Attraverso.

Con la testa poggiata sulla mano fisso la cella del foglio Excel come se li dentro ci fosse qualcosa di estremamente importante. Ne è solo una in mezzo a centinaia di altre, ma è così che la mente sceglie quei punti che in realtà sono dei portali aperti su tutti gli universi paralleli che coesistono nello stesso istante: a caso.

In genere accade con i muri. I muri sono i posti preferiti dalla regia che regna dietro i nostri occhi per i fermoimmagine. Di solito è meglio quando sono bianchi o di colore chiaro, ma vanno bene anche quelli con la carta da parati a fantasia, purché ci sia qualche linea morbida, tipo il bordo di un ghirigoro che di solito è perfetto per posarci lo sguardo a lungo. Niente pallini e figure geometriche che portano la mente su qualche tipo di ragionamento razionale. Lo scopo non è pensare, ma guardare attraverso quel punto e lasciare che appaiano immagini e sensazioni così, dal nulla.

Un po’ come ha fatto la Luna con le nuvole questa sera. Ero uscita sul balcone per buttare della plastica e alzando gli occhi ho avuto come un senso di vertigine, sembrava che la Luna si muovesse veloce. Ad un tratto si è impantanata in un gruppo di nuvole traslucide, la mente ha ritrovato i punti di riferimento e ovviamente ha rielaborato la situazione, erano state le nuvole a sovrapporsi allo spicchio luminoso che continuava a distinguersi nitidamente nonostante la loro presenza che in genere è oscurante. Stavo guardando la Luna attraverso le nuvole, o forse stavo fissando le nuvole e oltre riuscivo a scorgere la Luna.

Io non ci ho mai creduto a quella cosa dell’essere speciale che guarirà da ogni malattia solo perché qualcuno decide di prendersene cura, perché non funziona così. Alla fine qualcuno può sentire di non essere stato abbastanza speciale, qualcun altro di non aver dato abbastanza cure. Non si solleva una persona dai suoi sbalzi di umore, te li scansi se va bene, li prendi in pieno se va male e potendo gestire le onde gravitazionali al massimo si potrebbe viaggiare di più per tutta la vita, ma nulla impedirebbe di invecchiare.

Le persone non si lasciano attraversare dalla mente. Hanno spessori profondissimi, di materiali impenetrabili. Qualche volta puoi entrarci dentro, magari percorrere anche un bel tratto. Però non ci troverai mai la Luna dall’altro lato. In genere giri intorno alla loro superficie, mutevole. A volte trovi un po’ di punti comodi dove fermarti, incastrarti, fonderti. Perché forse siamo fatti per stare così, di fianco, di spalle o abbracciati e insieme fissare i muri e gli universi paralleli che si celano dietro di essi.

Giù dalla giostra.

Ci voleva una pandemia affinché scoprissi diverse verità.

Tipo, nelle circostanze in cui ci ha costretti il lockdown ho scoperto che l’uomo che ho amato per diversi anni non è solo e disperato come raccontava a tutti, ma ha una moglie o compagna o comunque una donna molto importante nella sua vita che lo sostiene nei suoi progetti. Ho capito che per lui ero solo una fonte di rifornimento narcisistico, esistevo per pochi minuti o poche ore, giusto il tempo di assicurarsi che ancora provavo dei sentimenti e non me ne ero andata. Poi lasciava i miei messaggi senza risposte e io finivo puntualmente in un vortice di tristezza che diventava rabbia che diventava senso di colpa che diventava di nuovo comprensione, attenzione e amore. Finché così da un giorno all’altro ho deciso di scendere dalla giostra senza nemmeno salutare. Ci avevo già provato altre volte ma passato poco tempo l’idea di non risentirlo più mi distruggeva. Non potevo immaginarmi senza nemmeno quel poco che avevamo. Non mi aveva mai promesso niente ma diceva di avere dei sentimenti per me e io ne avevo bisogno, ma non mi accorgevo di quanto sacrificassi di me stessa ogni volta.

E’ stato come osservare un animale nel suo habitat naturale e allo stesso tempo chiuso in una gabbia e adesso non so più chi è la persona che riuscivo a sentire sulla pelle e nella mente attraverso una connessione unica, antica e solo nostra.

