ComeDiari #19: Il tempo dimenticato

Ci sono alcune cose che scrivo solo per me. Perché non le ritengo adatte al blog, perché non avrebbero alcun senso nel filo del discorso che uno cerca di mantenere. A volte non le scrivo nemmeno e allora rimangono come pensieri ingabbiati che a tratti diventano feroci, altre volte apatici e rassegnati. Altre volte mi nascondo dietro le metafore perché la realtà mi sembra priva di magia, ma è come far prendere a quel che ho dentro solo un’ora d’aria senza liberarlo davvero.
Vorrei poter riuscire a dire che ho paura.
Vorrei poter riuscire a dire che non credo più in un sacco di cose. E che a volte il mondo mi sembra irrimediabilmente un pericolo continuo, che mi piacerebbe vivere da sola, non sentire il rumore dell’insoddisfazione e del malessere degli altri, perché non lo voglio, non l’ho chiesto, perché mi distoglie da me stessa a tal punto che ancora non so chi sono e cosa voglio.
Non credo nella politica, non credo nella democrazia, la religione è perfino più inutilmente complicata. Gli unici progressi che la società può fare sono quelli che in qualche modo generano soldi. Ho paura di essere in difetto con qualche stupida regola burocratica, ho paura di perdere quello per cui ho lavorato. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e di meritare quello che ho ottenuto. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e che posso esserlo di nuovo e non per piacere a qualcuno, ma perché lo sono e basta.
Vorrei star qui e prendere ogni trauma, ogni automatismo e raccontarlo, smontarlo e renderlo innocuo, impotente e fare le cose con consapevolezza, perché così voglio essere. Voglio sapere chi sono. Non voglio diventare qualcosa che non mi piace. Non voglio più sentirmi in colpa, rimandare la mia vita a quando i problemi spariranno, solo una settimana, solo un’altra ancora e alla fine non ricordavo nemmeno più come se ne era andato il tempo. Ho passato giorni a ricostruire gli ultimi anni guardando le foto sul cellulare, perché a me sembrava solo di essermi risvegliata senza memoria dopo un viaggio attraverso un buco nero.
Vorrei riuscire a raccontare del panico, quando qualcosa mi ha ricordato un momento orribile e all’improvviso non c’era più l’aria e non c’era più il futuro.
Vorrei poter parlare di me senza avere paura di sembrare sbagliata o di star facendo qualcosa di sbagliato.
Voglio ricominciare da quello in cui credo, dai i ritmi della natura che un fiore mi ha insegnato, da quelli della Luna e delle stagioni. Dal profumo di una torta o del pane caldo. Voglio uscire dal gioco umano di creare drammi e poi perdere il doppio del tempo per trovarne le soluzioni, che se ci pensate è follia. Il corpo ha una sua intelligenza, ma nessuno lo ascolta perché la mente ci distrae continuamente cercando il piacere. Vorrei ricordare tutto, tutto, perché il tempo vola ma solo perché abbiamo poca memoria e dimentichiamo la maggior parte dei giorni che ci lasciamo alle spalle. Il tempo non è perso, è dimenticato.

Ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.

Illustrator Yaoyao Ma Van As | Illustration | ARTWOONZ | Alone art, Girly  art, Animation art

Questa è stata una giornata di suoni di pioggia, di odore di chiuso degli addobbi rimasti per un anno nelle loro scatole e di sapore di tiramisù. Mi lascio avvolgere dalle luci colorate e va bene così. Ho voglia di godermi le cose belle e sognare e come ho letto da qualche parte, di creare il mio mondo, prima di morire in quello degli altri.

