ComeDiari #19: Quattro anni dopo

picture by Yaoyao

Nina gira la testa verso il balcone chiuso. Chissà quanto ci vuole a piedi e poi in treno ad arrivare al mare. Ha deciso, andrà sabato. Venerdì sera preparerà la borsa con un asciugamano, un libro e una bottiglia d’acqua. Basta rimandare. Gli orari dei treni, sì, quelli li vedrà direttamente venerdì. Ora basta perdere tempo, gli appunti non si studiano da soli. Un ultimo sguardo al Sole che brilla solo fuori dalla sua stanza. Arriva un tonfo dalla stanza accanto e lei sussulta, non vistosamente, ma il cuore inizia ad andarle a mille. Si sarà fatto male? Nessun altro rumore. Aspetta qualche istante, così magari si risparmia di andare di nuovo a controllare. E se non fa nessun rumore perché è successo qualcosa come l’altra volta? Le trema qualcosa dentro, si alza quasi buttando via la sedia e corre di là, ma a pochi passi dalla porta si avvicina piano. E’ tutto ok, è solo caduta della roba. Entra, la raccoglie e gliela sistema a portata di mano. Torna alla scrivania, dov’era rimasta? Ah si, al Sole. Forse sabato può approfittarne per fare quelle commissioni che aveva rimandato, pensa. Sì dai, l’estate è lunga, al mare ci andrà un altro giorno. E magari una di queste sere va ad ubriacarsi come non ha mai fatto. Anche se non servirebbe a nulla, insomma, facendo mente locale, quale uomo al mondo ha risolto qualcosa facendosi del male? Mettiamo pure che si faccia male, ma proprio per bene. Uccidendo ogni speranza, ogni luce dentro di sé, toccando il fondo. Ecco. Nina è quasi sicura che al mondo sono stati toccati già tutti i fondi possibili. Non è rimasto un solo modo originale di farlo. Ne ripassa a mente alcuni senza accorgersi che nella stanza inizia a farsi più buio. Invece, riflette, è molto più probabile che esista ancora un modo di essere felice che nessuno ha sperimentato mai. Si ripromette che l’indomani si metterà più presto sui libri, ormai si è fatta sera.

Nina alza la testa verso il balcone chiuso. A quell’ora, quando finisce di lavorare, la luce che entra da lì attraversa il living e inonda la sua piccola palestra nell’ingresso come una lingua dritta di fuoco. Sembra che il Sole offra una specie di sentiero a lei che pedala da ferma e la proietti direttamente fuori. Il cuore inizia ad andare a mille e lo legge bene sullo smartwatch al polso. Nelle orecchie la musica copre qualsiasi rumore, anche quello un po’ cigolante dei pedali che avrebbero bisogno di un po’ d’olio. Muove le labbra sulle parole straniere che la inebriano. Accelera sempre di più, abbassa le spalle come se dovesse tagliare meglio l’aria. Tenta di seguire gli intervalli del ritmo tabata che si è data, quaranta secondi di sprint e dieci di recupero, ma questi ultimi alle volte se li scorda quando arriva la canzone che la scatena più di tutte. Quella che la fa sentire bella, forte e selvaggia. Le gambe nemmeno le fanno male, saranno dolori dopo, ma non le importa, anzi. Saranno il segno che ha faticato per bene. La lingua di fuoco diventa tutte le strade del mondo, sono tutte lì davanti a lei. Niente le sembra più impossibile. Le passano i nervi, le paure, i dubbi. Il benessere la invade come una droga, sempre lì, sempre disponibile, bastano le cuffie, i suoi pesi e le scarpe da ginnastica.
Dopo si metterà sui libri, ormai si è fatta sera.

Il silenzio e il foglio bianco

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Un foglio bianco a me, un foglio bianco a lei. Una matita ciascuna.

Dai fai un disegno. Ne faccio uno anch’io e poi decidiamo qual è il più bello.

Panico.

Ero davanti ad un foglio bianco e mi è presa l’ansia.

Volevo spiegarle che il foglio mi sembrava perfetto così, bianco, e che non c’era nessun bisogno di sporcarlo. Ho sbirciato sul suo foglio. Aveva iniziato con un sole dai raggi ondulati e con il cielo. Era già al prato verde.

Non hai disegnato ancora niente? Guarda che io sono già avanti.

Guardavo la matita e il foglio. Una farfalla? No, banale. Fiori? Ancora peggio. Aiuto! Fantasia, dove diavolo ti sei cacciata? Ti sembra il momento di fare l’esistenzialista? Serve un disegno e serve adesso. Diamoci una mossa. Un disegno. E allora. Su. 

Guarda che poi devi anche colorarlo.

Al centro del suo foglio era apparsa una specie di caverna. Ah no. Uno, due, tre… Ah no, ecco, ha troppi strati. Un arcobaleno. Porca miseria. Ero rimasta indietro. Mi sentivo pessima. Eppure è come tutte le volte che non riesco ad interrompere il silenzio o come quando mi piace ascoltare solo i rumori che vengono dalla strada. Le voci, i clacson. Il mio preferito però resta sempre quello della pioggia. Meglio ancora se è un temporale. Mi fa stare bene. Nessuna melodia o canzone vale la pena di interrompere quel suono cadenzato e imperfetto che nessuno ha scritto e nessuno sa come finisce e nessuno mai potrà ripetere uguale. Perché dipende dall’intensità della pioggia, dalla grandezza delle gocce d’acqua, dagli ostacoli che incontrano cadendo e dall’inclinazione con cui li colpiscono. In mancanza di pioggia c’è sempre il silenzio che racchiude tutte le melodie, come la luce bianca che è composta da tutti i colori dell’arcobaleno. E cavolo la musica alle volte è così tremendamente banale. Sai già come inizia, sai già come finisce.

E vorrei spiegarle che è solo da poco che ci ho fatto pace e poi sarà la volta dei fogli bianchi. Una cosa alla volta.