In compenso so meglio chi sono io. Perché finalmente sento di avere della terra sotto ai piedi, di essere più salda, di riuscire a ribellarmi senza pentirmi, di avere diritti e desideri. Dio solo sa quanto avrei voluto vivere con lui tutto questo. Quanto mi sarebbe piaciuto ancora essergli vicina, trascorrere ore a pensare a nuovi modi di parlare del mondo, che ancora non avevo finito di svolgere l’orizzonte che avevo scoperto con lui.

Dunque ci voleva una pandemia per ricevere le risposte che potevano liberarmi dalle domande che si erano intrecciate nella rete sotto la quale ero finita per tutto questo tempo.

Il gioco di Cristina

Cristina prende dalla borsa della mamma un cagnolino di peluche e una pallina di gomma trasparente, puntinata solo di brillantini colorati che riflettono in modo diverso la luce facendole assumere ogni istante sfumature diverse. Dalla pallina parte un filo che Cristina lega ad una delle zampine del peluche. Con una mano prende cane, con l’altra tiene il filo della pallina, perché ad una prima verifica non sembra poi attaccato così bene. Cane si sposta volando, portando con sè la pallina tra il divanetto del salone del parrucchiere e la sedia vuota davanti al primo specchio sulla sinistra. È elegante e sembra non accusare il peso della zavorra che si porta dietro. Sarà grazie ai movimenti graziosi di Cristina, penso. 
Ha gli occhi all’ingiù e timidi simili ai miei, ma sono marroni. I suoi capelli sono raccolti in una coda, come i miei, ma i suoi sono dorati e ricci. Lancia uno sguardo a sua mamma: sembra che ne avrà ancora per un po’. Si stropiccia gli occhi. Prende cane e pallina e torna con loro a poggiarsi sul divanetto di fianco a me che aspetto il mio turno seduta. Mi elegge a spettatrice delle sue piccole avventure guardando le mie reazioni. La sua leggerezza mi contagia e le sorrido. Cerco l’espressione del viso più appropiata alle diverse fasi della storia che inventa a braccio. Cristina diventa pian piano padrona del piccolo mondo fantastico che va dal divanetto alla sedia vuota e in pochi minuti ne sono già fuori. Ridacchia da sola ai risvolti buffi delle vicende che lei stessa sta inventando.

Ne resto ammirata. Un tempo sentivo una sicurezza simile alla sua, ma la mia forse era un po’ meno elegante. Concedevo pochi baci e pochi sorrisi. Il mio mondo fantastico si adattava a tutti gli ambienti e poco se ne faceva della quantità e della qualità del pubblico presente. Anzi. 

Il buio è subdolo. Insomma, dipende dall’interpretazione che ne fai. Se lo prendi così com’è allora inizi a credere di dover imparare in qualche modo a volare, con una zavorra attaccata ad una caviglia in un posto che non ha né cielo né terra ma solo vuoti così incolmabili che rischi di implodere in te stessa e speri che avvenga pure in fretta prima che qualcuno ti sorprenda a piangere durante l’orario di lavoro. 

Se disegni una linea, una soltanto, e ne fai il confine tra ciò che esiste e ciò che no, allora ti ci metti su e speri che qualcuno ti sorrida un po’ e che continui a guardarti e ad ascoltarti mentre progetti, disegni, cancelli e riscrivi pezzi di te e della tua realtà ovviamente dal lato giusto di quella linea. Pallina è caduta giù dal divanetto e cane sta cercando di tirarla su con la corda. Sembra un momento difficile.

A volte si pensa erroneamente che nel momento in cui si avrà qualcuno al proprio fianco allora tutto sarà più facile. Le relazioni però non sono idee pure e perfette. Impossibile trovare qualcuno che non ti faccia sentire sola almeno una volta, anche se accade per sbaglio e non si può passare la vita a condannare, distruggere e ricostruire legami e fiducie nel genere umano. Una relazione non è un’assicurazione a vita sul bisogno d’affetto.  

