Nuvole di vapore.

Nina aspira aria dal cilindretto di metallo rosa e dalle labbra schiuse fuoriesce del vapore che sa di fragole, mandorle e vaniglia.
Le avevano detto di non lasciarlo andare subito, ma non capisce come. Riprova, aspira di nuovo, ma questa volta chiude la bocca. Quando la riapre il vapore che esce è pochissimo.

Nina guarda il cilindretto perplessa. Non ha mai capito cosa provano le persone che fumano. A lei quel fumo chiude le narici, disturba. Qualche volta è stata investita da altri fumi che poi ha saputo essere vapori, di diversi aromi, non sempre gradevoli. Tuttavia Nina è sempre stata attratta da quei gruppetti di fumatori che si appartano in ogni luogo. Quelle persone che interrompono una conversazione per accendersi una sigaretta sul balcone, i colleghi che escono dall’ufficio per fumare all’aperto, i clienti di un centro commerciale che sfidano il freddo sulla terrazzina dietro alla porta antipanico. In qualche modo nonostante le avessero inculcato che il fumo fa male, le invidiava. Si era sempre chiesta cosa avessero in comune. La maggior parte delle volte si trattava di sconosciuti che però in qualche modo sembrava si fossero dati un appuntamento preciso, come se l’ansia, l’inquietudine possano essere sincrone in persone che non si sono mai viste prima, e per motivi diversi.

In ufficio Nina aveva notato che i colleghi fumatori avevano come dei permessi speciali per prendersi più pause. Lei era riuscita a seguirli al massimo due volte, per i soli due caffé della sua giornata. In un paio di occasioni si era unita al gruppo con la scusa di prendere un po’ d’aria, ma si era rivelata una cattiva idea perché l’aria era la loro, molto poco piacevole da respirare cercando di mantenere anche una distanza che permettesse brevi conversazioni. Chi non fuma come scarica lo stress? Troppi caffè non sono il caso, il cibo la farebbe ingrassare, le caramelle senza zucchero dopo la seconda ci si stufa.

Nina aspira di nuovo dal cilindretto, è una sigaretta elettronica usa e getta. La prima gliel’aveva mostrata un’amica, ne aveva parlato molto bene, ha un ottimo sapore dolce e fresco. Una sera dopo lavoro Nina si era recata dal tabaccaio con la coda tra le gambe come se stesse per commettere un delitto imperdonabile. Era troppo curiosa di provarne una. Dalle varie descrizioni lette aveva scelto l’aroma che somigliava a quello di una torta.

Questa volta modula il respiro per far uscire il vapore lentamente. Nina alza lo sguardo e si perde ad osservare i volteggi delle lingue di vapore che salgono e svaniscono o i ghirigori che ruotano in senso antiorario in giri sempre più stretti. Al tiro successivo il vapore esce tutto insieme in una nebbia fitta. Nina si rilassa tra quelle nuvolette effimere che sembrano portarsi via qualcosa dalla sua mente affollata. Le vengono in mente le curanderas ecuadoriane che puliscono le persone dalle energie negative soffiando fumo di tabacco su tutto il corpo e ripetendo litanie in lingue antiche.

Piano piano capisce come respirare quel vapore che sembra dare alla testa una piacevole sensazione di leggerezza. Lo posa sulla scrivania, per oggi basta. Nina sorride pensando che con quel cilindretto tra le dita potrebbe avere accesso a quelle misteriose riunioni di sconosciuti, ma non riesce ad immaginare le sue nuvolette mischiarsi con quelle degli altri, le sue lingue di vapore arrotolarsi con fumi estranei, fare a botte per conquistarsi spazio per salire ed evaporare in santa pace. Annuisce gelosa dei suoi sbuffi di vapore, come se nel loro volteggiare potessero raccontare storie che vuole tenere solo per sé.

Candele e mongolfiere.

Il fatto è che sono un segno di aria, una Bilancia. Il segno della diplomazia, dell’armonia, che ricerca giustizia e bellezza nel mondo. Come se non bastasse, sono ascendente Leone, un segno di fuoco, che si contraddistingue per il coraggio, la sicurezza e una vanità infinita. Quindi se la giornata è buona il fuoco riscalda l’aria e come una mongolfiera elegante e imponente riesco a volare verso orizzonti infiniti, se va male mi capita qualcosa come vedere la fiamma di una candela platealmente spenta dall’aria che si fa agitata e resto al buio, a cercare a tentoni una torcia nell’anima.