Perché forse ormai ci sono arrivata a cosa mi rende diversa e cosa mi rende simile. Sto addestrando il mio baricentro a non dichiararsi sempre colpevole e a non perdere la calma. Mi risulta ancora molto difficile quando ho a che fare con un impiegato Asl o comunale. L’ultima volta che uno di loro mi ha detto che le carte della pratica X non erano quelle giuste mi sono quasi messa a piangere. In piena pandemia, chiusa in casa e nessun sito aggiornato o numero di telefono attivo non potevo sapere quali fossero le carte giuste. L’inefficienza, la negligenza e l’incompetenza mi fanno letteralmente schifo, anche se detto da me che scrivo dal divano lanciando occhiate feroci di tanto in tanto a quel pezzo di scotch rimasto penzoloni sul mobile sembra che il problema sia qualche mia mania invece che qualcosa di serio. Eppure quando la guardia giurata si è rivolta con arroganza ad un uomo che chiedeva informazioni ho provato rabbia. Se qualcuno rispondesse a quel dannato telefono non disturberebbero te, pensavo. Mi sono resa conto però che se ne fai una questione personale puoi anche implodere di dispiacere, ma non cambi le cose.

E sono le emozioni e quella spiacevolissima sensazione di frustrazione ciò che muove gli haters, i leoni da tastiera o le persone che ti amavano ad insultarti, anche in anonimo. Poco tempo fa si è accesa una questione pseudo-femminista sui social in seguito a qualcosa accaduto in tv. Un programma Rai aveva inviato in onda un tutorial rivolto alle donne su come fare la spesa in maniera sexy. Si è alzato un coro di femministe indignate e offese, tanto che il programma, uno dei pochi ancora validi secondo me, è stato chiuso. Ho letto manifestazioni di rabbia assurde e mi accorgevo che nel leggerle mi stava venendo voglia di insultare loro a mia volta. Quando ho provato a spiegare la mia opinione ad una persona amica poco ci è mancato che mi processasse. Avevo qualche problema, io, se un tutorial su come una donna possa muoversi in modo sexy non mi offendeva. Non ero indignata perché secondo me aveva problemi chi quel tutorial l’aveva preso sul serio, ma soprattutto perché finché le donne etichettano un’altra donna come oggetto allora andiamo indietro pensando di andare avanti. La vera parità si avrà quando una donna Presidente o astronauta o Rettore universitario non farà notizia perché sarà assolutamente normale. Pochi giorni dopo è andata in onda una partita della nazionale femminile di calcio, commentata da giornaliste sportive, donne. Ed questo è il femminismo vuoto e insulso che si merita la maggior parte del genere femminile e mi dispiace molto.

Insomma, credo che avrò sempre una certa difficoltà a trovarmi d’accordo con buona parte del mondo. Una volta ho sentito dire che forse non è il corpo che contiene l’anima, ma è l’anima a contenere il corpo. Se così è davvero, allora forse non siamo così tanto fragili e in pericolo di disgregarci da un momento all’altro. Siamo molto più stabili e solidi di quanto pensiamo a patto però di prenderci cura di ciò che va e viene dai confini del nostro mondo.

Soglia alta.

Story of Yaoyaomva

Il dottore si alza dallo sgabellino e sorridendo si avvicina al pc. Diciamo che non vado mai esattamente di buon umore dal dentista, ma avverto un particolare moto di intolleranza invadermi da capo a piedi quando mi dice che ha apprezzato la mia autoironia quando al suo annuncio che a breve avrebbe anestetizzato il nervo del mio dente irrimediabilmente cariato ho risposto mogiamente si, fa molto male, lo so. Come l’altra volta. Avrei voluto dirgli che ero rassegnata, non ironica, mentre cerco di placare la mia rivolta interna stringendo il fazzoletto di carta che ho tra le mani.

Guarda la radiografia al pc e sbarra gli occhi. Dice che non riesce a capire come io non provassi alcun dolore nonostante una carie così. L’intervento sul nervo si è reso necessario dopo un tentativo di curare la carie andato male, il dentista dice che prima o poi avrei provato un dolore lancinante ugualmente, ma in quel momento ne avevo altri di nervi a fior di pelle al pensiero che prima della cura mi sentivo praticamente bene.

Continua a guardare la radiografia indicandomi con il dito l’estensione del “danno”, quando mi dice che devo avere una soglia del dolore alta altrimenti il fenomeno non si spiegherebbe. Lì per lì dentro me la rivolta ha lasciato posto ad una timida soddisfazione, ma ho continuato a pensare a quella frase anche nei giorni seguenti.

