L’astensione

Nina appoggia la testa al pilastro bianco sporco da cui partono i gradini della scala A. Osserva i gruppetti di condomini alla sua destra e alla sua sinistra intenti in discussioni diverse, di cui le arrivano parole a caso, quelle dette a voce più alta o più stizzita a seconda di chi sta parlando. Il suo cervello si rifiuta di collegarle ancora in un filo che dovrebbe avere un senso. Mentre le sembra di seguirne uno all’improvviso si perde, il punto di vista cambia, il nesso logico scompare e le frasi sembrano strade a cui mancano incroci, rotonde e semafori. Si sovrappongono su livelli diversi, come se ognuno andasse per l’unica che conosce, la propria. Il signor Vittorio, capelli bianchi e occhi piccoli e azzurri, si aggira tra i gruppetti con aria più rilassata, ma sguardo fiero, con le mani incrociate dietro la schiena. Poco prima Nina aveva visto il suo nome nella lista degli astenuti. Si ferma vicino alla porta dell’ascensore di fronte a lei. Nina gli rivolge un sorriso e mormora in maniera che possa sentire solo lui, basta, voglio tornare a casa. Il signor Vittorio le sorride a sua volta e fa come per aprire la porta dell’ascensore, ma Nina scuote la testa, vuole prima accertarsi che si sia raggiunta una qualche maggioranza prima di abbandonarli. La signora Cristina le appare davanti sbucando a sorpresa dalla guardiola del portiere. Tu hai votato? Nina si era ripromessa che non si sarebbe fatta coinvolgere dalla sua ansia aggressiva, le dice un sì serafico e la segue per vedere a che stanno i conteggi. Avrebbe voluto chiedere al signor Vittorio perché si era astenuto dalla votazione per il cambio dell’amministratore, ma si limita ad osservarlo parlare con il suo amico che qualche momento prima quasi aveva litigato con la signora Cristina. Lui sosteneva che riunioni così importanti si dovrebbero fare con più calma e forse il signor Vittorio era d’accordo con lui. In quel momento si era creato come uno squarcio tra generazioni e sessi: le signore sulla cinquantina che andavano di fretta per raggiungere un risultato e tornare a casa a cucinare per i mariti, i signori sulla settantina che avrebbero voluto più tempo per argomentare, discutere e prendere una decisione. Nina si sentiva più solidale al gruppetto maschile, ma aveva deciso lo stesso di schierarsi pensando in fretta, come se ci si fosse abituata e non solo in quelle circostanze. Si era sentita spinta dalla voglia di raggiungere a tutti i costi un qualche risultato, nonostante la stanchezza e la poca chiarezza. Eppure lo sguardo placido e attento del signor Vittorio la rassicura e in qualche modo anche la sua astensione. L’amministratore dimesso dichiara la vittoria del candidato della signora Cristina, Nina saluta velocemente, sparisce dietro la porta dell’ascensore e mentre sale nota con gioia che le voci diventano mormorii sempre più lontani.