Il secondo piano della Asl era completamente vuoto, ma sentivo dei rumori. Il dottor P sta al secondo piano, vada a vedere, mi aveva detto la guardia giurata sulle scale in assetto da combattimento, camicia fuori dai pantaloni, sudore percettibile, mani in avanti pronte a respingere gli attacchi di anziani esasperati. A vedere cosa, mi dico. Qui non c’è nessuno. Decido di seguire i rumori. Nell’ultima stanza trovo un uomo intento a fare pulizie. In genere mi spaventa rivolgere la parola a chiunque lì dentro: l’Asl della mia cittadina è come una sorta di castello stregato avvolto in una nebbia di rabbia, arroganza e strafottenza e tutti ne sembrano soggiogati e alla fine riescono ad intossicare anche te. Ehm buonasera, sto cercando il dottor P, sa se è arrivato? domando con voce sorridente che non so da dove mi esce dal momento che sono ansiosissima. L’uomo si gira verso di me. Spalle curve, pelato, occhi azzurri di cui uno soltanto sembra puntare nella mia direzione. Questo qui mi manda a quel paese, ho pensato. Stava per concludersi il conto alla rovescia nella mia testa quando posa il detergente spray nel carrellino, mi si avvicina e a mezza voce mi dice no, non ancora. Ma ho appena fatto la sua stanza con il tono di chi invece pensa di aver pronunciato qualcosa del tipo da un grande potere deriva una grande responsabilità. Mi dice di seguirlo. Gli sorrido da sotto alla mascherina riconoscente e pronunciando un grazie più allegro di quanto io lo sia in realtà.

Carte, burocrazie, mi mettono ansia. Non c’è nulla di preciso, controllabile, affidabile. Entra nella stanza del dottor P, ancora vuota. Nota che aveva dimenticato qualcosa e mormora che ha fatto bene a tornare. Mi mostra le sedie fuori in corridoio, dice che la gente in genere aspetta lì. Decido di restare in piedi, ho il terrore mi si attacchi addosso quella nebbia mangia emozioni. Dal foglio affisso fuori alla porta con gli orari per il disbrigo delle pratiche noto che sono cinque minuti in anticipo. Lo smartwatch ci tiene a confermarmi che sono agitata con una specie di misuratore di stress. Mi guardo i piedi nei sandali poco alti di cuoio marrone chiaro. Devo somigliare ad una tedesca in vacanza, con i pantaloni grigio chiaro alla caviglia, la camicetta color verde acqua, zainetto e occhiali da sole pure loro vintage come le scarpe. L’uomo esce dalla stanza e fa per allontanarsi quando arriva quello che sembra il dottore. Un tipo alto, capelli bianchi, rasato. L’uomo me lo indica, eccolo è lui e lo segue nella sua stanza a parlare di non so che. Nel frattempo arriva una donna, alta, abbronzata, capelli corti, chiede all’uomo se è possibile aprire i bagni, sembra una dottoressa anche lei. Mi passa davanti senza nemmeno guardarmi. L’uomo si mette a disposizione, prende le chiavi e la fa entrare, poi si gira verso di me e abbassandosi la mascherina mi fa una smorfia che vuol dire è una pesantona, mammamia. Io stavolta ridacchio davvero, non stento a crederlo dai modi e quando mi passa davanti per andare via lo ringrazio e credo non solo per le indicazioni.

Osservo il dottore che si mette il camice e con una lentezza infinita sistema le sue cose per prepararsi a ricevere i pazienti. Cioè me, perché non c’è nessun altro. Nell’attesa mi guardo intorno. Mi rendo conto che la battaglia tra la candela e la mongolfiera sta andando a favore della seconda. Raddrizzo la schiena, sistemo gli occhiali sulla testa. Scrollo un po’ di ansia dalle spalle. Temo un no signorina, non è possibile, non posso aiutarla. Eppure sento un vento che si alza e inizia a farmi staccare un po’ da terra. Fingo per un attimo che in quel camice ci siano altri volti più gentili e sorrido. Immagino i muri tetri che in un racconto potrebbero fare da metafora a qualche stato d’animo e diventare del tutto innocui. Il dottore mi fa cenno di entrare.
Quando vado via scendo le scale veloce, contenta di aver fatto in fretta e con la speranza di non aver perso solo tempo. Sento un piccolo vuoto d’aria nel petto, esco sulla strada. Capita mi dico, quando la paura è più alta dell’ostacolo tanto da coprirlo del tutto e nasconderne l’entità e ci si lancia a saltare da un po’ troppo in alto.

Storie di Viaggi e Sopravvivenza

Un breve post per parlare di una raccolta di racconti brevi edita da Opera Indomita, un progetto di scrittura senza scopo di lucro che negli ultimi tempi ha organizzato diverse raccolte a vario tema.
Questa volta ho partecipato anche io, il tema permetteva di raccontare la storia di un viaggio in qualche modo disagiato, prendendo spunto dal fatto che le ferrovie qui dalle nostre parti non sono esattamente efficienti, ma allargandosi a qualsiasi mezzo di trasporto e tipo di viaggio.
Io non potevo non raccontare delle mattine assonnate in cui partivo alla volta dell’Università, sperando di arrivarci in orario e di quella volta che qualcuno rapì l’attenzione di un vagone intero per dire qualcosa di semplice ma estremamente efficace per rimettere in qualche modo pace tra me e le lancette dell’orologio.