Mi sono detta in generale quanti dolori si adattano, aderiscono così bene alle forme delle nostre vite e per quanto sembri banale dire che finiscono per farne parte in realtà accade che si danno loro altri nomi, spiegazioni, stanno lì sul mobile vicino al televisore, in borsa o addosso e mai se ne prende almeno uno da parte per chiedergli chi sei? Sul serio, da dove sei spuntato fuori? Poi qualcuno per caso li chiama con il loro nome, ci si rende conto che non è normale, per niente normale accettare quel tipo di parole o di comportamento o quella situazione o quel male fisico e allora iniziano gli sguardi di traverso, i sospetti e si inizia a pensare a come liberarsene senza però urtare la loro suscettibilità, piano piano, in silenzio, non sia mai che decidano di mettersi proprio di traverso e farci ancora più male.

Forse è perché in qualche modo siamo finiti per adattarci noi a loro, abbiamo spalmato le nostre abitudini, le nostre reazioni, le nostre scelte su di loro per non sentirne le durezze e non farci male, incastrandoci negli spazi che ci hanno concesso e costruendo lì le nostre giornate, fissando da lì i nostri obiettivi.

Insomma si dice che il dolore serve a proteggerci, quante volte però ci accontentiamo di restarci dentro più del tempo necessario a scampare il pericolo? E che succede se finiamo per alzare troppo quella soglia?

Elogio del selfie

Oggi, scorrendo le bacheche di alcuni social, mi chiedevo se davvero stiamo vivendo uno dei periodi più vanesi della storia dell’umanità, dal momento che vengono pubblicati con una continuità impressionante selfie di ogni tipo e da ogni parte del mondo.

Noi utilizzatori della fotocamera interna dei nostri cellulari siamo davvero così tanto vanitosi? E’ giusto bollare la questione in questi termini e basta? Creare nostri autoritratti è davvero qualcosa di così superficiale, così da millennial ed egoriferito?

Siamo diventati semplicemente dei cultori dell’io o c’è dell’altro?

Ecco, io credo di si. Sento ci sia da spezzare qualche lancia a favore di questi selfie.

Parlo a chi almeno una volta nella vita ha provato quella sensazione di completo smarrimento e terrore che nasce dal trovarsi l’obiettivo di una macchina fotografica puntato addosso. Sensazione che si trasfigura attraverso il processo di acquisizione dell’immagine dell’apparecchio fotografico in smorfie terribili, sorrisi tirati, espressioni spaurite o totalmente inespressive.

Nel tempo ho capito che molto dipende da chi ci sta fotografando. In qualche modo finiamo per apparire nel modo in cui quella persona ci vede davvero. E non sempre quel che ne viene fuori è un feedback positivo.

Un’altra buona parte della fotografia dipende da cosa noi pensiamo di noi stessi. Una percezione che può cambiare nel corso della vita ma anche della giornata. Su questa parte qui si può lavorare, certo, nel corso della vita ma spesso della giornata.

Ma sull’altra? Non abbiamo gran margine di decisione. Non tutti abbiamo tra parenti e amici dei fotografi professionisti, di quelli che flirtano con le modelle attraverso la loro Reflex e le decine di obiettivi costosissimi ad essa anessi. Al massimo ci è capitato uno zio che ci ha inquadrate dal basso verso l’alto, un’amica che ha chirurgicamente scovato un rotolino sul fianco che non ti eri mai vista in vita tua, per non parlare delle foto in cui abbiamo gli occhi chiusi, le luci a sfavore o il trucco sbavato.

Allora, se la fotografia in fondo è un’arte, un modo di esprimere sentimenti, emozioni e il proprio modo di vedere il mondo, in un quadro di questo genere, abbastanza deprimente, credo che il selfie ci abbia salvati. Siamo finalmente riusciti ad eliminare il terzo incomodo tra noi e l’obiettivo.