La musica mi ha spiegato che se interrompo il silenzio non è vero che poi succede qualcosa di brutto. E tu, foglio bianco, sai cosa vorrei che mi dicessi? Che i miei sogni non si frantumano se non penso solo e soltanto a come realizzarli.   

All’arcobaleno mancavano giusto un paio di colori e poi sarebbe stato completo. Ho sorriso. Mentre ero lì a pensare è apparsa sul mio foglio una ragazza dai capelli foltissimi seduta a gambe incrociate sul suo divano e con una tazza fumante in mano. Un gatto dormiva beato sul tappeto davanti ai suoi piedi.

Alla fine ho disegnato il silenzio, su un foglio bianco.

 

Di Canzoni, Incubi E Riflessioni Da Ora Tarda

Credi che sia così coi nostri sogni e i nostri incubi, Martin?
Dobbiamo continuare ad alimentarli perché restino in vita?

[John Nash – A Beautiful Mind]

 

Da piccola avevo paura di una canzone. Strano, assurdo, ridicolo, si, ma vero. Avevo otto anni circa e più o meno a metà della seconda o terza traccia del cd, un cantautore italiano, niente di strano, scoppiai a piangere. Ne avevo una paura irrazionale, inspiegabile. Smuoveva qualcosa in me che mi faceva profondamente orrore. Non avevo associato alcun brutto ricordo o sensazione, niente di niente, non ricordavo nemmeno più le parole, solo la musica, e la trovavo terrificante. La cosa ancor peggiore, poi, è stata che per anni non ho avuto la minima intenzione di affrontare la cosa. Stava lì, semplicemente. Era diventata una paura da compagnia. Come se un bambino si affezionasse al mostro chiuso nell’armadio di fronte al proprio letto, a patto che se ne stia lì buono senza fiatare e soprattutto non se ne vada via lasciando al proprio posto un vuoto ancora più estraneo.

Un bel giorno può accadere che qualcuno o qualcosa sfondi la porta dietro la quale abbiamo nascosto ogni nostra fragilità e fermi davanti ad essa le vediamo vorticare, come foglie che danzano con l’autunno, ma cadute chissà quanto tempo prima. Increduli di fronte all’evidenza che forti non siamo vorremmo soltanto che quel qualcuno o qualcosa tornasse immediatamente indietro ad aiutarci a fissare qualche asse di legno perché se la loro assenza fa male sembra sia ancora più dolorosa l’idea di farcela ugualmente da soli, come se bastarsi avesse un po’ il sapore di una condanna. Per tanto tempo mi sono chiesta se questo fosse un desiderio ovvio o solo un’idea irrazionale, una di quelle a cui soltanto la testa che l’ha generata da’ credito e pure più del dovuto. Ho visto porte sfondate in cuori che credevo più tosti del mio, trasformati in buchi neri che attiravano ogni negatività, soffrendo tanto, troppo, di parole e comportamenti che pensavano e pensano ancora di non meritare affatto.

Per quanto effettivamente sia un desiderio ovvio quello di voler avere accanto qualcuno che ci passi chiodi e martello per far quello che da soli ci siamo stufati di fare, è anche vero che la maggior parte delle idee irrazionali son tutte figlie di una sola dannatissima cosa. Non accettarsi. Non accettare di essere più complessi, più sensibili, di avere delle debolezze che si sono aggiunte in corsa e che non avevamo portato con noi fin dall’inizio del viaggio. Non avevo mai detto a me stessa prima io sono anche questo. Io sono anche ciò che ho paura di affrontare. Pensavo che il lasciar vivere quieto il mostro nell’armadio avrebbe preservato ciò che sono e mi piace essere. Invece, al contrario, chi mi vuole bene (o spero) mi stava facendo notare che proprio così stavo diventando tutt’altro.

La storia della canzone è finita un pomeriggio di qualche anno fa sgombro di pensieri superflui con me armata di cuffiette e si, diciamo, un po’ di coraggio. Qualche secondo dopo aver premuto play scoprii che alla rassegnazione si stava sostituendo la curiosità. La rimandai almeno altre tre o quattro volte. Capii cosa mi spaventava. Mi ci misurai come un pugile fa con l’avversario che teme di più. Adesso, ecco, non è diventata esattamente parte di qualche mia playlist. Io però avevo vinto una sfida e sentii di apprezzarmi.

E d’accordo si, che non si sappia troppo in giro, apprezzai un pochino, ma proprio un po’, anche lei.

Il Mio Demian

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  La dj alla radio porse una domanda all’ascoltatrice al telefono, cogliendo la mia attenzione che fino a quel momento doveva essere stata altrove. Non ricordo a cosa pensavo prima, a parte il tizio che da dietro lampeggiava, ma ricordo abbastanza bene tutta la serie di riflessioni che presero a ronzarmi per la testa, finché non giunsi a destinazione.

E allora quand’è iniziato il vostro amore? 