Il libro si trova al seguente link: STORIE DI VIAGGI E SOPRAVVIVENZA: (fuori e dentro di noi)

Stanno per partire nuove raccolte e cercherò di tenervi aggiornati, tutti possono partecipare 🙂

Insomma è un modo di far rete tra persone che amano scrivere e coltivare insieme questa passione.

La Notte di Natale

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Prima parte, La Notte di Halloween.

Ho fame. Ho le dita congelate. E questa dannata serratura si è bloccata.
Si sta facendo buio ed è saltata la luce. Mi guardo intorno per cercare qualcosa in camera mia che possa aiutarmi. Mannaggia tutto.
Prendo il cacciavite dal cassetto della scrivania e inizio a smontare la serratura. Sono entrata qui per incartare un po’ di regali di nascosto. Tra poco sarà la Mezzanotte. Questa porta raramente viene chiusa a chiave. Forse per questo si è bloccata. Butto un occhio al balcone. La luce naturale scarseggia. Non ricordo come fosse il tempo fuori quando sono entrata, ma adesso l’aria sembra spessa e bianca. Ho provato a chiamare aiuto quando ho scoperto di esser rimasta chiusa in camera mia, ma nessuno mi ha risposto. Non è possibile che non mi abbiano sentita. Quando la corrente elettrica è andata via è calato il silenzio. Porca miseria. Ho freddo e non riesco a fare forza, lo scrocco è a forma di uncino e si è incastrato. Tiro un calcio alla porta. Provo a bussare e a chiamare di nuovo. Solo il vento tenta una timida risposta.
Mi avvicino al balcone. Le lucine blu e rosse che decorano i balconi del palazzo di fronte sono sfocate. Vado a cercare il telefonino. Nessun messaggio. Per un attimo mi manca il respiro quando mi rendo conto che questa Vigilia lui non scriverà. Mi guardo intorno, ma stavolta cerco con gli occhi un appiglio. Non è colpa mia. In fondo non ci ha messo molto a dimenticarmi. Tra il poco e il niente, voleva che scegliessi per il niente, è evidente. Non posso vacillare adesso. Mi siedo sul ciglio del letto. Gli occhi finiscono di nuovo sulle luci di Natale oltre i vetri appannati della mia stanza. Le imploro di restare lì. Di non andarsene. Almeno loro. Solo un momento, ancora. Finisco automaticamente tra i messaggi di un anno fa. Questo però è rimasto senza mittente.
“C’era qualcosa che volevi stasera. Se ti sbrighi sei ancora in tempo. La notte è appena iniziata”. Qualsiasi persona sana di mente seguirebbe le indicazioni provenienti da messaggi anonimi ricevuti durante la notte di Halloween, come no. Non ricordo nulla di quella notte, solo che presi ad inseguire risate di bambini nella nebbia. Mi risvegliai il giorno dopo nel mio letto. Sul telefono trovai un suo buongiorno. È ancora lì. Era il suo solito modo di rispondere senza rispondere. Sbuffai, ma un calore piacevole come al solito si diffuse dalla mano al cuore. Eppure, chissà, quella volta svanì in fretta. Un po’ come la paura di guardare attraverso la nebbia. Il vento annuisce lasciando oscillare le luci sfocate. Mi alzo. Torno velocemente verso la porta. Tiro forte. La porta si apre. L’albero di Natale in corridoio è acceso. Sento rumori di bicchieri, risate, profumi dolci, una luce calda abbraccia tutto il salone. Questa volta penso che la ricorderò, la magia.