Non dobbiamo pregar nessuno di fotografarci a raffica finché non viene la foto giusta. Dipende solo dalla nostra pazienza e testardaggine. Nessun imbarazzo per le foto in cui siamo orribili, tanto basta cancellarle subito e nessuno le guarderà mai. Possiamo scegliere luci, posa, luogo preferito senza dover spiegare nulla a nessuno. Possiamo osservarci nello schermo senza alcun tipo di condizionamento e imparare a piacere a noi stessi prima che a chiunque altro. A guardarci bene dopo un po’ riusciamo perfino a scovare i nostri stessi pensieri in una ruga di espressione, nel lato verso il quale incliniamo la testa e nell’angolo che assumono i nostri occhi che tuttavia continuano ad essere lo specchio della nostra anima.

E sapete, c’è qualcosa di molto intimo e personale in questo. Quella piccola finestra sul nostro mondo interiore, nel momento dello scatto, resta a nostra disposizione soltanto e non alla mercé di qualcuno che nemmeno ci conosce poi così bene.

Così mentre ci osserviamo ben bene prima di scattare la foto, possiamo perfino scegliere.

Scegliere di mostrare quella tristezza o trasformarla in allegria, di lanciare una corda ad un qualsiasi altro sentimento che può così risalire dai punti più nascosti e profondi di quell’abisso interiore, protetto da sguardi indiscreti e quindi libero di essere se stesso. Il selfie in qualche modo ci ha restituito la libertà di esprimerci e mostrarci al meglio di noi stessi -o al peggio, ma consapevolmente, forse- purché, ecco, non si trasformi sul serio in una sorta di culto della propria immagine fine a se stesso.

Che io credo che la vanità non sia un difetto, anzi. Quest’epoca è piena di spunti e sproni a rimettere noi stessi al centro della nostra vita. Tutti i vari qui e ora, l’attenzione a ciò che mangiamo, il fitness, i divorzi brevi. Possiamo davvero costruire la nostra vita praticamente su noi stessi e basta. E in un attimo la vanità diventa narcisismo.
Quindi, attenzione.

Non eri sola. Per G.

Forse aveva bisogno di qualcuno che le dicesse non sei sola. Che tanto le persone giudicano lo stesso, se sei fidanzata, se non lo sei, se frequenti qualcuno, se è la persona sbagliata, se è quella giusta, se non caghi niente e nessuno e finisci gli esami, se non lo fai, se ti laurei con un voto basso o uno alto, se vuoi restare a vivere nel paesino in cui sei cresciuta o se vuoi andare via, se in fondo non hai chissà quali problemi gravi oppure sì. Ti giudicano se cerchi di essere felice o ti senti comunque troppo triste, se sei in anticipo o in ritardo con i loro tempi, se cerchi a tutti i costi il tuo posto nel mondo e il lavoro dei tuoi sogni o solo uno che ti fa almeno sentire indipendente. Ti giudicano se ti lasci condizionare, se vivi male la pressione o se non te ne frega un cazzo di niente, se hai il coraggio di dire sempre a tutti quello che pensi, oltre le convenzioni sociali, le immagini che si sono fatti di te e le loro aspettative su chi sarai un giorno o se non ce l’hai. ‘Non sei sola’ e soprattutto che aver voglia di perdere la ragione ogni tanto non significa, necessariamente, che per te è finita.

G. ha deciso di togliersi la vita ieri pomeriggio, lanciandosi dal tetto di una delle sedi dell’università che frequento. Aveva raccontato ai suoi parenti e al suo ragazzo di aver finito gli esami e ieri aveva invitato tutti alla sua seduta di laurea. Lei però non aveva sostenuto ancora tutti gli esami e ovviamente non era nella lista di quelli che si sarebbero laureati ieri. Prima che le sue bugie venissero inesorabilmente scoperte si è allontanata dai suoi cari e qualcosa che aveva dentro di sé, o forse qualcosa che ormai non c’era più, l’ha spinta ad andarsene via, per sempre.