  Sono certa che la tipa rispose qualcosa riguardo l’inizio della relazione con il suo uomo, ma non l’ascoltai per niente perché mi arenai sulle parole “iniziato” e “amore” convinta che fossero accostate in modo strano, che nella stessa frase facessero un po’ a botte, che non suonassero bene insieme. Adesso scrivendolo mi rendo conto di quanto questa sia solo una pignoleria, che tante volte si usano le parole in maniera che insieme rendano un concetto più generico e intuitivo, eppure quella stranezza mi attraeva e mi portava lontana dalle loro voci.
L’amore è davvero qualcosa che inizia? Esiste un giorno, un istante specifico in cui ci si sente innamorati? Direi che si, esiste ed è più o meno quando gli occhi si aprono un po’ di più e il cuore aggiunge battiti a quelli già schierati, ma è più una consapevolezza che un inizio. Non è che un momento prima non ne avessimo affatto dentro e quello dopo lo si sente guidare i passi, le parole.
  Sono i rapporti ad iniziare, come i viaggi, ma l’amore sa dedicarsi anche a giornate di sole, onde di un mare. Se non inizia, dunque, non finisce. Non si lascia uccidere, tormentare, smontare o ingannare. Sa proteggersi. Avrei potuto sbottonare mille corazze e spogliarti di altrettante paure e ancora non baciare la tua pelle davvero. Si lascerebbe accarezzare appena, un giorno e poi cercarsi un’altra casa, quello dopo. Vagherebbe per giorni in completa solitudine pur di trovare un nuovo arcobaleno dal quale tuffarsi. Anche sapendo di questa sua proverbiale costanza, mi son dovuta ripetere più di una volta che non si parte per scappare. Che scappando non esiste posto in cui poi si possa dire di arrivare. Credo di aver barato chiudendo questa convinzione in valigia pochi minuti prima di andare, per portarla con me, si, ma senza averla in continuazione tra i piedi. Avevo camminato sul fondo sconnesso di un fiume in secca e non avevo più idea di cosa significasse essere trasportati dall’acqua, galleggiare senza opporsi alla corrente, non ferirsi ad ogni passo. Mi sono chiesta come avrei potuto sentire ancora quella sensazione di libertà, di vita. In che modo quel fiume che non ha né inizio né fine avrebbe potuto investirmi ancora, anche soltanto per sentire il profumo del cielo e chiamare amica ogni nuvola che coprendo il sole bisbiglia tenerezze di un autunno anticipato, piuttosto che tristezza. Allora ho aperto un libro. Ho osservato a lungo persone che avevo intorno, l’affetto nelle mani, l’amore negli occhi, la solitudine nei passi e i sorrisi rivolti al sole. Non so come tutto ciò si legava al libro che leggevo o come quest’ultimo tirasse fuori da ogni immagine proprio ciò di cui avevo bisogno. E’ come se qualche volta dei libri non capitino tra le mani per caso. Hanno con sé risposte, spunti, idee nuove, idee che si collegano alle tue e le ampliano, le abbelliscono. Mi sono trovata in un turbinio di parole e sogni notturni, strette di mano e sguardi che superavano distanze di gran lunga maggiori di quanto sembrasse. Come quelle che per tanto tempo ho guardato, analizzato e combattuto per niente. E’ stato diverso e meno coinvolgente, ma affascinante come pochissime altre cose di cui sono stata circondata negli ultimi mesi.
  Sono i viaggi a finire, come i rapporti, ma l’amore siede accanto a te al ritorno e saltella tra foto e cartoline memorizzando dettagli, luci e proiettandosi a sua volta su cose ancora non dette, ancora non viste. Sento la testa piena di un mucchio di cose nuove adesso, frasi iniziate e da finire, pezzi di idee che aspettano di essere seguite. E’ un nuovo punto di partenza questo, un fermento, uno slancio in cui spero di trasformarmi, per viaggiare ancora.

 

*… Proprio Lì, Tra Un Sogno E L’Altro …*

E chi l’avrebbe mai detto che poi congedarsi da un sogno che ormai sta diventando realtà non è proprio semplice come schioccare le dita. Questa cosa mi ha sorpresa abbastanza. Non me l’aspettavo. Come vedere in un sorriso quella forza ed ingenuità ed euforia che anni prima erano già lì e non aspettavano altro che essere ritrovate ed accolte come vecchie amiche. O come l’affetto ricevuto da chi non avrei mai detto che si è aggiunto all’amore e alla forza di chi non è potuto esserci (e qualcuno sta pure contrattando su un replay della presentazione, ma resisto eroicamente).

Come si chiama quello spazio elegante, delicato e magico che si trova proprio lì, da qualche parte, tra un sogno e l’altro?

Me lo chiedevo questa mattina mentre mi svegliavo. E chissà quanto tempo passa di solito prima di proiettarsi in un sogno nuovo e quanto veloce vanno le idee da quelle parti e che forma hanno. E chissà quante volte ci sarà da cambiar domanda perché magari il problema è lei e non la risposta.

La questione è che nei sogni non si sta mai fermi. E d’accordo, c’è il giorno che non hai la maledetta voglia di far niente. E quello in cui non ti riesce niente, nemmeno una frase di senso compiuto. E quel giorno ti appoggi alla ringhiera del balcone e guardi altra vita, che va ad altri ritmi, magari anche più lenti, come quello di una foglia che ti accorgi stava ingiallendo solo quando la trovi a terra caduta. E quella terribile sensazione di esserti persa qualcosa. Ma nemmeno in quel momento sei ferma. Rallenti, rasenti lo stallo come un gabbiano che prova a volare lentamente o un aereo che mentre passi con l’auto in tangenziale sembra sospeso nell’aria proprio sopra la tua testa e sai benissimo che non è possibile  e che si sta solo muovendo pianissimo. E capisci allora che la velocità la decidi tu. Corri per non perdere un treno oppure con la mente, per non perderti un’idea. E da quanto vai veloce determini anche cos’è che può fermarti. Ops, rallentarti. Se diventi brava salti perfino l’ostacolo in corsa, ma capita anche che lo prendi alla grande. Tanto sei in un sogno e non puoi fermarti. Pensi sempre a cosa fare dopo.

Poi, ti trovi in quello spaziò lì ed è una sensazione così diversa e bella. Mille cose che ti frullano per la testa. Mentre sei ferma in un punto che non sai dove sia e ti guardi indietro. E sbirci in avanti.

Giusto per prendere ispirazione. Giusto il tempo di tracciare una rotta nuova…

((:

*… Immagini …*

Eri tu lì, dannazione. Eri proprio tu.