La Notte di Halloween

“E dai lo sai che ti amo”
Stavolta digito in fretta.
“Dici davvero?”
Il telefono resta muto in un tempo sospeso che ormai mi è familiare. Un giorno di questi farò finire tutto questo, penso. La fiamma della candela che abita nella zucca ha un guizzo. Hai ragione. Lo dico e non lo faccio. Tanto s’è capito, spetta a me uccidere questa speranza. Ogni volta questo pensiero abbassa di un tono tutti i colori del mondo, anche se adesso il Sole sta lanciando l’ultimo raggio, il più rosso di tutti prima di sparire nella notte. Ne approfitto per posizionare la zucca sul balcone, cerco un punto che la renda visibile dalla strada. Butto uno sguardo sugli altri balconi e sembra che neanche quest’anno ce ne siano altre. Insomma perché nessuno sente questa magia? La fine dell’estate, la Natura che si addormenta e quel confine che si assottiglia tra questo mondo e l’altro. Come ogni anno mi chiedo come sia festeggiare davvero Halloween, ma alla fine mi limito a lanciare uno sguardo implorante alla mia zucca. Per una volta vorrei davvero provare la magia. Mi stringo nel cardigan, l’umidità diventa troppa per me. Rientro in casa e vado in camera mia. Ho lasciato il PC acceso. Mi siedo alla scrivania per spegnerlo, ma mi fermo a valutare se magari può servirmi per mettere su qualche film di Tim Burton. Percorro con lo sguardo la sagoma nera delle montagne che si staglia su un cielo notturno pieno di stelle d’argento che occupa la maggior parte dello schermo. Il telefono vibra.
“Cercami al confine”.
Il numero non lo conosco. Leggo il messaggio più volte. Cercami… al confine. Confine? Quale confine? E poi chi dovrei cercare? Lui è in linea. Sarà una di quelle frasi che butta lì senza un prima e soprattutto senza un dopo solo allo scopo di suscitare in me una reazione qualsiasi. Si ma perché avrebbe dovuto scrivermi da un altro numero? Ma no, sarebbe troppo un rebus. Di sicuro qualcuno ha sbagliato numero. Torno sulla linea netta che definisce la morfologia delle montagne sul mio PC. Mentre lavoro alle volte provo ad immaginare cosa ci sia oltre. L’idea che ha sempre la meglio sulle altre è che proteggano un paesino, totalmente nascosto dalla loro maestosità. Sento di nuovo vibrare.
“L’hai toccato con gli occhi, sfiorato con la mente. Adesso sono qui, ti aspetto”
Io ho toccato… Cosa? Adesso basta però.
“Scusa, hai sbagliato numero.” Invio. Ecco qua. Lascio di nuovo il PC ad aspettarmi e vado a dare uno sguardo alla zucca. Quante volte mi è capitato di trovarla spenta per una folata di vento improvvisa. Ormai si è fatto buio e caspita, l’umidità è diventata una nebbiolina bassa che offusca la luce dei lampioni in strada. Da queste parti se ne vede solo in inverno già inoltrato. Sorrido, in fondo la nebbia ad Halloween è come la neve alla Vigilia di Natale. La zucca è ben illuminata. Il cielo oltre i palazzi di fronte è sereno e ci sono un mucchio di stelle, più del solito.
“Dai che lo sai chi sono. Smettila di far finta di nulla. Hai fatto una domanda e io qui ho la risposta”
Mi passo tra le mani il telefono come se scottasse. Lui è offline. Ha deciso di farmi definitivamente impazzire? Può essere? L’unica domanda che ho fatto… Insomma, si, ma… Non ha senso. Perché non mi scrive dal suo numero? Ha il telefono scarico? Rileggo i messaggi precedenti. Un confine… Che avrei toccato, immaginato. Beh, nella nostra storia c’è molto di immaginato, su questo non c’è dubbio. Suona il campanello. Sussulto. Arrivo alla porta in punta di piedi e guardo nello spioncino. Ci sono una strega e un vampiro in miniatura. Che stupida, ma dai sono i soliti bambini. Qui nessuno festeggia però i cioccolatini gratis vengono a prenderseli.
-Che belli i vostri costumi! Da dove venite bimbi?
-Da un paesino, lì più avanti dopo le montagne.- Metto un po’ di cioccolatini nelle loro bustine.
-Ah ah. Si… Le montagne. Forse intendet… – non finisco la frase che sono giù di corsa per le scale verso altri appartamenti. Chiudo la porta e faccio un respiro profondo. Che stavo facendo? Ah si, i messaggi. Anche volendo stare al gioco non capisco di che parla. Sono finiti i tempi delle mille congetture, del rimurginare. Basta. Decido che non farò proprio niente a riguardo. Torno al PC, vada per il film. Clicco subito sull’icona di Netflix, non so perché ma voglio coprire in fretta quelle montagne. Inizio ad inserire qualche parola chiave nella barra di ricerca e scorro i risultati. Il telefono vibra ancora.
“Mi ignori, ma sei tu che hai iniziato. C’era qualcosa che volevi stasera. Se ti sbrighi sei ancora in tempo. La notte è appena iniziata”
Fisso quelle parole per qualche minuto. Le domande smettono di affollare la mia mente. Se desideri una cosa poi devi anche riconoscerla quando ce l’hai davanti. E non sempre ci riusciamo. Il cielo, le stelle. I bambini. Devono essere ancora in giro. Forse se mi sbrigo… Infilo gli stivaletti e mi avvolgo in una sciarpa. Metto il telefono in tasca e scendo. La nebbia confonde i dintorni del mio palazzo già dopo il portico appena fuori il portone di ingresso. Distinguo delle figure che corrono dall’altro lato della strada, il movimento accompagnato da risate di bambini. Non ci vedo molto ma cerco di seguirli.
“Eccoti finalmente”.