Tuttavia non credo si possa vivere in qualche modo prescindendo da ogni idea di perfezione, come può esserlo l’amore, l’armonia e anche il buio stesso, pur facendo il nostro gioco, da soli, sia che qualcuno ci guardi e ci apprezzi, sia che scelga di restare a giocare per poco o molto tempo con i suoi giochi nel nostro spazio, sia che alzando lo sguardo ci accorgiamo che no, ormai non è rimasto più nessuno a guardare.

Di indifferenze reali, con violenze sparse e intense precipitazioni di parole virtuali

indifferenza donna violenza web

L’altro giorno ho visto un video di una donna che in un treno prendeva a schiaffi e calci il suo fidanzato, mentre gli mostrava la foto di un’altra donna sullo smartphone e gli chiedeva se fosse quella la tipa con cui la tradisce. Lui le prendeva senza tentare grossi gsti di difesa e rispondeva ovviamente di no.

Sono rimasta interdetta.

Insomma, forse fa meno effetto di un uomo che picchia una donna.

Forse la ragazza non aveva tutta questa forza e i ceffoni non erano poi così dolorosi.

Tuttavia, è violenza anche questa.

Mi sono ricordata delle volte che ho visto schiaffi volare nei supermercati verso bambini irrequieti da genitori spazientiti. E nessuno mai che si sia azzardato ad intervenire. Nemmeno io.

E’ come se questo genere di cose pur avvenendo in pubblico trasporti immediatamente i soggetti in questione in una sfera totalmente personale e privata. Perché tu non sai, non devi impicciarti, così sono abituati, eccetera. 

Sicuramente, siamo giudici migliori quando ci troviamo dietro ad una tastiera.

Ieri assistevo ad un litigio in un gruppo Facebook che dovrebbe essere di aiuto ai cittadini nel segnalare e risolvere problemi della mia città. L’autore del post dava dell’ignorante a chiunque si opponesse alla sua tesi, che più a cercare di trovare una soluzione al problema, serviva semplicemente ad insultare il Sindaco per le sue mancanze. Come lui ogni giorno tanti utenti fanno allo stesso modo. Si lamentano e poi litigano con chiunque osa rispondere qualcosa di logico e razionale.

Dal momento che ne avevo lette troppe, sono intervenuta cercando di spiegare la differenza tra un gruppo di segnalazione ed uno di propaganda politica. In più ho lanciato l’idea di creare un gruppo seriamente moderato dagli amministratori in maniera da non diventare un altro monnezzaio di insulti e lamentele di cittadini frustrati. In pochi hanno risposto favorevolmente. La vice-bullo del gruppo mi si è attaccata ai sensi sbagliati di ciò che dicevo con un’ottusità triste e ridicola.

Tempo fa se la presero con il Sindaco per le cacche dei cani sparse sulle strade e nemmeno una parola verso i loro concittadini incivili. Anche li mi ci attaccai, ma servì a poco.

Intanto però mi chiedo ancora cosa avrei dovuto fare se mi fossi trovata in persona di fronte alla scena della fidanzata gelosa. Se avessero litigato a casa loro nessuno l’avrebbe mai saputo e pace. La dimensione pubblica, però, essendo appunto pubblica, ci tira davvero sempre in causa? Il limite forse sta nell’intensità della violenza e in ciò che potrebbe diventare ‘denunciabile’ perché viola in qualche modo la legge. Il che significa stare a guardare, fino ad un certo punto, per non beccarle a tua volta.

Questo insomma per dire che c’è seriamente qualcosa che non va se litighiamo con gli estranei sul web e per strada no. Se filmiamo l’accaduto e poi lo commentiamo al sicuro da dietro ad un pc.

Domande di sicurezza in caso di smarrimento della comprensione

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Domanda di sicurezza in caso di smarrimento della password. Clicco sul menù a tendina, scorro una ad una tutte le opzioni e mi soffermo su: nome del tuo amico di infanzia. Mi sembra l’unica domanda a cui potrei rispondere anche tra vent’anni. La seleziono e scrivo il nome della bambina con cui giocavo a far finta di saper scrivere delle lettere lunghissime indirizzate a chissà chi.