Le cose cambiano d’aspetto sotto una luce diversa. Anzi, senza, non le vedremmo proprio. La luce definisce i colori. E i confini, i contorni, le forme. E nemmeno si mostra per intero agli occhi. Si nasconde in lunghezze d’onda che loro non possono percepire. Quando le pare ci gioca e nei tuoi ci finisce a tradimento, all’improvviso e loro se la prendono, eh. Scende una lacrima. Che porta con sè un po’ della matita nera che sfidando il caldo era rimasta attaccata, fedele, alla pelle.

Maledetto raggio di sole. Quelli lì erano i tuoi capelli. Il tuo profilo. Il mento e la barba e la testa un po’ inclinata e le mani che gesticolando accompagnavano le parole. E quella perfino una camicia che dovevo averti visto addosso una di quelle volte che il cuore s’è perso un battito tra le aiuole ai lati della strada adiacente. Se ne è persi parecchi, in realtà. Un po’ perchè aveva imparato e guidava i passi per trovarsi lì, in quel punto e in quel preciso istante. Altre volte ci finiva davvero per caso. Con tutto ciò che per caso vuol pretendere di significare. La parola coincidenza deve averla inventata quel furbo lì. Tanto per levarsi dai casini. Se solo si sprecasse a dare una spiegazione logica, ogni tanto. Invece no, coincidenza è perfetto. Così lui non c’entra nulla. Tu ti ritrovi lì e non sai perchè. Non è colpa di nessuno, o di nessuno che rientri in quello spettro di luce visibile, almeno.
Colpa, poi. Suvvia, casomai merito. Perchè tante volte quel sorriso, in beffa alla luce, illuminava tutto in maniera più forte e più bella. Alla faccia dei fotoni. Se ne sarebbero pure potuti tornare a casa loro, qualche migliaio di chilometri lassù.

L’immagine che mi era apparsa davanti eri tu, seduto al’ombra del gazebo, in strada, parlando con qualcuno al tuo fianco. Di lì a pochissimi metri avrei cercato anch’io un posto all’ombra e chissà, uno sguardo. Dove gli occhi non arrivano ci pensa la testa a metterci una pezza. A completare l’immagine. Come se ci fosse una zona buia che deve sembrarti così inopportuna che in automatico, voilà, è lì che appare il pezzo mancante del puzzle.

Mezzo metro. Mi chiedo pure che ci fai lì, che nemmeno ti ci avevo mai visto in quella pizzeria. In effetti altre volte mi sono chiesta, mentre appena mi rendevo conto di esser sveglia e che un raggio di sole filtrato dalla persiana ancora abbassata tentava di convincermi che fosse già mattino, che ci facevi lì. Lì, quel luogo assolutamente libero di inventarsi idee di spazio e tempo o di sentirsi così stretto ed imbrigliato in esse da potersene fregare altamente, lasciando a te l’ingrato compito, appena aperti gli occhi, di collocarti di nuovo in un qui e un ora. Che ci facevi tra immagini senza senso, volti inventati e altri un po’ meno, nonostante fosse da tempo oramai che mancavi anche dai sogni ad occhi aperti.

Un istante. Giusto il tempo che quel raggio di sole rimbalzi via dai miei occhi. Giusto il tempo che, passando una mano tra i capelli mossi dal vento, mi accorgo che non ci sei più.

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*… Strangers Like Me …*

Una cosa che davvero non sopporto sono i giudizi superficiali. Quando così, alla leggera, si spara a zero su qualcuno o qualcosa senza nemmeno approfondirne la conoscenza. Anche di un minimo. Il più delle volte si tratta di una sorta di trappola, nella quale non è difficile cadere, anche per la sottoscritta. Ma almeno provo a tenere a freno la lingua e ad odiarmi profondamente quando una certa apparenza fa si che scattino nella mente considerazioni affrettate e fuori luogo.

Anni fa ero al bar di fronte alla mia scuola con mia madre. Eravamo in fila davanti al bancone per ordinare e dietro di me c’era un’altra ragazzina che a stento conoscevo. Ad un certo punto, con aria allucinata mi disse -Ma tua madre è straniera??-.
Perplessa, la guardai. Cercavo in qualche maniera di capire com’è che fosse arrivata a quella brillante deduzione. Non che ci fosse qualcosa di male o di strano in un’affermazione del genere, ma ero curiosa di sapere in che modo potesse apparire tale, visto che l’idea non mi aveva mai sfiorata minimamente. Le dissi allora -Perchè, scusa?- e lei, che sembrava ignara del fatto che mia madre intanto seppur di spalle stava ascoltando l’improbabile conversazione, si affrettò a dire che poichè biondissima, carnagione e occhi chiari e inoltre non spiccicava parola, non poteva che essere straniera. Elementare, Watson. La rassicurai sul fatto che fosse nata e cresciuta in Italia, ma non contenta aggiunse -Davvero?- al che risposi -Si cara, penso che se non fosse stato così l’avrei certamente saputo-. Immagino che se ne fece una ragione, visto che ordinammo e andammo via senza dire altro.
Quella però non fu l’unica volta che capitò una cosa del genere. Qualche tempo dopo, infatti, ci trovavamo da Tezenis a fare shopping. Si avvicinò una signora che, senza accorgersi che mia madre stesse di spalle e immersa ad esaminare delle taglie, chiese -Scusi, ma secondo lei questo è un pigiama?-. Non pervenì risposta e io che vidi la scena da poco lontano notai che proprio non aveva sentito la signora. La quale imbarazzata concluse -Ah si vede che è straniera, non mi ha capita.-. Mi guardò per cercare conferma della sua considerazione. Io non riuscii a dir nulla prima di scoppiare a ridere e mentre mia madre si stava voltando attirata dal movimento, la signora andò via contrariata. Le raccontai velocemente cos’era accaduto e finimmo a ridere di nuovo.
In seguito a questi due episodi iniziammo a rassegnarci. Già parlai della volta in cui una mia amica ed io fummo scambiate per polacche da un signore anziano in un pullman. Addirittura mia madre mi racconta che quando incontra donne dell’est nei mezzi pubblici nota espressioni di sollievo sui loro volti. Come se si rilassassero nel vedere una presunta conterranea.