La pasticceria

foto personale

“Sono rimasta nel traffico. Cazzo è tutto bloccato stasera! Va beh dai, sto arrivando.”

Ho messo le scarpe sbagliate oggi. Non sono adatte per aspettare in piedi, per strada, sui sanpietrini. E tira un vento che porcamiseria, non ho messo la sciarpa e nemmeno il cappello, domenica c’era la primavera, l’avete-vista-anche-voi, vero? E non so che fare adesso. Penso che potrei fare shopping. Entro in un negozio di abbigliamento. Mi sento troppo scocciata perfino per chiedere alla commessa il prezzo di quella giacca. Esco.

Ma si, quella pasticceria all’angolo. C’ha pure i posti a sedere. E’ proprio carina, ti metti lì, ti rilassi e poisaihovishiauialaosh.. La voce nella mia memoria si affievolisce. Non ricordo né dove l’ho sentita né da chi. Il vento continua a tirarmi giù dalla testa il cappuccio del cappotto. Attraverso la strada illuminata dalle luci gialle, bianche e rosse delle auto e proseguo sulla destra fino alla pasticceria. Mi affaccio dentro per vedere se ci sono posti liberi. La signora alla cassa mi invita ad entrare indicandomi l’ultimo tavolino in fondo. Mi siedo sulla poltroncina di pelle grigia chiara davanti ad un tavolino rettangolare che parte direttamente dal muro sotto la finestra alla mia sinistra. Le tende rosse sono raccolte ai lati della finestra e un pilastro dietro la poltroncina di fronte alla mia mi nasconde dal resto del locale. Dal mio posto posso sbirciare la vetrina lunghissima piena di dolci di tutti i tipi e buttare un occhio sulla strada da dietro al vetro che inizia a puntinarsi di gocce d’acqua microscopiche.

Non ho fame e ordino una tisana di un arancio carico che sa di mela, carota e zenzero. E poi, forse, devo essermi suggestionata come un’Alice che legge messaggi su bottiglie e su dolcetti dopo essere finita in una casetta cadendo in un pozzo profondissimo, mentre osservo invece sul talloncino alla fine della bustina della mia tisana la scritta Emozionami.

Pochi minuti e ho dimenticato il vento e il tempo e il vuoto che mi zavorra. Caspita, queste scarpe mi danno un’aria così sofisticata. Che belle le luci della città. Mi trovo in tutti i posti del mondo in un istante. Sono nell’Orient Express che sfreccia veloce di notte chissà attraverso quali terre, in un bar di Londra pieno di persone tutte sole e tutte parte comunque di qualcosa, in un caldo pub in Belgio e anche nel cuore di Napoli, ricordi quel posto? Dicemmo che ci saremmo tornate. E ovunque sto buttando giù idee su fazzoletti di carta con una penna trovata nella mia borsetta. Idee che diventeranno un racconto o magari un romanzo. E sono bella e forte e so stare con chiunque, se capita, altrimenti mi lascio cullare da una calda e sottile malinconia. Riesco a fare quello che mi piace e a non sentirmi in debito con la mia felicità quando faccio invece ciò che devo. Sto bene. Sto così bene.

“Ehi sono quasi arrivata”

L’ultimo sorso di tisana è freddo. Mi alzo, riprendo la borsa e lo zaino, pago ed esco. Una signora mi viene addosso mentre lotto con il vento per rimettermi il cappuccio. Scorgo da lontano le frecce d’emergenza e l’auto accostata al marciapiede. Il sogno si è infiltrato nelle trame della mia realtà e la città sembra più bella anche senza più quel vetro davanti.

Il gioco di Cristina

Cristina prende dalla borsa della mamma un cagnolino di peluche e una pallina di gomma trasparente, puntinata solo di brillantini colorati che riflettono in modo diverso la luce facendole assumere ogni istante sfumature diverse. Dalla pallina parte un filo che Cristina lega ad una delle zampine del peluche. Con una mano prende cane, con l’altra tiene il filo della pallina, perché ad una prima verifica non sembra poi attaccato così bene. Cane si sposta volando, portando con sè la pallina tra il divanetto del salone del parrucchiere e la sedia vuota davanti al primo specchio sulla sinistra. È elegante e sembra non accusare il peso della zavorra che si porta dietro. Sarà grazie ai movimenti graziosi di Cristina, penso. 
Ha gli occhi all’ingiù e timidi simili ai miei, ma sono marroni. I suoi capelli sono raccolti in una coda, come i miei, ma i suoi sono dorati e ricci. Lancia uno sguardo a sua mamma: sembra che ne avrà ancora per un po’. Si stropiccia gli occhi. Prende cane e pallina e torna con loro a poggiarsi sul divanetto di fianco a me che aspetto il mio turno seduta. Mi elegge a spettatrice delle sue piccole avventure guardando le mie reazioni. La sua leggerezza mi contagia e le sorrido. Cerco l’espressione del viso più appropiata alle diverse fasi della storia che inventa a braccio. Cristina diventa pian piano padrona del piccolo mondo fantastico che va dal divanetto alla sedia vuota e in pochi minuti ne sono già fuori. Ridacchia da sola ai risvolti buffi delle vicende che lei stessa sta inventando.