Oggi mi fermo a parlare con una conoscente. Suo marito è uno dei facchini che sollevano e portano in processione i famosi gigli, torri altissime fatte perlopiù di legno, protagoniste di feste di paese molto sentite dalle mie parti. Mi racconta della volta che si è sentito male perché dovevano essere presenti ad una cerimonia di famiglia e per questo lui non aveva potuto partecipare alla festa e svolgere il suo compito. Continua a ripetermi se non ci sei dentro non puoi capire. Era completamente in crisi. E’ una passione troppo forte, una fede. Io mi sforzo di capire ma mi rendo conto di non riuscirci. Riesco a paragonarlo al massimo alla volta che non riuscii a partire con la mia squadra di scacchi per un campionato ad Alghero per un problema grave e ci rimasi malissimo.

Insomma mi rendo conto che ci sono cose che davvero non si possono capire. Non si può, in nessun modo.

Mentre lei parla mi torna alla mente la mia amica di infanzia. Suo padre era un facchino. Aveva una gobba rossa e bruttissima tra il collo e la spalla sinistra. Ero piccola e mi faceva davvero impressione. Non capivo. Non riuscivo assolutamente a capire perché una persona dovesse farsi seriamente male per una delle cose, a detta sua, più belle della sua vita. Mi misi in testa che fosse una festa stupida e basta.

Ancora oggi lo penso, nonostante la tipa continui a raccontarmi con passione come si svolge, in cosa consiste, di quanto è importante quella festa anche per lei.

La mia empatia vede passare quel fiume di parole e resta impassibile, immobile. Di solito si tuffa a capofitto senza nemmeno avere il mio permesso nelle emozioni degli altri, ma stavolta no. Approfitto di questa lucidità emotiva alla quale non sono abituata per riflettere sul fatto che davvero, ma davvero certe volte non ci si può mettere nei panni di qualcuno e capire cosa sta provando.

Così come non posso capire perché un tipo che conoscevo da due giorni ha iniziato ad insultarmi dopo avergli detto che ero occupata e non potevo sentirlo al telefono. E’ schizzato perché ha pensato che la mia fosse una scusa. Inutili i tentativi di dirgli che sbagliava, anche se una cosa era vera, lui non mi interessava poi così tanto.

Perché una persona -e anch’io l’ho fatto- reagisce male, più male di quanto dovrebbe, a parole, gesti e silenzi che non le piacciono?

Mi turba la questione. Si perché di solito si lascia perdere e in fondo quella beata, sottile ignoranza mette una distanza tra noi e quella reazione, ci solleva da qualsiasi presunto obbligo e ci fa proseguire per la nostra strada indisturbati. E’ cosi che si fa. Io però non ci sono quasi mai riuscita. Quel senso di ignoranza l’ho sempre rifiutato e deriso anche quando l’ho provato.

Infatti non riesco a non chiedermi se davvero ci si può fregiare di non essere riusciti a capire per poter tranquillamente voltare le spalle e andar via, come se fosse un’assoluzione, un alibi, una chance nel caso si smarrisca la comprensione o se invece si tratta comunque di una triste e inesorabile sconfitta, una piccola grande guerra persa con se stessi.

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immagine dal film ‘Bright Star’ sulla vita del poeta John Keats

Uomini che si allargano e spazi che finiscono

Quando tutto ciò che resta è un selfie in cui è venuto bene soltanto lui credo che una domanda sulla natura della frequentazione bisogna farsela.

Foto a parte, è anche vero che molte cose si intuiscono già al primo appuntamento. Al secondo, decidi di non fare la solita rompipalle e fai finta di niente. Dal terzo in poi inizi a chiederti se deve andare avanti così per molto tempo o forse prima o poi cambierà qualcosa. Ad un certo punto lui si prende così tanto spazio che un po’ alla volta tu finisci fuori dall’inquadratura e ciao.

Nessun rancore. Quel che resta, insieme al selfie, è giusto un po’ di dispiacere. Se una persona non ha alcuna intenzione di lasciarti un po’ di posto nella propria vita tutto quello che puoi fare è goderti i momenti belli e poi lasciar perdere quando capisci che dovrai ferirti alle dita nel tentativo di rimanere aggrappata a lui mentre l’inquadratura si rovescia impedendoti di restare in piedi al suo fianco.