Fotografie di silenzio

Lo ammetto, ogni tanto ho pensato a chi si trovava al mare o alle terme a fare beatamente niente, fermo, disteso al sole o lasciandosi cullare dalle onde o dall’idromassaggio. In particolare l’ho pensato quando i sentieri diventavano di una pendenza tale che mi serviva usare le mani per proseguire, aggrappandomi qua e là, quando mi sono accorta che avevo bisogno di tenere una mano, più per aiutare la mente che il fisico. L’ho pensato quando attaccata con due moschettoni dovevo superare un ponte sospeso a sette metri di altezza tra gli alberi camminando su una trave di legno larga quanto il mio piede e con un cavo di acciaio per mantenersi, ma soprattutto quando ho capito che quello era il ponte più semplice da superare. Di nuovo, quando le braccia mi hanno tradita, dopo un’ora buona di equilibrismi vari, sulla parete di corde e sono caduta rimanendo sospesa nel vuoto. Ho capito che può essere difficile accettare di aver bisogno di aiuto, ma anche che cadere alle volte è di un sollievo meraviglioso. Mi son detta davvero non doveva far così schifo rilassarsi sotto ad un ombrellone quando salendo su un albero a dieci metri di altezza mi son ritrovata assicurata con un solo moschettone, che l’altro si era sganciato da me mentre lo spostavo per salire.
Un bagno l’ho fatto, in un fiume, nell’acqua gelida camminando su un fondo scivoloso di ciottoli e fango dopo aver pagaiato tre quarti d’ora con le braccia ancora provate dalle arrampicate e per qualche minuto mi sono sdraiata, dietro un albero, durante la partita di soft air attenta a non muovere un muscolo e non pestare per sbaglio qualche foglia che avrebbe rivelato all’avversario la mia posizione.
Mi sono ritrovata più volte davanti al limite di non credermi capace di fare l’ultimo sforzo. Un limite vero, di quelli che ti fermano, di quelli che il cervello comanda al resto del corpo di fermarsi a valutare se continuare o no. C’era da concentrarsi per capire il giusto movimento per non rischiare di farsi male.
Poi in mezzo a tutti questi pensieri, alla percezione che la natura fosse più impervia di quanto immaginassi, ho trovato ciò che al mare, ecco, non avrei trovato. Il silenzio. Dopo aver scalato un sentiero di pietre o di foglie e ramoscelli o di fango alzavo lo sguardo ed ero circondata dalle montagne. Dopo aver superato le rapide del fiume il gommone scivolava sull’acqua liscia contenuta tra rive rigogliose. Dopo esser giunta sulla piattaforma di un altro albero mi fermavo ad osservarne i rami placidi e maestosi che mi circondavano. Insomma ogni volta, dopo la fatica e il cuore a mille e il respiro affannato mi aspettava il silenzio assoluto. Queste immagini in pochi attimi mi sono entrate dentro e quel silenzio che non avevo mai sentito prima si è connesso all’istante con qualcosa di molto profondo, come un bisogno, nell’anima.

A leggere i fiocchi di neve

Da quando ho smesso di parlare il silenzio ha curato le parole.
Loro non sapevano bene che fare. All’inizio lanciavano qualche sguardo incuriosito. Alle volte ridevano. Altre si muovevano in punta di piedi e buone buone si sistemavano nei pressi di un altro silenzio, di nascosto lo guardavano fare cose normali e questo le faceva stare bene. Quando le condizioni sono giuste il cielo racconta la neve e noi restiamo con il naso appiccicato sul vetro del balcone a leggere la storia. Alle storie servono le condizioni giuste, ma anche un certo ritmo tra pieno e vuoto. Se non ci fosse spazio tra un fiocco di neve e l’altro non avremmo nulla da leggere. Ci sarebbe solo un finale già scritto.
Insomma le condizioni giuste, il ritmo e allora accadono le storie, così come accadono le cose.
Al centro c’era un pouf un po’ rotto come tavolino e una candela viola perché c’era solo quella a portata di mano, due amari e dei biscotti al cioccolato. Una musica dolce da poggiarci la testa. Le parole si erano già date appuntamento per l’indomani. Ormai si era creata come un’abitudine: ognuno faceva danzare le proprie, ma poi loro si incontravano e intrecciavano per aiutarsi e insegnarsi cose e ridere insieme. Perché non si trattava di sentirsi meno sole, ma di trovare un po’ di pace.
La storia è finita quando ho chiuso gli occhi, dopo aver spento la candela e la musica, dopo essermi tirata su le coperte e mi sono sentita felice.

Giù dalla giostra.

Ci voleva una pandemia affinché scoprissi diverse verità.

Tipo, nelle circostanze in cui ci ha costretti il lockdown ho scoperto che l’uomo che ho amato per diversi anni non è solo e disperato come raccontava a tutti, ma ha una moglie o compagna o comunque una donna molto importante nella sua vita che lo sostiene nei suoi progetti. Ho capito che per lui ero solo una fonte di rifornimento narcisistico, esistevo per pochi minuti o poche ore, giusto il tempo di assicurarsi che ancora provavo dei sentimenti e non me ne ero andata. Poi lasciava i miei messaggi senza risposte e io finivo puntualmente in un vortice di tristezza che diventava rabbia che diventava senso di colpa che diventava di nuovo comprensione, attenzione e amore. Finché così da un giorno all’altro ho deciso di scendere dalla giostra senza nemmeno salutare. Ci avevo già provato altre volte ma passato poco tempo l’idea di non risentirlo più mi distruggeva. Non potevo immaginarmi senza nemmeno quel poco che avevamo. Non mi aveva mai promesso niente ma diceva di avere dei sentimenti per me e io ne avevo bisogno, ma non mi accorgevo di quanto sacrificassi di me stessa ogni volta.