Ne resto ammirata. Un tempo sentivo una sicurezza simile alla sua, ma la mia forse era un po’ meno elegante. Concedevo pochi baci e pochi sorrisi. Il mio mondo fantastico si adattava a tutti gli ambienti e poco se ne faceva della quantità e della qualità del pubblico presente. Anzi. 

Il buio è subdolo. Insomma, dipende dall’interpretazione che ne fai. Se lo prendi così com’è allora inizi a credere di dover imparare in qualche modo a volare, con una zavorra attaccata ad una caviglia in un posto che non ha né cielo né terra ma solo vuoti così incolmabili che rischi di implodere in te stessa e speri che avvenga pure in fretta prima che qualcuno ti sorprenda a piangere durante l’orario di lavoro. 

Se disegni una linea, una soltanto, e ne fai il confine tra ciò che esiste e ciò che no, allora ti ci metti su e speri che qualcuno ti sorrida un po’ e che continui a guardarti e ad ascoltarti mentre progetti, disegni, cancelli e riscrivi pezzi di te e della tua realtà ovviamente dal lato giusto di quella linea. Pallina è caduta giù dal divanetto e cane sta cercando di tirarla su con la corda. Sembra un momento difficile.

A volte si pensa erroneamente che nel momento in cui si avrà qualcuno al proprio fianco allora tutto sarà più facile. Le relazioni però non sono idee pure e perfette. Impossibile trovare qualcuno che non ti faccia sentire sola almeno una volta, anche se accade per sbaglio e non si può passare la vita a condannare, distruggere e ricostruire legami e fiducie nel genere umano. Una relazione non è un’assicurazione a vita sul bisogno d’affetto.  

Tuttavia non credo si possa vivere in qualche modo prescindendo da ogni idea di perfezione, come può esserlo l’amore, l’armonia e anche il buio stesso, pur facendo il nostro gioco, da soli, sia che qualcuno ci guardi e ci apprezzi, sia che scelga di restare a giocare per poco o molto tempo con i suoi giochi nel nostro spazio, sia che alzando lo sguardo ci accorgiamo che no, ormai non è rimasto più nessuno a guardare.

Le bugie delle verità

illusione inganno distanza realtà

Delle sale d’aspetto dei medici non sopporto quelle riviste lasciate lì sui tavolini mezze sgualcite, con le pagine mancanti e risalenti a mesi e mesi fa. Sembrano un inganno.

Insomma, tu sei lì certamente non per rilassarti. Perché dovrebbe interessarti il colore del vestito che la Regina Elisabetta ha indossato in questa o quell’altra occasione mentre sei lì che ti aspetta la siringa dell’anestesia alle gengive che no, per quel dente non c’è più nulla da fare e ti fa un male cane e deve essere tolto al più presto?

Approfondimenti politici, tagli di capelli dello scorso autunno-inverno, cara posta del cuore, mio marito non mi guarda più, cosa posso fare, la ricetta del pollo al curry con riso basmati che tu rifarai senza curry e senza riso basmati perché non hai tempo di passare al supermercato a comprarli.

-Guarda, qui c’è notizia di TAC con turbo. Capisci? Tu con questa tumore … booom-

Osservo la signora bionda mentre accompagna con movimenti della testa quell’ultima parola. Poi però mi accorgo che di fondo la muove involontariamente a causa di qualche tic. Non capisco bene cosa intende, ma annuisco.

In quella sala d’aspetto oltre alle riviste ci sono dei poster dei luoghi più belli della costa campana. Decisamente lontani in molti sensi. Dalla percezione dell’inganno la mia mente passa direttamente a quella della presa in giro. Lì, al piano meno uno, alla fine di un corridoio che sembra il set di un thriller, illuminato a tratti da luci al neon e sulle cui pareti corrono tubi di diverse dimensioni che portano acqua, gas e corrente al resto dell’edificio ospedaliero, cercano di farti pensare al mare e al sole e al vento che ti mette i capelli in disordine e alle barche da fotografare e pubblicare su Instagram dopo aver applicato un filtro che ne esalti fortemente i colori.