La sorpresa è rinascere adesso

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Alzo lo sguardo sui palazzi che formano il parco in cui abito, dal cortile interno. Mi fermo prima di rientrare, il sacchetto dell’umido l’ho già lasciato tra gli altri fuori al cancello. Dovrebbe essere primavera, ma con felpa e cappotto ancora non sento troppo caldo. L’aria è rilassata. In ogni casa i festeggiamenti pasquali si saranno ormai conclusi. Qualche persiana è chiusa, da qualche altro balcone invece si intravedono ancora luci accese. Soltanto dall’appartamento con terrazzo alla mia destra si sentono ancora degli auguri seguiti da vociare e tintinnii. I bambini staranno inventando giochi con le sorprese più o meno utili trovate nelle uova di cioccolata. Mi chiedo cosa stiano facendo tutti gli altri. Gli adulti. Qualcuno forse chiacchiera con ospiti che ancora non sono andati via, qualcun altro sonnecchia sul divano facendo finta di guardare la tv.

E mi chiedo, chissà come è andata. Se questa Pasqua è stata quella che volevano, sempre che se la aspettassero in un modo in particolare. Sempre che abbiano ancora qualche aspettativa e non vivino nella nostalgia di ciò che non sarà più. Chissà se invece qualcuno si è lasciato una vita alle spalle e quest’anno ha festeggiato in un modo diverso ma speciale lo stesso.

Mi vengono le vertigini se penso a tutte quelle cartoline virtuali, le emoticon di pulcini, fiori e baci  fluite a velocità inimmaginabili da uno smartphone all’altro questa mattina, rispetto all’aria così immobile che c’è adesso. Il virtuale dava forma e colore a pensieri astratti, mentre qualcuno si sistemava la cravatta allo specchio prima di scendere per recarsi in chiesa, altri seguivano la messa alla tv approfittando delle preghiere recitate in latino per distrarsi e andare a controllare il ragù che pippiava sul fuoco.

Mi sono chiesta quanti gesti ripetiamo uguali, ogni anno, solo per fingere che non sia cambiato niente. Quanti ne ho fatti, io stessa, che mi sono accorta che era quasi Pasqua soltanto tre giorni fa.

Tutta questa storia della morte e della Resurrezione che senso ha oggi che tutti ormai sappiamo che chi resta soffre più di chi va via? Quante volte la vita fa più male della morte? Chi se ne frega di ciò che sarà dopo se già adesso abbiamo paura anche solo delle nostre stesse tradizioni che hanno sapori diversi perchè il tempo è cambiato e le persone pure e rischiamo di soffrire da un momento all’altro per un ricordo ribelle che sfugge al controllo e va ad infastidire le emozioni che stanno per mettersi a tavola con noi?

Ho alzato ancora di più lo sguardo, fino al cielo e ho raccontato alle nuvole che ho molta più paura di morire da viva che della morte stessa.

Mi sono avvicinata al portoncino che da sull’ingresso. Come si cambia qualcosa che si fa finta non sia cambiato già? Forse è ciò che sta facendo chi stasera sonnecchia, chiacchiera o brinda ed io che ormai sono rientrata a casa ho una piccola idea di rivoluzione qui con me. L’aria calma ha fermato i pensieri e così quella è riuscita a farsi largo nella mia testa.

Domani, domani voglio rinascere io.

Domande di sicurezza in caso di smarrimento della comprensione

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Domanda di sicurezza in caso di smarrimento della password. Clicco sul menù a tendina, scorro una ad una tutte le opzioni e mi soffermo su: nome del tuo amico di infanzia. Mi sembra l’unica domanda a cui potrei rispondere anche tra vent’anni. La seleziono e scrivo il nome della bambina con cui giocavo a far finta di saper scrivere delle lettere lunghissime indirizzate a chissà chi.

Oggi mi fermo a parlare con una conoscente. Suo marito è uno dei facchini che sollevano e portano in processione i famosi gigli, torri altissime fatte perlopiù di legno, protagoniste di feste di paese molto sentite dalle mie parti. Mi racconta della volta che si è sentito male perché dovevano essere presenti ad una cerimonia di famiglia e per questo lui non aveva potuto partecipare alla festa e svolgere il suo compito. Continua a ripetermi se non ci sei dentro non puoi capire. Era completamente in crisi. E’ una passione troppo forte, una fede. Io mi sforzo di capire ma mi rendo conto di non riuscirci. Riesco a paragonarlo al massimo alla volta che non riuscii a partire con la mia squadra di scacchi per un campionato ad Alghero per un problema grave e ci rimasi malissimo.