C’è una donna dell’est che vive ormai da anni nel nostro paesino che sente un particolare feeling con mia madre. E’ una bella donna, alta, bionda, che ce la mette tutta per integrarsi e sentirsi del posto. Vorrei dirle che è una vita che ci provo io che son nata soltanto a 40 km di distanza, ma tralasciamo. In particolare quando vede mia madre, che sia al supermercato o nella sala d’aspetto del medico, diventa pure più spigliata, come se avesse vicina un’alleata. Anche se più che alleata è semplicemente aperta e di modi gentili, come con chiunque altro. Un giorno mi feci raccontare la storia di questa signora. Una storia che tutti hanno sentito almeno una volta. Quella classica. Venne in Italia da ragazza, trovò lavoro come colf in una famiglia della quale dopo anni fece proprio parte, perchè la coppia si separò e iniziò una relazione tra lei e il capofamiglia. Qui nasce uno dei giudizi più superficiali che si sentono dire in giro. Le donne dell’est sono delle rovina-famiglie. Arrivano belle, sempre in tiro e sensuali a conquistare (per rubarne i soldi, ovvio) l’uomo di turno scontento della propria relazione coniugale. Per cui vengono additate e allontanate dalle donne italiane che si sentono offese dalla loro presenza. Io non nego che ci siano anche casi del genere. Dall’altro lato però io vedo tante, tante donne italiane che non aiutano la situazione per niente.

Per non farla tragica, vorrei solo ricordare un punto del monologo di un comico, che al momento non ricordo chi è, che diceva più o meno così: “Le mogli se la prendono sempre con i mariti. Non c’è niente da fare. Quando lui torna la sera a casa dopo una giornata di duro lavoro, stanco, distrutto, che a stento trascina i piedi a terra per camminare e prova a dire -Non ce la faccio più, sono esausto, oggi il lavoro è stato pesante- lei risponde sempre -Eeeeh tu sei stanco? E che hai fatto? Sei solo andato a lavoro. La MIA giornata è stata pesante. Da stamattina ho fatto i letti, ho spazzato, fatto i panni, stirato, lavato a terra, fatto la spesa, presi i bambini a scuola, cucinato, lavato i piatti, spolverato e mo ti sto preparando pure la cena. Io nun c’à facc’ cchiù. Io ho lavorato. E mi vieni a dire pure che sei stanco. Guarda qua come sto combinata io! E la giornata ancora non è finita! E poi tu non fai mai niente in casa!-“.

Ed è così che sembriamo anche da fuori, trasandate e isteriche. Questo mi fa arrabbiare, perchè appunto ho avuto modo di capire di cosa sono capaci superficialità e ottusità. Generano incomprensione, scontentezza e pregiudizio. E una facilità spaventosa nel dare la colpa allo straniero, piuttosto che a se stessi. Come se ci fosse bisogno della bionda-fatale per far finire un matrimonio, in queste condizioni, senza considerare che basterebbe anche un’altra italiana messa un po’ meglio.

E invece no. E’ colpa della colf. E, da qualche anno, è colpa dei cinesi se l’economia italiana va a rotoli. Relazioni causa-effetto da brividi. Non è che, per dire, i cinesi trovino terreno fertile per i loro affari in un Paese dove l’economia fa schifo di suo? E nel frattempo, io continuo a vedere gente ipocrita pronta ad additare il diverso come una minaccia. Ipocrita perchè quella minaccia un istante prima le fa comodo, quello dopo ne sparla tremendamente. L’altro giorno entrai in un negozio d’abbigliamento cinese. Non mi faccio alcun problema, soprattutto da quando ho scoperto che la mia adorata felpa Ferrari ha un bel Made In China stampato sull’etichetta. Presi una graziosa maglia a stampe floreali e mi avvicinai alla cassa. C’erano due signore avanti con l’età davanti a me che tentavano in ogni modo di tirare sul prezzo di ciò che stavano acquistando. Dietro al bancone una giovane cinese con aria smarrita. Ripeteva come un disco rotto che la merce era già in saldo e non poteva fare ulteriori sconti. Quel po’ di italiano che sapeva l’aveva già esaurito da qualche minuto. Le signore continuavano ad insistere e lei non sapeva più come farglielo capire. Era imbarazzata e spaesata. Mi sentii male per lei. Chi diavolo ha il diritto di pensare anche solo per un istante che persone come lei si divertino a vivere in un Paese di cui non capiscono lingua, usi e costumi e non amerebbero mille volte di più guadagnarsi quei pochi soldi tra la propria gente? Se fosse stata un’italiana al primo NO avrebbero desistito subito. E’ italiana, magari ha figli da sfamare a casa e sta lavorando sodo. Quella lì è straniera, invece, è venuta qui solo per prendersi i nostri soldi, è giusto metterla in croce più del solito. E’ così che si ragiona. Almeno avessero un minimo di coerenza. Se disprezzi tanto, non venirci proprio. Mentre pensavo a queste cose e ad una maniera per farglielo capire senza essere troppo scortese la cinese mi notò. Capì che a causa loro stavo aspettando da un po’ e il fatto che le stessi guardando la mise in ulteriore imbarazzo. Decise allora di mettere le signore in stand-by da un lato del bancone e far pagare prima me. Fece in modo che ne guadagnassimo entrambe. Io mi sbrigavo, lei prendeva tempo e si toglieva un paio di occhi di dosso. Infatti dovetti andar via e mentre uscivo sentivo le signore finalmente capitolare.