E’ stato come osservare un animale nel suo habitat naturale e allo stesso tempo chiuso in una gabbia e adesso non so più chi è la persona che riuscivo a sentire sulla pelle e nella mente attraverso una connessione unica, antica e solo nostra.

In compenso so meglio chi sono io. Perché finalmente sento di avere della terra sotto ai piedi, di essere più salda, di riuscire a ribellarmi senza pentirmi, di avere diritti e desideri. Dio solo sa quanto avrei voluto vivere con lui tutto questo. Quanto mi sarebbe piaciuto ancora essergli vicina, trascorrere ore a pensare a nuovi modi di parlare del mondo, che ancora non avevo finito di svolgere l’orizzonte che avevo scoperto con lui.

Dunque ci voleva una pandemia per ricevere le risposte che potevano liberarmi dalle domande che si erano intrecciate nella rete sotto la quale ero finita per tutto questo tempo.

Distorsione

Escher

Mentre parla cammina su e giù davanti alla finestra. Non riesco ad ascoltarla: ad ogni passo cadenzato e fintamente casuale le scarpe nere stridono sul finto parquet di ceramica. Devono essere nuove. I pantaloni che indossa sono di una taglia in meno a quella che serve, ma in compenso il maglioncino le cade morbido all’altezza dei fianchi. Ha tutta l’aria di esser diventata qualcosa di diverso prima che avesse il tempo di accorgersene.

In certi momenti tutto sembra darmi nausea. Mi fisso su dettagli inutili che mi fanno cortocircuito lungo la strada che dagli occhi porta al cervello. Alice continua a parlare. Mi chiedo se qualcun’altro in platea nota la distorsione nell’armonia che di solito è invisibile e intrecciata alle cose del mondo o sta davvero ascoltando il suo discorso.

Chissà se alla natura, all’Universo frega qualcosa delle nostre sensazioni. Il disagio e la rabbia assistono impotenti ogni volta che l’aria si ricompone dopo il passaggio di un tuono e mentre il suono si affievolisce disperdendosi disturbando ad ogni metro sempre un po’ meno il silenzio.

La distorsione un po’ alla volta si riassorbe e Alice diventa parte del momento e del contesto. E no, le sensazioni poi dobbiamo rimettercele a posto da soli. L’armonia ingloba, trasforma, cambia sagoma ai pezzi affinché tutto possa combaciare di nuovo. Opporsi significa condannarsi a ferirsi di continuo tra gli spigoli delle cose che prima erano in un modo e adesso non più.

Mi ritrovo che sto ascoltando Alice. Dopo l’impaccio iniziale la sua voce è diventata cadenzata e musicale e attira piacevolmente le mie orecchie. Deve averci lavorato parecchio su. Chissà quali spigoli l’hanno costretta a cambiare. Lo immagino e prometto a me stessa che le mie scelte saranno diverse. Sempre che ci si possa adattare e allo stesso tempo cercare di diventare la persona che si desidera essere.


Il silenzio e il foglio bianco

silence music white paper

Un foglio bianco a me, un foglio bianco a lei. Una matita ciascuna.

Dai fai un disegno. Ne faccio uno anch’io e poi decidiamo qual è il più bello.

Panico.

Ero davanti ad un foglio bianco e mi è presa l’ansia.

Volevo spiegarle che il foglio mi sembrava perfetto così, bianco, e che non c’era nessun bisogno di sporcarlo. Ho sbirciato sul suo foglio. Aveva iniziato con un sole dai raggi ondulati e con il cielo. Era già al prato verde.

Non hai disegnato ancora niente? Guarda che io sono già avanti.

Guardavo la matita e il foglio. Una farfalla? No, banale. Fiori? Ancora peggio. Aiuto! Fantasia, dove diavolo ti sei cacciata? Ti sembra il momento di fare l’esistenzialista? Serve un disegno e serve adesso. Diamoci una mossa. Un disegno. E allora. Su. 