Insomma mi rendo conto che ci sono cose che davvero non si possono capire. Non si può, in nessun modo.

Mentre lei parla mi torna alla mente la mia amica di infanzia. Suo padre era un facchino. Aveva una gobba rossa e bruttissima tra il collo e la spalla sinistra. Ero piccola e mi faceva davvero impressione. Non capivo. Non riuscivo assolutamente a capire perché una persona dovesse farsi seriamente male per una delle cose, a detta sua, più belle della sua vita. Mi misi in testa che fosse una festa stupida e basta.

Ancora oggi lo penso, nonostante la tipa continui a raccontarmi con passione come si svolge, in cosa consiste, di quanto è importante quella festa anche per lei.

La mia empatia vede passare quel fiume di parole e resta impassibile, immobile. Di solito si tuffa a capofitto senza nemmeno avere il mio permesso nelle emozioni degli altri, ma stavolta no. Approfitto di questa lucidità emotiva alla quale non sono abituata per riflettere sul fatto che davvero, ma davvero certe volte non ci si può mettere nei panni di qualcuno e capire cosa sta provando.

Così come non posso capire perché un tipo che conoscevo da due giorni ha iniziato ad insultarmi dopo avergli detto che ero occupata e non potevo sentirlo al telefono. E’ schizzato perché ha pensato che la mia fosse una scusa. Inutili i tentativi di dirgli che sbagliava, anche se una cosa era vera, lui non mi interessava poi così tanto.

Perché una persona -e anch’io l’ho fatto- reagisce male, più male di quanto dovrebbe, a parole, gesti e silenzi che non le piacciono?

Mi turba la questione. Si perché di solito si lascia perdere e in fondo quella beata, sottile ignoranza mette una distanza tra noi e quella reazione, ci solleva da qualsiasi presunto obbligo e ci fa proseguire per la nostra strada indisturbati. E’ cosi che si fa. Io però non ci sono quasi mai riuscita. Quel senso di ignoranza l’ho sempre rifiutato e deriso anche quando l’ho provato.

Infatti non riesco a non chiedermi se davvero ci si può fregiare di non essere riusciti a capire per poter tranquillamente voltare le spalle e andar via, come se fosse un’assoluzione, un alibi, una chance nel caso si smarrisca la comprensione o se invece si tratta comunque di una triste e inesorabile sconfitta, una piccola grande guerra persa con se stessi.

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immagine dal film ‘Bright Star’ sulla vita del poeta John Keats

E Poi?

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Questa mattina mi sono svegliata in un Paese che non conosco e che non mi rappresenta.

Non tanto per il premier, chiunque sarà perché ricordiamo che nessuno ha davvero vinto, ma per le persone che mi circondano. La maggior parte infatti si è divisa tra Lega e Movimento.

Mi sono chiesta chi ho intorno. Cosa pensa. In cosa crede. Come è possibile sia accaduta una cosa del genere.

Il voto di protesta è un contentino. Ti fa stare bene lì per lì, nel momento in cui metti quella croce su quel simbolo, ma poi?

POI.

Siamo già derisi da mezzo mondo.

L’euro già ne ha risentito in borsa.

Abbiamo una poltrona contesa da un buffone e un ignorante.

Complimenti, eh. Bravi. Vi siete chiesti “e poi?”

E POI?

Dovete vedere con i vostri occhi com’è che non cambierà assolutamente niente, se non in peggio? Avete bisogno di toccare con mano la freddezza delle promesse precipitate al suolo dopo essersi scontrate con la realtà che i signori che avete votato DOVRANNO per forza scendere a compromessi, essere un po’ meno estremisti, più concilianti perché è facile aprire un blog e dipingere il mondo come lo vorremmo (lo faccio perfino io!) mentre la realtà è completamente diversa?

E poi, sono certa, questi signori diventeranno la brutta copia di quelli che avete avuto modo di ascoltare e leggere durante la campagna elettorale. Perché tutto ciò che volevano era colpire la vostra pancia per far sì che come reazione voi sceglieste il loro simbolo nella cabina elettorale.

Tutto qui.

Questo è il voto di protesta.