Chissà quante volte le sarà successo. Chissà quanti sguardi accusatori la bionda deve sopportare ogni giorno. E ci sarebbe un elenco infinito da fare. Chi può giurare che un giorno non potrà trovarsi nei loro panni in un Paese sconosciuto a fare un lavoro che non gli piace con il pensiero rivolto costantemente ai propri sogni, sempre che ce ne siano ancora? Chiunque può apparire straniero agli occhi di una qualunque altra persona. Non è così difficile. E non lo sarebbe nemmeno mordersi la lingua una volta in più e dire una stronzata in meno. Perchè per una volta si potrebbe guardare negli occhi chi si ha di fronte e vederci del dolore. Un’ombra sul viso, che scappa via veloce mentre una finta espressione spavalda prende il suo posto.
Nell’esser pronti a riconoscere che anche noi siamo degli stranieri per loro che non sono nati qui, ci scommetto che ne potremmo guadagnarci tutti.

Un sorriso.

“Voglio sapere, puoi farmi capire?
Io voglio sapere di questi stranieri come me

Dimmi di più, per favore fammi capire
C’è qualcosa di familiare in questi stranieri come me…”

* . . . Fireflies . . . *

Non crederesti ai tuoi occhi
se dieci milioni di lucciole
illuminassero il mondo
nel momento in cui io mi addormento
perchè loro riempiono l’aria
e lasciano le lacrime ovunque.
Penserai che io sia un pò rozzo
ma resterei lì semplicemente ad osservare…

Mi piacerebbe credere che
il pianeta Terra giri lentamente
è difficile dire che io
resterei sveglio piuttosto che dormire
perchè niente è mai come sembra.

Perchè riceverei un migliaio di abbracci
da diecimila insetti luminosi
mentre cercano di insegnarmi come ballare
una fox-trot sulla mia testa
un sock-hop sotto il mio letto
la palla della discoteca
è appesa ad un filo.

Mi piacerebbe credere che
il pianeta Terra giri lentamente
è difficile dire che io
resterei sveglio piuttosto che dormire
perchè niente è mai come sembra
quando mi addormento…

Lascio la porta aperta come tentativo,
per favore portatemi via da qui
perchè soffro d’insonnia
per favore portatemi via di qui
perchè sono stanco di contare le pecore?
Per favore portatemi via di qui
quando sono davvero troppo stanco
per addormentarmi tra dieci milioni di lucciole…

Sono un tipo strano, perchè odio gli addii
ho gli occhi pieni di lacrime
qundo mi dicono arrivederci.

Ma saprò dove molte di loro saranno
se i miei sogni diventeranno bizzarri
perchè ne ho salvata qualcuna
e le tengo in un vasetto…

Mi piacerebbe credere che
il pianeta Terra giri lentamente
è difficile dire che io
resterei sveglio piuttosto che dormire
perchè i miei sogni sono stracolmi.

*. . . Principe Azzurro…Vendesi . . .*

L’altro giorno su facebook mi si ripresentò davanti per l’ennesima volta quel link che fa più o meno così: “Incolpo la Disney per le mie aspettativa troppo alte sugli uomini!”. Al quale seguono più o meno lunghe invettive contro gli uomini incontrati nella propria vita. Io son cresciuta a pane e Disney (ma anche a pane e polizieschi, gialli e fantascienza però) e ancora oggi, quando la mia amica che è in pratica la Treccani dei classici del caro Walt scopre che me ne son persa uno, mi costringe a colmare le mie lacune e non mi da’ pace finchè non lo faccio. Ho visto Pocahontas per la prima volta l’anno scorso, per dire. Per cui quando sento queste cose scatta dentro me un moto di ribellione. Il fatto è che stare a discutere su facebook è come lottare contro i mulini a vento, praticamente una causa persa, perchè alla fine vale la legge del “guarda e passa” quando non sei d’accordo su qualcosa e poi ci si potrebbe dedicare una vita intera a contestare tutti i link che vengono pubblicati. Magari pur perdendo un po’ di tempo con uno di essi, ce ne sono già almeno un altro centinaio pronti a ripresentarsi sulla tua bacheca e quindi qualche volta le mie idee restano in un angolo della testa, finchè non decidono di mettersi a manifestare e lì non c’è scampo, vogliono il loro spazio.

Il famoso principe azzurro. Bello, alto, intelligente, con la fortuna sfacciata di trovarsi al momento giusto nel posto giusto, futuro re, gli riesce qualunque sport e tecnica di combattimento, un po’ poeta, amante dell’arte, sensibile, dolce, che conosce l’etichetta e le donne, un po’ meno la moda. E’ praticamente perfetto. Mi sembra alquanto ovvio che un uomo con tutte queste caratteristiche messe insieme non sia verosimile. E non tanto perchè non l’ho mai visto con i miei occhi, ma semplicemente perchè il concetto di perfezione è intrinseco ad altre cose e non alla natura umana. Quindi già il fatto di aspettarsi che da qualche parte esista un essere così fatto è discutibile. Lo è però anche un altro aspetto. Mettiamo pure che esista un uomo del genere, quello delle favole, tu che te la prendi tanto con il povero Walt nemmeno sei la reicarnazione di Biancaneve però. E scusa. Se per assurdo dovesse presentarsi nella realtà una situazione come quella e da un lato ci fosse un principe azzurro qualsiasi, dall’altro perchè non ci si dovrebbe aspettare una vera, stupenda, angelica principessa? La grazia e la dolcezza fatte persona, un animo puro, gentile, premuroso, roba che nemmeno gli stilnovisti l’hanno mai immaginata così.

Perchè pretendere un uomo da favola e poi non sforzarsi nemmeno un pochino a credere ancora nell’amore? Ecco il vero problema qual è. Si da’ sempre la colpa ad un’infanzia trascorsa a sognare ad occhi aperti, la si maledice, si rinnega il tempo trascorso allegramente in compagnia di quei personaggi fantastici, tutto perchè dentro si ha un cuore ferito, malmenato che non batte più come quando si era donato completamente a quell’amore. Il tempo si passa a lamentarsi, a trovare mille e più modi per screditare l’intero universo maschile e a dare la colpa a Walt Disney nemmeno fosse un criminale. E invece a me non sembra abbia mai detto che la sofferenza non esista. Ha detto che esiste l’amore. Non capisco perchè le due vengono prese per affermazioni interscambiabili.