Eppure l’ambulatorio della radioterapia è uno dei pochi posti al mondo nel quale le bugie che ci si racconta sulla vita e sul mondo stesso vengono vergognosamente messe a nudo. Ti rendi conto, lì sotto, di tutte le illusioni nelle quali hai vissuto fino a quel momento. Finiscono distrutte, sì, anche se non prima di aver lottato.

Avvengono delle vere e proprie battaglie di sguardi tra tutti quelli che sono lì ad aspettare. Ho cercato di nascondere il mio ovunque, ma è come se ci fosse una legge non scritta che obbliga prima o poi a guardare negli occhi una o più persone vicine a sé. Mi volto verso la persona che ho accompagnato e capisco che ha dovuto cedere anche lei, nonostante io sia riuscita lo stesso a notare la presenza di quella barriera che alza di solito quando decide che di sé a tutti gli altri non racconterà proprio un bel niente.

La signora bionda ad un tratto inizia a piangere. -Terza volta… Dottore dice… Ancora-.
Una donna molto abbronzata elabora il momento molto più in fretta di chiunque altro e le risponde cercando di consolarla e chiedendole qualche dettaglio in più. Mentre la signora bionda cerca di spiegarsi in una lingua non sua, io non riesco a fare a meno di notare che ha scelto di sedersi lontana da tutti.

Gli occhi e le orecchie sono le uniche parti di me che riescono a superare quella distanza imposta. Insomma, si trova laggiù eppure ha attirato l’attenzione di tutti lo stesso. Mi sento come incastrata e la osservo frustrata come si fa con le nuvole a cui non puoi impedire di esplodere di pioggia perché non puoi in nessun modo raggiungerle.

Da lì in poi le maschere iniziano a cadere, una ad una. La signora anziana alla mia destra parla del motivo per cui si trova lì. Sua figlia e suo genero completano il racconto con informazioni sulle loro vite che sembrano importanti quanto le cose scritte nelle riviste. Pian piano la testa si riempie di immagini e di domande sulle loro vite e sulle loro scelte.

La magia dell’illusione si compie, inesorabile, da sola, una volta ancora.

La sorpresa è rinascere adesso

rinascere amore donna vita

Alzo lo sguardo sui palazzi che formano il parco in cui abito, dal cortile interno. Mi fermo prima di rientrare, il sacchetto dell’umido l’ho già lasciato tra gli altri fuori al cancello. Dovrebbe essere primavera, ma con felpa e cappotto ancora non sento troppo caldo. L’aria è rilassata. In ogni casa i festeggiamenti pasquali si saranno ormai conclusi. Qualche persiana è chiusa, da qualche altro balcone invece si intravedono ancora luci accese. Soltanto dall’appartamento con terrazzo alla mia destra si sentono ancora degli auguri seguiti da vociare e tintinnii. I bambini staranno inventando giochi con le sorprese più o meno utili trovate nelle uova di cioccolata. Mi chiedo cosa stiano facendo tutti gli altri. Gli adulti. Qualcuno forse chiacchiera con ospiti che ancora non sono andati via, qualcun altro sonnecchia sul divano facendo finta di guardare la tv.

E mi chiedo, chissà come è andata. Se questa Pasqua è stata quella che volevano, sempre che se la aspettassero in un modo in particolare. Sempre che abbiano ancora qualche aspettativa e non vivino nella nostalgia di ciò che non sarà più. Chissà se invece qualcuno si è lasciato una vita alle spalle e quest’anno ha festeggiato in un modo diverso ma speciale lo stesso.

Mi vengono le vertigini se penso a tutte quelle cartoline virtuali, le emoticon di pulcini, fiori e baci  fluite a velocità inimmaginabili da uno smartphone all’altro questa mattina, rispetto all’aria così immobile che c’è adesso. Il virtuale dava forma e colore a pensieri astratti, mentre qualcuno si sistemava la cravatta allo specchio prima di scendere per recarsi in chiesa, altri seguivano la messa alla tv approfittando delle preghiere recitate in latino per distrarsi e andare a controllare il ragù che pippiava sul fuoco.

Mi sono chiesta quanti gesti ripetiamo uguali, ogni anno, solo per fingere che non sia cambiato niente. Quanti ne ho fatti, io stessa, che mi sono accorta che era quasi Pasqua soltanto tre giorni fa.

Tutta questa storia della morte e della Resurrezione che senso ha oggi che tutti ormai sappiamo che chi resta soffre più di chi va via? Quante volte la vita fa più male della morte? Chi se ne frega di ciò che sarà dopo se già adesso abbiamo paura anche solo delle nostre stesse tradizioni che hanno sapori diversi perchè il tempo è cambiato e le persone pure e rischiamo di soffrire da un momento all’altro per un ricordo ribelle che sfugge al controllo e va ad infastidire le emozioni che stanno per mettersi a tavola con noi?