Eppure avete visto le figure di merda che sta facendo Trump. AVETE SENTITO GLI AMERICANI PENTIRSI DI AVERLO VOTATO.

Ma non è stato abbastanza.

Io ho addosso quella stessa sensazione deprimente che provai quando seppi dei risultati delle elezioni USA. Anzi, non la stessa. E’ pure peggio.

Cronache Dal Condominio #6: La conversazione da ascensore

ascensore donna elevator

Da quando vivo in un condominio ho dovuto imparare in fretta a fronteggiare situazioni che nella palazzina bifamiliare di paese in cui abitavo prima non avevano assolutamente modo di delinearsi per mancanza di elementi che propriamente ne sono le cause.

Non c’era, ad esempio, l’ascensore. Soprattutto, però, non c’erano possibili interlocutori. Di conseguenza, nessun pericolo di rientrare dopo aver portato fuori la spazzatura e trovare davanti all’ascensore qualcun altro in attesa dello stesso. Decisamente, non potevano crearsi imbarazzanti momenti del tipo entro-prima-io-no-meglio-prima-tu dovuti al fatto che non sempre si riesce a riconoscere all’istante la persona che ci è di fronte e ad associare in due nanosecondi il relativo piano d’appartenenza. Che si sa, l’ordine di entrata nell’ascensore deve essere contrario a quello di uscita, per evitare di incastrarsi nel tentativo di scambiarsi il posto o, peggio, di dover uscire fuori tutti per consentire al condomino giunto al proprio piano di raggiungere la porta di casa.

Sembra una cosa stupida, ma trovatevici e poi me lo raccontate.

In fondo pure Einstein l’aveva già detto. Parlando della relatività del tempo una volta affermò: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora“. Si immagini quanto può sembrare lungo il tempo chiusi in ascensore con un estraneo durante il viaggio che porta dal piano terra al quarto piano.

A questo punto, confesso.

Devo dire che ho tentato, a costo di sembrare fuori di testa, ma l’ho fatto.

Eh si perché per evitare di trovarsi in situazioni del genere, specie quando l’umore non è dei migliori, i modi ci sono.

ascensore piano pulsanteUna volta vidi con la coda dell’occhio qualcuno che stava per varcare la soglia del portoncino d’entrata. Per evitare di condividere la corsa col suddetto ho accelerato il passo verso l’ascensore, ho aperto in fretta le porte e mi ci sono infilata dentro senza troppi complimenti. Mi sono sentita in colpa per aver costretto l’altro ad aspettare che io liberassi l’ascensore, ma un po’ anche soddisfatta, ecco.

Qualche altra volta mi è andata peggio. Alla domanda “Deve salire?” ho risposto che no, non avevo bisogno dell’ascensore e che io e le mie due buste della spesa avremmo potuto senza problemi prendere le scale. Aehm.

Poi ci sono quei momenti in cui proprio non puoi defilarti in nessun modo. E ti tocca.

La conversazione da ascensore.

Cosa, ditemi, di cosa si può parlare mai in una manciata di secondi? Di niente. Ecco. Fosse per me starei zitta. Il silenzio però è poco amico del tempo e lo fa sembrare ancora più lungo e imbarazzante. Allora bisogna inventare.

Se ci si trova in periodi di feste, l’argomento è facile da trovare. Pasqua e Natale offrono diversi spunti per considerazioni di pochi secondi, così come se c’è Ferragosto o qualche lungo weekend alle porte. In maniera simile, si può parlare del meteo. L’altro giorno, ad esempio, ho annunciato all’inquilino del secondo piano dell’arrivo di Burian, la perturbazione di origini russe che ha portato la neve OVUNQUE tranne che nella mia città. Il tempo di traumatizzarlo e ci siamo congedati.

Spesso si può prendere spunto dal look, da qualche gossip da condominio, dalla lampadina al terzo piano che è fulminata da due giorni e nessuno è andato ancora a cambiarla e cose così.

Insomma, si sopravvive.

Una volta, però, ne ho proprio approfittato.