-Tutti i personaggi dei cartoni e delle favole devono essere esagerati, quasi caricaturali. E' la vera natura della fantasia e delle favole.-

-Tutti i personaggi dei cartoni e delle favole devono essere esagerati, quasi caricaturali. E’ la vera natura della fantasia e delle favole.- Walt Disney

Su questa cosa ebbi modo di riflettere parecchio circa un anno fa e arrivai ad una conclusione che non dimenticherò facilmente. Avevo avuto anch’io da poco dei momenti di sconforto a causa di persone che capii nella mia vita non ci sarebberò più state, a danno dei miei sentimenti. Mi chiedevo se il mio cuore sarebbe rimasto così ferito da non voler mettersi più in gioco, mai più, per paura di soffrire ancora, di non essere ricambiato, di altre delusioni. Se valeva la pena credere ancora nell’amore. Avevo in braccio la mia baby-cugina, che ha due anni ora e già cambiato un paio di volte il proprio idolo, da Minnie a Peppa Pig. Non oso immaginare quando sarà grande di cosa sarà capace. Adesso ha pure imparato a dire “C’era una volta una principessa…” e un pezzo alla volta inventiamo qualche favola un po’ sgangherata, ma divertente.
Accadde una sera che era stanca, sfinita (in realtà aveva sfinito già prima me, ma sorvoliamo), venne in braccio e si sistemò sulla mia spalla, parlavo con altre persone e poco dopo mi accorsi che si era addormentata. Il che non è usuale, perchè di solito lotta per non far finire mai la giornata. La guardai e mi venne un brivido. Una bimba che si fidava di me a tal punto da cedere agli occhi che le si chiudevano per perdersi nel mondo dei sogni. Come per dire che era al sicuro con me come nella sua amata culla. La guardai, con quelle questioni in testa che mi tormentavano. Chissà cosa c’era dietro ai suoi occhi, mi chiedevo. Continuavo a guardarla come se sapessi già che era lei, in quel momento, la mia risposta. Qualcosa alla gola mi dava un fastidio tremendo. E poi pensai, scandendo le parole come se gliele stessi sussurrando davvero: sai, non posso raccontarti che l’amore non esiste. Come faccio a dirti che un giorno, forse, arriverà qualcuno, che non ti amerà mai abbastanza perchè è ferito, deluso da qualcun’altra che prima di te gli ha fatto del male e che tu non avrai mai l’amore, l’attenzione, la felicità che meriti. Qualcuno che si farà le domande che mi faccio io. E’ come se già adesso, in questo momento, ti svegliassi per dirti che la vita è triste. Non posso raccontarti una storia così. E allora non posso raccontarla nemmeno a me stessa. In fondo, ero anche io una bimba come te.
Chi viene dopo non può aver colpa per ciò che è successo prima. Non posso essere così ingiusta.

Decisi che l’amore va difeso. Non è una questione di principi e principesse. Quelli sono personaggi, come quelli di un film qualsiasi. La vita non è una sceneggiatura già scritta e se pure lo fosse non ci è dato leggerla prima. Quel film, quella favola ti lascia però qualcosa in più di una trama. Ti lascia un sentimento. Ed è quello che bisogna portare con sè, non una stupida aspettativa o l’identikit dell’uomo perfetto. E mentre eviti di chiudere la porta in faccia ai tuoi sentimenti è possibile che qualcuno, lì dietro, magari, si risparmi un naso rotto.

Era qualche notte fa ed . . .

. . . Eravamo davanti al pc, guardando delle immagini tra le prime che creavo da sola, ridevamo e lo sentivo ad ogni risata sempre più vicino, finchè non mi prese per abbracciarmi, facendosi abbracciare, ritrovandomi ad un tratto a guardare oltre la sua spalla e ad accarezzare i suoi capelli, mentre mi stringeva senza lasciarmi andare. Nella mia testa dicevo -come se potesse sentirmi- “Ma, ma … dovevamo finire di veder..” -“Sssht” era l’unica risposta che riuscivo a percepire. La sensazione delle sue braccia intorno a me era forte e avvolgente ed era l’unica cosa che contava, che esisteva, che aveva senso, l’unica cosa che non mi abbandonò più per tutto il giorno.

Ciò che continuai a domandarmi, poi, era chi potesse mai essere. Nel senso, un’apparenza fisica l’aveva, al tatto era percepibile, ma non sapevo in rappresentanza di chi quelle “suggestioni” erano venute alla mia mente. L’unica cosa di cui ero certa è che quel giorno vissi senza essere per niente sicura di aver posto un confine tra sogno e realtà. Sempre che si possa fare tale distinzione, perchè quando ti capitano cose del genere ciò che vivi e ciò che provi non appartiene all’una o all’altra dimensione, è un tutt’uno, un qualcosa che continua, che si fonde, che ti manda in confusione, perchè l’unica cosa di cui sei certa è che ci sei, sia qui che lì, sei sempre tu protagonista di ciò che accade, indipendentemente dal fatto che sia bizzarro o incredibile o strano o assolutamente normale… In ogni caso sapevo che comunque tutto ciò che vedevo non era altro che una rappresentazione di un qualcosa che avevo dentro, ma che non capivo, qualcosa che perlomeno sottoforma di immagini avrei dovuto comprendere, per l’immediatezza del modo in cui, il mio incoscio, cercava di comunicarmelo, attraverso delle suggestioni… Ma le apparenze sono pur sempre quello che sono, semplici rapprensentazioni, una maniera veloce e pratica per fare in modo che un’idea o un sentimento si insinui nella tua testa, ma poi il bello è intuire come tutto ciò c’entri qualcosa con la tua vita, con quello che pensi, che fai, che credi… Con quello che credi