Ho pensato a questa storia qualche giorno fa, mentre ascoltavo una notizia abbastanza curiosa al telegiornale. Pare che il sindaco di Madrid sia intervenuto, in seguito alle battaglie femministe di un gruppo di donne, le Mujeres en Lucha, per vietare sui mezzi pubblici della città un comportamento tutto maschile abbastanza frequente e fastidioso. In pratica, il sindaco ha posto il divieto di praticare il Man Spreading, ovvero quella cosa per cui gli uomini, mettendosi a sedere, allargano eccessivamente le gambe. Questo comportamento è stato definito come una mancanza di rispetto nei confronti di chi è seduto affianco a loro perché ovviamente è costretto a rannicchiarsi per evitare il contatto con la gamba che invade il suo spazio. In più sarebbe un gesto sessista, dal momento che allargando le gambe gli uomini cercano simbolicamente di mostrare e imporre il proprio sesso a chi gli è intorno. Per questo sugli autobus sono apparsi degli adesivi nuovi che mostrano un omino stilizzato seduto con le gambe aperte e una croce rossa che ricorda agli utenti di non fare altrettanto.

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Io sono stata una pendolare per diversi anni ed effettivamente mi è capitato spesso di dover trovare posti alternativi alle mie gambe dal momento che lo spazio che doveva essere mio veniva occupato da quelle di qualche tipo con lo stesso problema dell’omino stilizzato. Era fastidioso sì, ma percepivo la cosa come normale. In fondo, praticamente da sempre, gli uomini si siedono così. Si tratta di un gesto innato, virile, indispensabile alla sopravvivenza della specie e dell’orgoglio. Altrettanto normale, per noi donne, è fare le contorsioniste per evitare contatti con gambe, mani, piedi e altre parti del corpo maschile sui mezzi pubblici. Noi le gambe siamo costrette ad accavallarle. Stringiamo le ginocchia, ritiriamo i piedi sotto al sedile, incrociamo le braccia. Poi, se la situazione proprio si compromette, si va di gomitata e via.

Non ho mai pensato che un giorno una cosa così potesse essere vietata. Un divieto vero e proprio. Come non fumare nei mezzi pubblici, non appoggiarsi alle porte, non oltrepassare la linea gialla. Non tenere le gambe aperte. Suona strano. Esprimere come un divieto vero e proprio una cosa che dovrebbe essere una semplice regola di buonsenso. Educazione. Rispetto. Il problema è che se c’è un divieto, significa che dall’altro lato c’è qualcuno che si arroga il diritto di fare una cosa, anche se può dare fastidio agli altri. Se gli chiedi perché, ti risponde che è libero e può fare quello che vuole.

Libero di sedersi come e dove gli pare. Libero di allargarsi prendendosi anche il tuo spazio. Libero di non preoccuparsi di come le persone intorno a lui possono sentirsi. Libero di non chiederti mai come stai. Libero di provarci con un’altra davanti a te in un posto in cui non avevi chiesto di stare. Uomini così, quando si sentono liberi, si allargano. Invadono il tuo spazio nelle foto, a letto, nelle conversazioni. Alcuni di loro continuano ad allargarsi tutta la vita e le donne che hanno a che fare con loro finiscono per rannicchiarsi nelle proprie vite, per occupare meno spazio possibile, sperando di trovarsi almeno vicino al finestrino per poter respirare un po’. Altri dicono che quando si fidanzano poi cambiano. Come se il mondo fosse un parco giochi da godersi finché non arriva l’orario di chiusura.

Allora, giocate.

Non vi lamentate però se il bollino con il divieto di allargarvi uno poi ve lo attacca in fronte e se ne va.

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Di Delusione, Disinformazione e Disabilità da Singletudine

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Ero già pronta a scagliare anatemi e ad esprimere variopinte opinioni quasi da webete quando, ad una seconda più attenta rilettura di un articolo trovato oggi in rete, ho capito che c’era qualcosa che non andava nel modo in cui era stato espresso il concetto. Ovvero.

