a maniche lunghe blu che porta nonostante il caldo, o forse per quello. Corre, salta, conta le auto, i secondi, i centesimi. Alle otto del mattino lui sorride, tu sbadigli, lui lancia i fazzoletti sul parabrezza e se non li vuoi torna a riprenderli, qualcuno impreca, qualcuno compra, qualcuno, come me, ogni volta salta dal sedile dell’auto perché sovrappensiero. Una mattina ero nervosa e lo guardai distrattamente, lui imitò il mio broncio e io risi. Poi puntualmente il tempo scade e il mondo torna a muoversi, il gioco finisce.

Un-due-tre-stella! La città si diverte a giocare, specie quando vai di fretta. Alcuni si mettono in posa davvero, a fissare chissà cosa. I restanti si scambiano occhiate, sperando di non esser sorpresi a muoversi da chi stava tenendo il conto, senza mani davanti agli occhi e il viso rivolto al sole. Immobilità eterea, tempo che si tocca con pensieri increduli -Perché stiamo fermi, non passa nessuno!-. I più caotici sarebbero tutti bloccati e sospesi a mezz’aria se non fosse per quello di far tardi, già cento metri più avanti che aspetta impaziente battendo il piede a terra.

Ancora uno. Altri secondi di quiete, irreali, persi a notare dettagli dei palazzi e della gente sui quali mai ti saresti soffermata altrimenti e ad incrociare occhi che nascondono occhiaie e sguardi dietro lenti colorate, prima di riprendere a fissare la strada. Tieni il piede pronto sulla frizione, che lo sai, tutto tornerà come prima, si ripartirà scorrendo via tra tutti gli altri ognuno verso la propria giornata, così com’è normale che sia, anche se in quei pochi secondi non sembra così scontato, specie se un’idea diversa attraversa elegantemente sulle strisce proprio lì dinanzi a te e ti stai sporgendo per vedere da che parte sta andando. Sussulto. Da dietro stanno già bussando.

Riapro gli occhi, qualcuno ci osserva stranito. Penso che quando siamo perfettamente liberi di disporre del nostro tempo finiamo per perderlo e con lui perdiamo anche occasioni e possibilità, invece poi costretti in un brevissimo spazio di istanti contati, elemosinati, cerchiamo di vivere davvero, come se non avessimo alternativa alcuna. Lascio le tue labbra, tu corri, io spero, di nuovo il tempo scade. Semaforo rosso.

Il Mio Demian

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  La dj alla radio porse una domanda all’ascoltatrice al telefono, cogliendo la mia attenzione che fino a quel momento doveva essere stata altrove. Non ricordo a cosa pensavo prima, a parte il tizio che da dietro lampeggiava, ma ricordo abbastanza bene tutta la serie di riflessioni che presero a ronzarmi per la testa, finché non giunsi a destinazione.

E allora quand’è iniziato il vostro amore? 