Ho condiviso la corsa in ascensore con la vicina di casa. Lì, chiuse nella scatola elevatrice, condividendo poco più di un metro quadrato di spazio e pochi secondi di tempo, senza che potesse fuggire da nessuna parte o avesse la possibilità di cambiare argomento o trovare un qualsiasi motivo per evitarmi, gliel’ho detto.

La scala che ha nel balcone adiacente a quello della mia camera da letto sbatte tutta la notte contro il muro quando c’è vento e non mi fa chiudere occhio.

E che cavolo.

ascensore piani

Gli effetti collaterali della libertà

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Disarm – Pawel Kuczynski

Ieri sera sul tardi girando tra i canali della tv mi sono fermata ad ascoltare un frammento di intervista a degli esperti di cose varie nel quale si parlava dei genitori che sempre più spesso attaccano gli insegnanti dei propri figli ogni qualvolta questi ultimi tornano a casa lamentandosi di un brutto voto o di un rimprovero ricevuto a scuola.

Uno di questi esperti ad un certo punto ha detto:

“E’ una sfiducia tra adulti.”

Una frase buttata lì, in mezzo a tutte le altre. Un pezzo di discorso. Eppure nella monotonia delle voci che stavano facendo da sottofondo ai miei pensieri che iniziavano ad assumere pian piano la forma di un cuscino sul quale abbandonare la mente nonostante la sede -il divano- non fosse la più adeguata, quella frase è suonata in modo diverso. Mi ha colpita. L’ho ripetuta nella mia testa.

Sfiducia.

Adulti.

Sfiducia. Tra adulti.

Ho preso il cellulare e ho aperto l’app che uso per annotare le cose quando non ho a disposizione carta e penna. Un’insalata di post-it virtuali su cui ci sono segnati nomi, link di ricette abbandonati, idee, ricerche da fare, ispirazioni andate a male per esser state lasciate lì a prender aria per troppo tempo.

Scrivi nota. 

Dunque. Un titolo? No. Una breve introduzione? No, era troppo tardi per pensarci su. Alla fine l’ho segnata così. E’ una sfiducia tra adulti. Ho premuto due volte il tasto per tornare alla home, mi sono sforzata di tenere gli occhi aperti il tempo di raccogliere le energie e farmene una ragione del fatto che dal divano sarei dovuta arrivare al mio letto, in qualche modo.

Sapete, uno a volte pensa che il mondo va a rotoli semplicemente perché oggi ci sono molti meno tabù e meno regole ferree da rispettare. Un tempo perfino un’autista di autobus come mio nonno era rispettato come un pubblico ufficiale alle poste o dal salumiere. Gli autisti di oggi nemmeno portano più la divisa. I bambini e i ragazzini sono figli dei social network affidati a genitori che biologicamente li hanno generati, sì, ma non hanno altro compito che nutrirli e comprare loro il necessario per sopravvivere nel mondo insieme ai loro fratelli nativi digitali. Nessun insegnante è più utile di Wikipedia, a meno che non sia in grado di inventare ogni giorno qualche nuovo numero per attrarre la propria platea.

Poi ho sentito quella frase ed è stato come dare una terza dimensione a qualcosa che finora ne aveva solo due. Una sorta di profondità.

Allora li ho visti. Gli autisti di oggi, i genitori, l’insegnante giocoliere. L’ho sentita. La sfiducia. Non una qualunque. Una specifica. Quella nel prossimo.

Ecco tutto. Forse i tabù di un tempo definivano dei ruoli e questo creava fiducia tra le persone. Poi tutto è cambiato. Oggi ci ripariamo dietro gli smartphone per evitare di incrociare gli sguardi degli altri. Siamo convinti di essere autosufficienti finché non ci confrontiamo con il male fisico e sentiamo come una sconfitta l’aver bisogno di qualcuno che possa aiutarci. Siamo terroristi da tastiera ogni volta che in realtà potremmo semplicemente esprimere un tacito dissenso e c’è la violenza dei ragazzini che hanno le teste bacate dalle serie tv nelle quali le persone muoiono per finta, ma in hd.

E cavolo è davvero assurdo che di tutta questa libertà siamo in grado di viverne quasi più gli effetti collaterali che le conquiste per cui tanti prima di noi hanno lottato.