L’articolo è questo: Essere single potrebbe essere considerata una “disabilità” (ma per un’ottima ragione): etc. etc.. Già il titolo fa drizzare le orecchie. In breve, riporta la notizia riguardante una nuova definizione di “disabile” decisa dall’OMS per quanto riguarda la possibilità e il diritto, di chi ne ha bisogno, di ricorrere alla fecondazione in vitro. Nell’articolo si legge:

“Secondo l’attuale definizione elaborata dall’Oms, si considera disabile chiunque sia infertile o non sia riuscito ad avere una gravidanza dopo 12 mesi di sesso non protetto. Ma non solo: anche chi non ha o riesce a trovare un partner sessuale (e quindi non ha rapporti e, di conseguenza, non ha possibilità di concepire) può essere considerato disabile. Il dottor David Adamson, uno degli autori della nuova categorizzazione, ha spiegato che la definizione di infertilità è stata riscritta per essere più inclusiva e per dare a tutti gli individui il diritto di avere una famiglia.”

Come se non fosse bastata già la Lorenzin a farci sentire in colpa, questa sembra in tutto e per tutto un’altra mazzata sulla testa dei single che, non ci voleva un esperto per capirlo, in quanto tali risultano inabili a creare una famiglia. In particolare avrebbero un vero e proprio handicap rispetto a tutte le altre ‘persone normali’ che invece si trovano in una coppia, di qualsiasi tipo. Ad una prima lettura e secondo il punto di vista dell’articolo sembra proprio che, da oggi, tutti i single possono considerarsi disabili. 

A me sembra, però, che la questione sia stata tirata su apposta per creare la polemica. Sì perché un conto è dire che tutti i single in quanto tali sono disabili, inabili a procreare, un altro è dire che può considerarsi disabile anche chi è single e potrebbe voler ricorrere alla fecondazione in vitro per riuscire a creare una propria famiglia. Infatti, non è detto che tutti i single ne vogliano una ad ogni costo.

Porca miseria, c’è una differenza enorme tra le due frasi, no?!

La doppia implicazione, in un concetto del genere, è sbagliata. Non ci vuole un genio per capirlo e penso che l’articolo avrebbe messo molta meno rabbia e indignazione in giro per il web se semplicemente fosse stato scritto con più attenzione.
Io sono stata tra quelli che, ad una prima lettura, sono saltati dalla sedia. Non saprei dire, però, in quanti poi con buonsenso hanno pensato che l’OMS non poteva aver davvero detto una cosa del genere, con tutte le conseguenti implicazioni.

Questa cosa mi ha fatto riflettere. Quante altre volte la cattiva informazione fa leva sugli impulsi del momento per dare visibilità ad un argomento o ad un fatto accaduto scatenando reazioni che poi, abbiamo visto, causano danni irreparabili?

Tante. In realtà questa non è nemmeno più una novità.

Quel che davvero mi ha turbata, però, è un altro aspetto della questione. Quanto, ormai, ci aspettiamo, ogni giorno, di rimanere delusi, di arrabbiarci e indignarci sconvolti da una notizia qualsiasi, da una nuova scoperta, da una tendenza, dalle parole di un personaggio, insomma, dal mondo che ci circonda? In quanti aprono un social già pronti a scatenarsi contro qualcuno o qualcosa, soltanto perché ormai tutto fa schifo e ogni cosa è opinabile e attaccabile, che ormai l’umanità sta andando a rotoli e quindi meglio dire la propria, visto che si può?

Per di più questo modo di fare non appartiene nemmeno solo al virtuale. Si sta diffondendo l’idea che lasciarsi guidare dagli impulsi, in una società così frenetica e vuota, sia la cosa più saggia, l’unica possibilità che si ha per sopravvivere al suo interno. L’impulso spinge a cercare gratificazioni e se queste mancano allora si passa all’attacco per difendere quel poco di sé non ancora macchiato dalla delusione.

Ci si aspetta così tanto di esser delusi che si fa una fatica bestiale a fidarsi di chiunque, mentre magari si potrebbe cercare la verità sotto le ceneri delle parole scritte apposta per bruciare fin troppo in fretta. A questo proposito vi lascio una citazione del film Disney ‘Saving Mr. Banks’,  che racconta la storia della nascita del film su Mary Poppins e della tenacia che Walt Disney ha impiegato per convincere l’inventrice della storia della famosissima tata a fidarsi di lui, parole che da giorni mi girano per la testa e che forse un po’ hanno salvato anche me.