  Sono certa che la tipa rispose qualcosa riguardo l’inizio della relazione con il suo uomo, ma non l’ascoltai per niente perché mi arenai sulle parole “iniziato” e “amore” convinta che fossero accostate in modo strano, che nella stessa frase facessero un po’ a botte, che non suonassero bene insieme. Adesso scrivendolo mi rendo conto di quanto questa sia solo una pignoleria, che tante volte si usano le parole in maniera che insieme rendano un concetto più generico e intuitivo, eppure quella stranezza mi attraeva e mi portava lontana dalle loro voci.
L’amore è davvero qualcosa che inizia? Esiste un giorno, un istante specifico in cui ci si sente innamorati? Direi che si, esiste ed è più o meno quando gli occhi si aprono un po’ di più e il cuore aggiunge battiti a quelli già schierati, ma è più una consapevolezza che un inizio. Non è che un momento prima non ne avessimo affatto dentro e quello dopo lo si sente guidare i passi, le parole.
  Sono i rapporti ad iniziare, come i viaggi, ma l’amore sa dedicarsi anche a giornate di sole, onde di un mare. Se non inizia, dunque, non finisce. Non si lascia uccidere, tormentare, smontare o ingannare. Sa proteggersi. Avrei potuto sbottonare mille corazze e spogliarti di altrettante paure e ancora non baciare la tua pelle davvero. Si lascerebbe accarezzare appena, un giorno e poi cercarsi un’altra casa, quello dopo. Vagherebbe per giorni in completa solitudine pur di trovare un nuovo arcobaleno dal quale tuffarsi. Anche sapendo di questa sua proverbiale costanza, mi son dovuta ripetere più di una volta che non si parte per scappare. Che scappando non esiste posto in cui poi si possa dire di arrivare. Credo di aver barato chiudendo questa convinzione in valigia pochi minuti prima di andare, per portarla con me, si, ma senza averla in continuazione tra i piedi. Avevo camminato sul fondo sconnesso di un fiume in secca e non avevo più idea di cosa significasse essere trasportati dall’acqua, galleggiare senza opporsi alla corrente, non ferirsi ad ogni passo. Mi sono chiesta come avrei potuto sentire ancora quella sensazione di libertà, di vita. In che modo quel fiume che non ha né inizio né fine avrebbe potuto investirmi ancora, anche soltanto per sentire il profumo del cielo e chiamare amica ogni nuvola che coprendo il sole bisbiglia tenerezze di un autunno anticipato, piuttosto che tristezza. Allora ho aperto un libro. Ho osservato a lungo persone che avevo intorno, l’affetto nelle mani, l’amore negli occhi, la solitudine nei passi e i sorrisi rivolti al sole. Non so come tutto ciò si legava al libro che leggevo o come quest’ultimo tirasse fuori da ogni immagine proprio ciò di cui avevo bisogno. E’ come se qualche volta dei libri non capitino tra le mani per caso. Hanno con sé risposte, spunti, idee nuove, idee che si collegano alle tue e le ampliano, le abbelliscono. Mi sono trovata in un turbinio di parole e sogni notturni, strette di mano e sguardi che superavano distanze di gran lunga maggiori di quanto sembrasse. Come quelle che per tanto tempo ho guardato, analizzato e combattuto per niente. E’ stato diverso e meno coinvolgente, ma affascinante come pochissime altre cose di cui sono stata circondata negli ultimi mesi.
  Sono i viaggi a finire, come i rapporti, ma l’amore siede accanto a te al ritorno e saltella tra foto e cartoline memorizzando dettagli, luci e proiettandosi a sua volta su cose ancora non dette, ancora non viste. Sento la testa piena di un mucchio di cose nuove adesso, frasi iniziate e da finire, pezzi di idee che aspettano di essere seguite. E’ un nuovo punto di partenza questo, un fermento, uno slancio in cui spero di trasformarmi, per viaggiare ancora.

 

L’Ultimo Pezzo

Era l’ultimo pezzo del puzzle e rigirandolo tra le mani ho capito che in realtà serviva a smontarlo. Togliendo un pezzo dopo l’altro ne ho capito finalmente il senso. Ho guardato bene tra gli incastri, ho visto di cosa erano fatti. Credevo che se l’avessi fatto sarei finita io in pezzi, invece già lo ero e non me ne ero accorta.
La tristezza è più egoista della felicità e io nemmeno ho provato a rimetterla al suo posto. Non so perché, è una cosa che non riesco a spiegare. Non ho saputo dare risposte a chi me l’ha chiesto, a me stessa. Mi sono sentita come arresa. E’ uno stato d’animo che prevale, va perfino oltre ciò che l’ha provocato. Se ad un sentimento vien chiesto di tornarsene indietro quello non è che capisce bene subito. Resta un po’ in silenzio, prova a riflettere, rimbalza contro il sole e le foglie, vetri e parole, impazzendo. Balbetta qualcosa che non capisce neanche lui e la prima cosa di cui è certo è che si sente in colpa, ma inutilmente. Ospite inatteso di un cuore che non lo stava per niente aspettando è andato via in punta di piedi per paura che qualsiasi altro rumore avrebbe ferito lui stesso. Credo che questa sia la distinzione tra il provare davvero amore per qualcuno e il correre impazzita nel cortile come un’oca alla quale hanno tirato le piume. Temo sia soltanto, però, il mio personalissimo modo di rispettare me, le persone che ho amato e i sentimenti stessi di conseguenza.
Le persone si comportano diversamente da come ci si aspetta perché non le si conosce affatto ed è un qualcosa da accettare e non soffrire. Le prese in giro tendono ad autodistruggersi senza nemmeno toccarle. Per i puzzle serve che ci si impegni invece. E’ quello che sto facendo e da un po’ la tristezza è quasi del tutto rientrata negli argini e scorre nel suo alveo così come è giusto che sia, ma senza invadere più i miei sogni e i miei desideri.