Guarda che poi devi anche colorarlo.

Al centro del suo foglio era apparsa una specie di caverna. Ah no. Uno, due, tre… Ah no, ecco, ha troppi strati. Un arcobaleno. Porca miseria. Ero rimasta indietro. Mi sentivo pessima. Eppure è come tutte le volte che non riesco ad interrompere il silenzio o come quando mi piace ascoltare solo i rumori che vengono dalla strada. Le voci, i clacson. Il mio preferito però resta sempre quello della pioggia. Meglio ancora se è un temporale. Mi fa stare bene. Nessuna melodia o canzone vale la pena di interrompere quel suono cadenzato e imperfetto che nessuno ha scritto e nessuno sa come finisce e nessuno mai potrà ripetere uguale. Perché dipende dall’intensità della pioggia, dalla grandezza delle gocce d’acqua, dagli ostacoli che incontrano cadendo e dall’inclinazione con cui li colpiscono. In mancanza di pioggia c’è sempre il silenzio che racchiude tutte le melodie, come la luce bianca che è composta da tutti i colori dell’arcobaleno. E cavolo la musica alle volte è così tremendamente banale. Sai già come inizia, sai già come finisce.

E vorrei spiegarle che è solo da poco che ci ho fatto pace e poi sarà la volta dei fogli bianchi. Una cosa alla volta.

La musica mi ha spiegato che se interrompo il silenzio non è vero che poi succede qualcosa di brutto. E tu, foglio bianco, sai cosa vorrei che mi dicessi? Che i miei sogni non si frantumano se non penso solo e soltanto a come realizzarli.   

All’arcobaleno mancavano giusto un paio di colori e poi sarebbe stato completo. Ho sorriso. Mentre ero lì a pensare è apparsa sul mio foglio una ragazza dai capelli foltissimi seduta a gambe incrociate sul suo divano e con una tazza fumante in mano. Un gatto dormiva beato sul tappeto davanti ai suoi piedi.

Alla fine ho disegnato il silenzio, su un foglio bianco.

 

ComeDiari #9: (S)Legati

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Mi ci vedevo già tra le tue braccia, più forti del vento, più sicure delle mie parole. 

E no, invece. Non si può spiegare. Vederti andar via per l’ennesima volta è buffo e straziante insieme. Come se ci fossimo sporcati le mani di ironia e adesso ogni singolo istante di tempo è fottuto, condannato a macchiarsi e ci guarderà di traverso non appena superato, perché poteva essere bello, bello davvero. 

Un legame se è vero resiste ad ogni cosa. Unisce parole spezzate e traduce silenzi infiniti. Credevo fossimo questo, che in equilibrio sul filo ti avrei raggiunto sempre e ci saremmo capiti con uno sguardo soltanto. Questa volta però non capisco se hanno mentito gli occhi o le parole. La bugia ha preso a morsi la fiducia mentre io urlavo. Ti ho difeso frapponendomi tra le semplici impressioni e gli altri, raccontando di profondità e sincerità, disegnando schizzi del tuo mondo che adoravo visitare ogni volta che potevo.  

Adesso non sento più niente. Le emozioni sono ferme, immobili. Una specie di morte apparente. Forse, sono morte davvero. Forse aspettano solo che tu riprenda a contare voltandoti di nuovo verso il muro.

Cazzo, smettila di guardarmi in silenzio. 

L’Uomo Dei Sogni (Non Miei)

Out in the fields - crilleb50 deviantart

Out in the fields – crilleb50 deviantart

Qualche notte fa ho sognato Brad Pitt.

Lo so, niente di eccezionale, specie se si pensa a quante donne capita di incontrare nei propri sogni l’uomo perfetto e che nella realtà non esiste o perlomeno è irraggiungibile. Non è niente di eccezionale in riferimento al fatto che in genere nei sogni vanno a realizzarsi cose altamente improbabili, che desideriamo o temiamo segretamente e che durante la notte si mettono in tiro, ripetono il copione e si mettono in scena, come se da qualche parte dietro ai nostri occhi ci fosse una casa cinematografica in crisi, in cui si riciclano battute da momenti vissuti davvero e gli attori si presentano in outfit dal dubbio gusto, risultanti da una mescolanza di stili e capi provenienti dagli armadi di tutta la gente che hai incontrato nella tua vita, mentre a te fanno indossare quella camicia orribile che avevi comprato a 13 anni e il cielo soltanto sa dove si trova adesso. Inside Out docet

Quindi il fatto non sarebbe eccezionale, se non fosse per un piccolo particolare: a me Brad Pitt non è mai piaciuto.