“Sig.ra Travers: E’ venuto per farmi cambiare idea, vero? Perché io mi sottometta…
Walt: No. No. Sono venuto… perché lei mi ha giudicato male.
– In che senso l’ho giudicata male?
– Lei guarda me, e vede una sorta di Re Mida Hollywoodiano. Crede che io abbia costruito un impero, e voglia la sua Mary Poppins per aggiungere un mattone al mio regno.
– E non è così?
– Beh, se fosse soltanto questo avrei inseguito una donna scontrosa e testarda come lei per vent’anni? No, mi sarei risparmiato un’ulcera. No, lei si aspettava che io la deludessi…e ha fatto in modo che accadesse. Beh, io credo che sia la vita a deluderla, signora Travers. Credo lo abbia fatto spesso, e credo che Mary Poppins sia l’unica persona nella sua vita a non averlo fatto.”

Il Tao Nella Schiuma Del Caffé

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Non sopporto affatto quando mi si dice che non c’è bisogno di aspettare il momento giusto. 

Il momento giusto è l’intervallo di tempo durante il quale si realizzano le circostanze adatte per cimentarsi in una o più attività desiderate da Dio-solo-lo-sa quanti intervalli di tempo prima. Trattasi del momento in cui si hanno a disposizione -tutte insieme- le seguenti cose: voglia, motivazione, risorse e mezzi. Qualche volta anche l’appoggio delle persone per noi più importanti. Quando si presenta, l’attività viene svolta e portata a termine non senza complicazioni ma con ottime probabilità di buona riuscita. Il momento giusto può farti sognare e regalarti le esperienze migliori della tua vita.

Il momento giusto, però, va aspettato. Già. A lui non importano le innovazioni tecnologiche, la possibilità di compiere grandi spostamenti in poco tempo, l’opportunità di essere connessi con i propri cari, amici e con il resto del mondo pure, praticamente sempre e -quasi- in ogni luogo. Nonostante la tecnologia sia una fucina di risorse e occasioni, il momento giusto continua a pretendere che tu aspetti. Quella risorsa o quell’occasione. Se ne fa un baffo del fatto che siano ormai così numerose e a portata di mano.

Tuttavia, noi viviamo in ansia. Più siamo connessi, fisicamente e non, con il mondo, più occasioni abbiamo di relazionarci agli altri, di viaggiare, di realizzare i nostri desideri e più ci sembra di sprecarne in continuazione. Vediamo il tempo come un contenitore da riempire di esperienze, nozioni, aforismi, amicizie, soldi. Siamo perennemente insoddisfatti perché, per forza di cose, quel contenitore non ci sembra mai pieno abbastanza. Nel letto, di sera, aggiorniamo il conto dei minuti persi ad osservare un tramonto o a guardare un punto nel vuoto mentre la mente, frenetica, approfittava di quella specie di ipnosi per riorganizzare gli ultimi pensieri confusi.

Ecco perché si è diffusa la paura di aspettare.

Mentre aspettavi il momento giusto, infatti, qualcuno su Facebook aveva già postato una foto delle proprie vacanze ad Ibiza, vantandosi di una prova costume ampiamente superata. Qualcun’altro si stava sposando. Un altro ancora aveva perso il tuo numero allo stesso modo con cui si perde una moneta da 5 cent mentre si prende la lista della spesa dalla tasca dei jeans. Per alcuni continuerai ad essere importante come quel bicchiere di cristallo regalato dalla nonna, bellissimo e fragile, da mettere in vetrina per evitare possa rompersi.

Cosa aspetti allora? Vai!

Prendi la valigia dall’armadio e riempila di cose che non ti serviranno. Trascinala, con le forze che non hai a causa della stanchezza accumulata verso la porta e poi verso il treno. Scatta fotografie di paesaggi svestiti dei tuoi sorrisi e con il cuore pesante e la mente sovraffollata vai in giro per le strade a cercarti, a capire cosa vuoi davvero, a parte il tornare a casa. Riapri il pc e progetta daccapo un nuovo viaggio. Capisci che alla fine è questo ciò che lo renderà un vero viaggio. Più dell’offerta last minute, più dei likes sui social quel che ti serve è il tempo. Quel tempo che alla fine ti restituirà il senso del tutto.