“… Una volta in un altro tempo
prima di sapere che questa fosse la mia vita
prima che lasciassi la bambina dietro di me
ho rivisto me stessa in notti d’estate
e le stelle si accendevano come luci di candele
ho espresso il mio desiderio, ma soprattutto ci ho creduto …
E  linee gialle e segni di pneumatici
pelle baciata dal sole e manubri
lì dove mi trovavo era proprio dove dovevo essere.
Una volta in un altro tempo
decisi non ci fosse nulla di buono nel morire
e che avrei soltanto continuato a guidare
perché ero libera.”


[Once Upon Another Time – Sara Bareilles]

Lettera, A Proposito Di Fiocchi Di Neve

First_Snow_by_thienbao

Ti sei mai innamorata di un fiocco di neve? Se si, sai cosa significa sentire il cuore perfettamente lucido e la testa incosciente. Incosciente nel senso di sconsiderata. Viva, scattante, entusiasta, ma sconsiderata. Allora sai anche come funziona più o meno. E’ pur sempre un fiocco di neve. Viene giù svolazzando tra gli altri, ma più luminoso, più elegante, diverso, speciale. Curva sui tuoi capelli per sfiorarti la punta del naso e arriva leggero tra le tue mani. Al contatto si scioglie. Anche se sei rimasta al freddo ad aspettarlo le mani sono comunque più calde. Fossi stata tu lì, o un’altra o altre dieci persone, non avrebbe fatto differenza. Sarebbe accaduto lo stesso. E’ nella sua natura di fiocco di neve. Appare dal nulla, originale e unico e poi va a confondersi nella massa dove finiscono tutti, una volta concluso il proprio volo. Impossibile distinguerlo più, in tutto quel bianco. Converrai con me che è difficile dire cosa sia giusto e cos’altro sbagliato. E’ giusto forse amare, soffrire o giudicare? E’ più sbagliato credere, lo è un po’ meno dimenticare?
Ricordi cosa mi disse quel tipo al telefono una volta? L’importante è che il film sia finito e che tutti siano usciti più o meno soddisfatti dal cinema. Mi arrabbiai da morire, ne parlai a lungo. Scaricò dalle proprie spalle ogni viltà e la responsabilità dell’essere stato un pessimo attore. O molto bravo forse. Dipende, perchè si tende ad odiare chi si comporta male nel film senza pensare che quella è esattamente la reazione che importava suscitare. Come se l’eroe, il protagonista sia poi necessariamente uno stinco di santo per davvero.

Cos’è che importa allora? L’illusione o più la disillusione magari, che in fondo è solo l’illudersi d’altro?

Ad esempio, guardando un film coinvolgente, ti capita mai di piangere? Di lasciare entrare la storia a tal punto dentro te da prenderti ed emozionarti tanto? Quelle lacrime ti sembrano meno vere, soltanto perché si tratta di un film? Io penso di no. E dunque che fai allora, dai la colpa agli attori? Quelli sono andati a casa già da un pezzo, a fare i fatti loro. A te è rimasto il cuore stretto in una morsa invece. Biasimi te stessa? Li maledici, gli scrivi una bella lettera Ah grazie tante e adesso del mio cuore a pezzi cosa ne faccio secondo voi? 

Forse alla fine quel che conta è ciò che siamo dentro e cosa siamo in grado di dare. Ciò che è nella nostra natura.

Come lo è in quella di un fiocco di neve sparire per sempre.

Credo che cercherò di scaldarmi le mani adesso, con i ricordi più belli.

[picture: First Snow by thienbao, Deviantart]

What If You Fly … ?

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Ho provato a capire, e ho capito solo che avrei dovuto ancora sopportare. Ho provato a parlare, ma le mie parole si sono rese conto di andare incontro ad altre che credevano già di sapere, invece che ascoltare. Dicesi giudicare. Ho provato a difendermi e la tempesta allora ha alzato di più la voce e ho chiuso di nuovo gli occhi mentre mi bagnava il viso. Ho provato a scappare, ma mi avevano già vista. Figurarsi il tentativo di nascondermi come è andato. Poi ho capito che i sorrisi non possono che nascere da dentro se stessi. E che bisogna prendersene cura. Con calma, per conto proprio. Perché appunto, se proprio si tratta di scegliere allora preferisco volare.