“Ci sono due errori che si possono commettere lungo la strada della verità: non percorrere tutta la strada, e non intraprenderla per niente”

Eh si, perchè è sempre lì che si va a finire, a ciò che credi, ciò che è vero per te, ciò che ritieni sia la tua filosofia di vita, che a volte ti sembra il più bel sentiero battuto e illuminato e decorato addobbato lineare che tu sia mai riuscito ad immaginare, e a volte invece ti sembra un dannatissimo labirinto in cui ti rinchiudi, in cui ti perdi girando in tondo, in cui ci sono talmente tanti bivi che ti meravigli come tu sia riuscito a crearli tutti da sola! All’inizio nemmeno te ne accorgi, però poi quando è già la quarta volta che incontri lo stesso albero ti rendi conto che in effetti c’è qualcosa che non va… Ti sei bloccato, c’è qualcosa di sbagliato, diavolo, nonostante fossi certa, sicura di aver preso la strada giusta… “Ma cosa posso aver mai sbagliato?” ti chiedi. “Era tutto a prova di bomba, collaudato, provato e riprovato, eppure non era proprio qui che dovevo arrivare, non dovevano sorgere tutti questi dubbi, ripensamenti, pensieri idioti ma più di tutto, al di sopra di ogni cosa, quella terribile voglia di mandare tutti e tutto a quel paese e fregarsene per una buona volta di tutte queste idiozie sull’amore, la vita e la felicità!!!”.

“Quando hai finito di sclerare me lo dici, che ne parliamo”– così mi sembra che disse, quella vocina nella testa, che sono certa proveniva dallo stesso posto da cui era arrivato quella specie di rebus ad immagini.

“Te la faccio breve perchè sarebbe ora di prender sonno, per una volta, prima che domattina ti svegli di nuovo con gli occhi gonfi e tutte quelle idiozie per la testa”– “Magari…”- pensai.

“Ma quale sentiero? Ma quali addobbi? Eppure credevo ci fossi già arrivata, con quel bel discorso sui giardini e blablabla. Tu non hai costruito un sentiero, o meglio, lo era, finchè non hai avuto la brillante idea di erigere un bel totem, ad una distanza da te che ritieni abbastanza lontana per non trovartici di fronte dopodomani e abbastanza vicina per poterlo però raggiungere un giorno… Un bel monumento da guardare da lontano, a cui volgere lo sguardo ogni qualvolta ti sentivi persa, un punto di riferimento, che ogni passo o due contemplavi, senza guardare più dove stavi mettendo i piedi, senza curarti più del sentiero ma solo di quello strano manufatto bello, alto e imponente… Mi meraviglio di come non sei finita a sbattere da qualche parte, tanto ti ci eri concentrata su! E’ ovvio che tu debba porti un obiettivo, o che tu abbia un punto di riferimento… Ma non è prendendoti delle fissazioni che riuscirai ad andare avanti! Piuttosto, è facendo un passo alla volta, mettendo un piede davanti l’altro che percorri la tua strada e la tua unica, sola sicurezza del fatto che tu stia prendendo la direzione giusta è che tu credi in ogni passo, credi che il terreno sotto ai tuoi piedi è stabile e che il tuo più alto senso di ciò che è giusto ti stia guidando, in ogni istante! Solo e soltanto quello. Nessun totem. Nessuna torre o statua o cose del genere che stia lì in quel momento a ricordarti cos’è che ritieni giusto o no.

Quindi, caro genio, tutto ciò che quel sogno voleva mostrarti era questo. Si, modestamente avevo creato un’atmosfera niente male, è riuscita ad ammaliarti, ma è questo che volevo ricordarti, di credere nel tuo cuore e in ciò che provi, perchè così facendo non sbaglierai mai; non pensare di poter decidere tutto il percorso da fare in una sola volta, sistemando una bella bandierina di arrivo tanto per ricordarti di non sbagliare strada, ma sii consapevole, piuttosto, di ogni centimetro che fai”. Era di questo che dovevo rendermi conto.

Ancora però, c’era da chiarire la questione della persona misteriosa… -“Aspetta! Prima di inventarne un’altra! Lasciami spiegar..”- “Perdonami, ma penso che ormai ci sono arrivata… ora provo io”- e ovviamente neanche quella notte riuscii a chiudere occhio, ma almeno il mattino dopo tutto sembrò illuminato da una luce diversa. Ormai la mente andava a mille, e mi ricordai di una cosa letta a proposito della legge dell’attrazione. Forse mi aveva colpito in maniera particolare, non lo so, ma fatto sta che quel sogno alla fine era lì che voleva andare a parare. Non era una sorta di “Indovina Chi”. Non era riguardo alla persona che dovevo spendere le mie energie. Si perchè altrimenti avrei rischiato solo di costruire totem, tanti totem, sparsi qua e là a piacere, gironzolando tra l’uno e l’altro senza una meta effettiva, ripetendo nella mente quel nome o l’altro, o tanti altri… Senza arrivare mai da nessuna parte. Quella sensazione, invece, è unica. E’ la sola che vorresti provare, fortemente, che è lì grazie ad un’altra persona, si,  ma che si ricongiunge perfettamente con tutto quello che hai già dentro, come se fosse qualcosa che avevi perso e che torna al suo posto, che percepisci dall’esterno ma che in realtà è già parte di te, da sempre. E’ su ciò che si prova che bisogna focalizzarsi. Io l’avevo dimenticato. Soltanto così è possibile trovare sul proprio sentiero tutto ciò che si sta cercando, ciò che è giusto, ciò che magari nemmeno riuscivamo ad immaginare, ma che poi troviamo davanti a noi, mentre era già lì ad aspettarci.

If your heart is in your dream, no request is too extreme. When you wish upon a star, as dreamers do.