Eh no.

Per di più nel mio sogno si è presentato in versione piacione con almeno venticinque anni in meno, capelli tirati indietro con la gelatina a parte un ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, sottogiacca con scollo a v e collana stile Marines. Insomma, un Brad Pitt anni ’90: potrei perfino ammettere che sia più attraente adesso. Per puro caso si trovava in vacanza in Italia nello stesso posto in cui da poco ero arrivata anch’io. Lui non conosceva bene l’italiano per cui mi aveva chiesto di accompagnarlo a fare delle commissioni, tra cui comprare dei fiori (!) per decorare il suo bungalow che gli sembrava un po’ triste e io, evidentemente, non avevo granché di meglio da fare. Immagino che a questo punto siate delusi perché dalle premesse sembrava si trattasse di ben altro tipo di sogno, ma credo che se non fosse stato proprio assurdo al mattino non lo avrei nemmeno ricordato.

Più delle immagini e delle parole, quel che resta di un sogno è la sensazione. Quella che nel frastuono creato da tutte le altre durante il giorno finisce per perdersi perché non è abbastanza limpida e forte da invaderti e costringerti a porti delle domande anche abbastanza serie. Sapersi fare le domande giuste è fondamentale. Condiziona fortemente quella che poi diventa la nostra personalissima ricerca delle relative risposte e la questione oggi è più delicata di quanto sembra. Intorno abbiamo mucchi di risposte. Centinaia di aforismi, perle di saggezza che ci scorrono dinanzi agli occhi ogni giorno aprendo facebook o qualsiasi altro social. Nei supermercati ci sono decine di risposte a bisogni che non sapevamo nemmeno di avere. Distinguere quelle che davvero ci servono dalle altre è difficile, la maggior parte delle risposte a nostra disposizione sta lì perché l’abbiamo trovata, ma non cercata.

Così il mio subconscio ha dovuto tirar fuori un personaggio di cui non mi è mai importato decisamente nulla e creare una situazione davvero assurda per attirare la mia attenzione nel caos emotivo in cui mi sono ritrovata ultimamente. Si perché la sensazione che ho provato, al mattino, è stata quella di aver trascorso del ‘tempo’ con una specie di amico, una persona piacevole e familiare, per cui, al di là di tutte le possibili interpretazioni che avrei potuto dare a questo sogno, la sua assurdità l’ho sentita forte come uno schiaffo in faccia. Un sogno mi ha riportata alla realtà, quella degli esami di coscienza e del silenzio, dell’ascoltarsi e del capire profondamente le proprie sensazioni e sentimenti, delle vere motivazioni che ci sono dietro a gesti e parole. Mi sono resa conto di quanto avessi bisogno di revisionare la mia rotta, perché il vento sembra a favore e le acque sono tranquille, eppure, per diverso tempo mi sono comportata soltanto come se mi trovassi in mezzo ad una terribile tempesta.

“… Potessimo Trovare Altri Sinonimi Del Bene.”

Un po’ di anni fa il mio professore di Geometria dell’università, mentre alcuni ragazzi ed io eravamo a ricevimento da lui nel suo ufficio per dei chiarimenti sui suoi esercizi, non ricordo bene perché, si riferì a noi come a delle meteore. In quanto tali avevamo incrociato le nostre scie e questo era il motivo per cui eravamo lì. Finito il corso, fatto l’esame, ognuno avrebbe continuato a viaggiare per conto proprio e quella breve magia sarebbe finita, la scia sparita al consumarsi dei piccoli frammenti di roccia ardenti.

Mi torna in mente quel momento ogni volta che mi capita di perdere qualcuno. Perdere nel senso che va via. Via, nel senso che non può o non gli interessa più far parte della mia vita.