Ho alzato ancora di più lo sguardo, fino al cielo e ho raccontato alle nuvole che ho molta più paura di morire da viva che della morte stessa.

Mi sono avvicinata al portoncino che da sull’ingresso. Come si cambia qualcosa che si fa finta non sia cambiato già? Forse è ciò che sta facendo chi stasera sonnecchia, chiacchiera o brinda ed io che ormai sono rientrata a casa ho una piccola idea di rivoluzione qui con me. L’aria calma ha fermato i pensieri e così quella è riuscita a farsi largo nella mia testa.

Domani, domani voglio rinascere io.

Cronache Dal Condominio #6: La conversazione da ascensore

ascensore donna elevator

Da quando vivo in un condominio ho dovuto imparare in fretta a fronteggiare situazioni che nella palazzina bifamiliare di paese in cui abitavo prima non avevano assolutamente modo di delinearsi per mancanza di elementi che propriamente ne sono le cause.

Non c’era, ad esempio, l’ascensore. Soprattutto, però, non c’erano possibili interlocutori. Di conseguenza, nessun pericolo di rientrare dopo aver portato fuori la spazzatura e trovare davanti all’ascensore qualcun altro in attesa dello stesso. Decisamente, non potevano crearsi imbarazzanti momenti del tipo entro-prima-io-no-meglio-prima-tu dovuti al fatto che non sempre si riesce a riconoscere all’istante la persona che ci è di fronte e ad associare in due nanosecondi il relativo piano d’appartenenza. Che si sa, l’ordine di entrata nell’ascensore deve essere contrario a quello di uscita, per evitare di incastrarsi nel tentativo di scambiarsi il posto o, peggio, di dover uscire fuori tutti per consentire al condomino giunto al proprio piano di raggiungere la porta di casa.

Sembra una cosa stupida, ma trovatevici e poi me lo raccontate.

In fondo pure Einstein l’aveva già detto. Parlando della relatività del tempo una volta affermò: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora“. Si immagini quanto può sembrare lungo il tempo chiusi in ascensore con un estraneo durante il viaggio che porta dal piano terra al quarto piano.

A questo punto, confesso.

Devo dire che ho tentato, a costo di sembrare fuori di testa, ma l’ho fatto.

Eh si perché per evitare di trovarsi in situazioni del genere, specie quando l’umore non è dei migliori, i modi ci sono.

ascensore piano pulsanteUna volta vidi con la coda dell’occhio qualcuno che stava per varcare la soglia del portoncino d’entrata. Per evitare di condividere la corsa col suddetto ho accelerato il passo verso l’ascensore, ho aperto in fretta le porte e mi ci sono infilata dentro senza troppi complimenti. Mi sono sentita in colpa per aver costretto l’altro ad aspettare che io liberassi l’ascensore, ma un po’ anche soddisfatta, ecco.

Qualche altra volta mi è andata peggio. Alla domanda “Deve salire?” ho risposto che no, non avevo bisogno dell’ascensore e che io e le mie due buste della spesa avremmo potuto senza problemi prendere le scale. Aehm.

Poi ci sono quei momenti in cui proprio non puoi defilarti in nessun modo. E ti tocca.

La conversazione da ascensore.

Cosa, ditemi, di cosa si può parlare mai in una manciata di secondi? Di niente. Ecco. Fosse per me starei zitta. Il silenzio però è poco amico del tempo e lo fa sembrare ancora più lungo e imbarazzante. Allora bisogna inventare.

Se ci si trova in periodi di feste, l’argomento è facile da trovare. Pasqua e Natale offrono diversi spunti per considerazioni di pochi secondi, così come se c’è Ferragosto o qualche lungo weekend alle porte. In maniera simile, si può parlare del meteo. L’altro giorno, ad esempio, ho annunciato all’inquilino del secondo piano dell’arrivo di Burian, la perturbazione di origini russe che ha portato la neve OVUNQUE tranne che nella mia città. Il tempo di traumatizzarlo e ci siamo congedati.

Spesso si può prendere spunto dal look, da qualche gossip da condominio, dalla lampadina al terzo piano che è fulminata da due giorni e nessuno è andato ancora a cambiarla e cose così.

Insomma, si sopravvive.

Una volta, però, ne ho proprio approfittato.

Ho condiviso la corsa in ascensore con la vicina di casa. Lì, chiuse nella scatola elevatrice, condividendo poco più di un metro quadrato di spazio e pochi secondi di tempo, senza che potesse fuggire da nessuna parte o avesse la possibilità di cambiare argomento o trovare un qualsiasi motivo per evitarmi, gliel’ho detto.

La scala che ha nel balcone adiacente a quello della mia camera da letto sbatte tutta la notte contro il muro quando c’è vento e non mi fa chiudere occhio.

E che cavolo.

ascensore piani