Esiste un momento giusto anche per deglutire. Quando si mangia troppo in fretta, infatti, il piatto si svuota ma si ha ancora fame. Come se lo stomaco fosse preso alla sprovvista e non riuscisse ad organizzarsi per dare i giusti segnali al cervello affinché ci si possa sentire sazi. Sembra assurdo, ma è il tempo, più del cibo, che conta in realtà. In altri casi, al fine di sentirci soddisfatti e in pace con noi stessi. C’è chi potrebbe obiettare si, ma come si fa a sapere qual è il momento giusto? 

La risposta non la so, però mentre ci pensavo stavo giocherellando con la schiuma del caffè. Muovevo la stecchetta creando forme e sfumature. Insomma, perdevo tempo. Tempo tolto a cose molto più utili eppure ad un certo punto ho sorriso come una scema davanti al mio bicchierino, cosa che non sarebbe accaduta se avessi bevuto il caffé subito e di fretta. Nella schiuma avevo, senza volerlo, disegnato un piccolo tao. Non potrei giurarci, eppure, ho avuto come l’impressione che qualsiasi momento giusto, alla fine, coincide con quello in cui stai iniziando a ridere da sola e nessuno intorno a te può in nessun modo capirne il perché.

 

Meglio Vegani Che Innamorati

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Credo che Papa Francesco abbia parlato dell’amore smisurato che certe persone hanno per gli animali domestici, di molto superiore a quello che nutrono invece per gli altri esseri umani, perché deve aver saputo che ho una zia che ha preso un cane e lo ha chiamato Bianca, in ricordo di mia nonna scomparsa e per avere un’altra Bianca in famiglia, in quanto, evidentemente, io non facevo abbastanza testo per lei.

Anche a me piacerebbe avere un cane o un gatto. Lo chiamerei Stitch se fosse maschio, Lilo se femmina. Peccato però che mia madre caccerebbe di casa sia me che la povera bestia perché ama gli animali, si, purché però si trovino un centimetro più in là della porta d’ingresso.

E’ come dire che l’amore in realtà è un punto di vista.

C’è chi si batte per salvare gli agnelli durante il periodo di Pasqua e poi della strage di tacchini e capitoni che avviene in corrispondenza di altre festività non se ne importa granché. Gli agnelli però sono carini. Da lì si diventa vegetariani o addirittura vegani, eppure in un mondo in cui le zucchine potrebbero essere cancerogene io non affiderei completamente la mia dieta a loro. Credo sia molto più intelligente andare a cercare i prodotti a chilometro zero, le uova da allevamenti non intensivi. Tornare alle abitudini alimentari dei nostri nonni, che mangiavano il pollo soltanto a Natale perché costava troppo.

Comunque la questione è ovvia. Meglio amare gli animali che gli esseri umani perché i primi difficilmente possono deludere. Meglio vegani che innamorati. A livello sociale ed affettivo se ne traggono più soddisfazioni. Si perché l’amore a chilometro zero non esiste e non in termini di distanze fisiche, ma di cammini da compiere dentro se stessi per giungere ad un incontro reale e sincero con l’altra persona. Le relazioni biologiche non possono esserlo a lungo. Prima o poi finiscono per introdursi prodotti di sintesi derivanti da artifici mentali mostruosi. Per dirne uno, la paura.

Il vero guaio, infatti, sta appunto nel punto di vista. Quando lo spostiamo da amare sentirsi amati rischiamo di fare un’inquadratura a vuoto. Possiamo amare gli animali, le persone, chi e cosa ci pare, ma poi? C’è davvero qualcuno che ci preferisce alle proprie pantofole, al proprio porcellino d’India, qualcuno che si improvviserebbe centometrista per correre a fermarci prima di andar via o siamo tutti intercambiabili, come in uno speed date che dura una vita intera?
Se contassimo quanti amano e quanti si sentono amati, in molti alzerebbero la mano soltanto la prima volta.

Perché l’amore è un punto di vista e la realtà non la vediamo tutti con gli stessi occhi.

Il gatto poi ci vede perfino al buio.