L’idea che i rapporti tra le persone possano essere così labili mi spaventa. Faccio fatica a sopportarla. Eppure così come la similitudine delle meteore voleva far capire, le cose hanno una fine. I cerchi si chiudono e mettersi tra le due estremità provando ad impedir loro di congiungersi è soltanto un inutile sforzo. Una fatica immane e improduttiva e si rischia anzi di farsi molto male. Non c’è più nulla da dirsi e si interrompe per sempre quel flusso di pensieri e sentimenti che pur senza parole continuava a scorrere libero dall’una all’altra persona.

Mi è capitato di osservare diversi e bizzarri spettacoli di luce ultimamente. Alcune meteore fanno brevi virate per tornare su quella appena lasciata, bruciacchiandosi pure, altre continuano sistematicamente a mancarsi incrociando le rispettive scie su livelli sfalsati, altre ancora compiono percorsi che nel tempo diventano più simili ad orbite ellittiche poiché per anni non fanno che continuare a girare sempre intorno la stessa persona, aspettando di giungere al perigeo per depositare lì un po’ di nostalgia, prima di allontanarsi di nuovo. Ci sono meteore che si inseguono e non sempre si capisce se quella in testa stia scappando, alcune invece si danno il cambio alla guida, mentre una delle due riposa lasciandosi trascinare dalla scia dell’altra. Le più belle di tutte viaggiano in parallelo, indipendenti eppure abbastanza vicine da condividere il percorso e correggersi le traiettorie a vicenda quando serve, ben consapevoli che non esiste alcun epico traguardo chiamato per sempre, che pure mette timore, almeno quanto un incompreso mai più.

Il punto è che a me questa storia delle meteore mette solo tanta tristezza, così come le finte promesse e gli addii.

Voglio solo restare qui, in silenzio, a tracciare risposte con le dita sporche di cenere e capire come si fa a soffiarle via.

L’amore non esiste è un cliché di situazioni
tra due che non son buoni ad annusarsi come bestie
finché il muro di parole che hanno eretto
resterà ancora fra loro a rovinare tutto

L’amore non esiste è l’effetto prorompente
di dottrine moraliste sulle voglie della gente
è il più comodo rimedio alla paura
di non essere capaci a rimanere soli

L’amore non ha casa, non ha un’orbita terrestre
non risponde ai più banali meccanismi tra le forze,
è un assetto societario in conflitto d’interesse
l’amore non esiste… ma esistiamo io e te

e la nostra ribellione alla statistica
un’abbraccio per proteggerci dal vento
l’illusione di competere col tempo
Io non ho la religiosa accettazione della fine
potessimo trovare altri sinonimi del bene
l’amore non esiste, esistiamo io e te

L’amore se poi esiste è quest’idea di attaccamento
che ha l’uomo del mio tempo per le tante storie viste
non esiste fare i conti accontentarsi piano piano
di una vita mano nella mano
l’amore non esiste è un ingorgo della mente
di domande mal riposte e di risposte non convinte
vuoi tu prendere per sposo questa libera creatura
finché Dio l’avrà deciso o solamente finché dura?

Ma esistiamo io e te
e la nostra ribellione alla statistica
un abbraccio per proteggerci dal vento
l’illusione di competere col tempo
e non c’è letteratura che ci sappia raccontare
i numeri da soli non riescono a spiegare
l’amore non esiste, esistiamo io e te

Aria

Ho sempre, sempre pensato che se fossi una musica, sarei questa. Non so perché. Chiudendo gli occhi e ascoltandola riesco a ritrovarmi. Aria. Per respirare. Profondamente, ossigenando i pensieri. Per sentirmi leggera lasciando andare quelli negativi, vecchi, consumati e inutili. Leggera e quindi serena, libera.

Libera da quel senso di disagio che si ferma alla gola, delle volte, come un respiro trattenuto troppo a lungo.

Libera come un silenzio scritto con le dita su un vetro.

Libera di viaggiare nell’aria, come musica. Di sentirmi musica. E di correre più veloce di un sogno per aspettarlo al traguardo con un sorriso e tranquillizzarlo, che in fondo è andata bene, ci siamo ritrovati.

Aria.