Il termostato empatico

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Insomma, è arrivato il fatidico momento di accendere i riscaldamenti. Molti condomìni della mia cittadina li hanno centralizzati, quindi i termosifoni di tutti gli appartamenti si accendono e spengono insieme agli stessi orari. Nel mio parco ognuno fa da sé e qualche anno fa l’elettricista della squadra che si occupò dei lavori di ristrutturazione montò il termostato per comandare la caldaia dall’interno della casa.
Ma a modo suo.
Ogni anno devo tornare per qualche istante al momento in cui mi spiegò come l’aveva impostato.
Ogni anno resto qualche istante davanti al termostato come un’ebete a ripetere mentalmente il suo breve e personale ragionamento. Lo sportellino del termostato ha un bottoncino che se si trova al centro significa spento. Poi ci sono due disegnini. Un sole e un fiocco di neve.
Adesso.
In genere il sole sta per l’estate, quindi dovrebbero accendersi i condizionatori spostando il bottoncino lì. Il fiocco di neve rappresenterebbe l’inverno, quindi comanderebbe i termosifoni.
Invece no.
Il mio elettricista la pensava diversamente. Giusto a sottolineare che niente è mai scritto per sempre, tutto si può guardare sempre da un altro punto di vista. Ricordo che con una semplicità disarmante, come fosse la cosa più ovvia del mondo, mi disse che spostando il bottoncino sul sole che lui associava al caldo si sarebbero accesi i termosifoni. Il fiocco di neve avrebbe azionato ciò che crea il freddo, i condizionatori. Facile. Da allora non so quante volte ho dovuto ripetere questa storia perché chiunque si accingeva ad accendere i termosifoni dieci volte su dieci avrebbe spinto il bottoncino verso il fiocco di neve.
Ammetto che mi piace questa piccola rivoluzione di pensiero. Insomma, ho qualche difficoltà con le convenzioni. Quando in palestra seguivo il corso di aerobica ciò che per l’istruttrice era destra per me era sinistra e viceversa. Ho scoperto che mi diverto molto di più in sala pesi, dove posso fare come mi pare purché i movimenti siano corretti. L’ordine però posso deciderlo io. Non riesco ad andar dritta nemmeno sul tapis roulant. Ogni tanto sbando perché mi distraggo e disegno curiose curve sul rullo mobile.
L’elettricista invece veniva da un piccolo paesino, di quelli dove regnano le tradizioni e il motto se nasci tondo non muori quadrato e lui aveva tutta l’aria di essere un suddito di quel regno. La sua non era una ribellione alle convenzioni. Lui semplicemente associava l’immagine alla sensazione e quindi alla funzione. Un po’ come facciamo noi che scriviamo guardando il mondo attraverso la pelle. Magari senza farlo apposta regoliamo anche noi un qualche termostato quando ci affacciamo dal balcone o dalla finestra o quando mettiamo il naso fuori alla porta e la realtà ci sembra più fredda un giorno, più calda un altro, di pochi o molti gradi, a prescindere dal meteo e dalle stagioni, che ci sia il sole o la neve è come se fuori da noi sentissimo sempre e comunque la temperatura dell’anima.

ComeDiari #19: Il tempo dimenticato

Ci sono alcune cose che scrivo solo per me. Perché non le ritengo adatte al blog, perché non avrebbero alcun senso nel filo del discorso che uno cerca di mantenere. A volte non le scrivo nemmeno e allora rimangono come pensieri ingabbiati che a tratti diventano feroci, altre volte apatici e rassegnati. Altre volte mi nascondo dietro le metafore perché la realtà mi sembra priva di magia, ma è come far prendere a quel che ho dentro solo un’ora d’aria senza liberarlo davvero.
Vorrei poter riuscire a dire che ho paura.
Vorrei poter riuscire a dire che non credo più in un sacco di cose. E che a volte il mondo mi sembra irrimediabilmente un pericolo continuo, che mi piacerebbe vivere da sola, non sentire il rumore dell’insoddisfazione e del malessere degli altri, perché non lo voglio, non l’ho chiesto, perché mi distoglie da me stessa a tal punto che ancora non so chi sono e cosa voglio.
Non credo nella politica, non credo nella democrazia, la religione è perfino più inutilmente complicata. Gli unici progressi che la società può fare sono quelli che in qualche modo generano soldi. Ho paura di essere in difetto con qualche stupida regola burocratica, ho paura di perdere quello per cui ho lavorato. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e di meritare quello che ho ottenuto. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e che posso esserlo di nuovo e non per piacere a qualcuno, ma perché lo sono e basta.
Vorrei star qui e prendere ogni trauma, ogni automatismo e raccontarlo, smontarlo e renderlo innocuo, impotente e fare le cose con consapevolezza, perché così voglio essere. Voglio sapere chi sono. Non voglio diventare qualcosa che non mi piace. Non voglio più sentirmi in colpa, rimandare la mia vita a quando i problemi spariranno, solo una settimana, solo un’altra ancora e alla fine non ricordavo nemmeno più come se ne era andato il tempo. Ho passato giorni a ricostruire gli ultimi anni guardando le foto sul cellulare, perché a me sembrava solo di essermi risvegliata senza memoria dopo un viaggio attraverso un buco nero.
Vorrei riuscire a raccontare del panico, quando qualcosa mi ha ricordato un momento orribile e all’improvviso non c’era più l’aria e non c’era più il futuro.
Vorrei poter parlare di me senza avere paura di sembrare sbagliata o di star facendo qualcosa di sbagliato.
Voglio ricominciare da quello in cui credo, dai i ritmi della natura che un fiore mi ha insegnato, da quelli della Luna e delle stagioni. Dal profumo di una torta o del pane caldo. Voglio uscire dal gioco umano di creare drammi e poi perdere il doppio del tempo per trovarne le soluzioni, che se ci pensate è follia. Il corpo ha una sua intelligenza, ma nessuno lo ascolta perché la mente ci distrae continuamente cercando il piacere. Vorrei ricordare tutto, tutto, perché il tempo vola ma solo perché abbiamo poca memoria e dimentichiamo la maggior parte dei giorni che ci lasciamo alle spalle. Il tempo non è perso, è dimenticato.

Giù dalla giostra.

Ci voleva una pandemia affinché scoprissi diverse verità.

Tipo, nelle circostanze in cui ci ha costretti il lockdown ho scoperto che l’uomo che ho amato per diversi anni non è solo e disperato come raccontava a tutti, ma ha una moglie o compagna o comunque una donna molto importante nella sua vita che lo sostiene nei suoi progetti. Ho capito che per lui ero solo una fonte di rifornimento narcisistico, esistevo per pochi minuti o poche ore, giusto il tempo di assicurarsi che ancora provavo dei sentimenti e non me ne ero andata. Poi lasciava i miei messaggi senza risposte e io finivo puntualmente in un vortice di tristezza che diventava rabbia che diventava senso di colpa che diventava di nuovo comprensione, attenzione e amore. Finché così da un giorno all’altro ho deciso di scendere dalla giostra senza nemmeno salutare. Ci avevo già provato altre volte ma passato poco tempo l’idea di non risentirlo più mi distruggeva. Non potevo immaginarmi senza nemmeno quel poco che avevamo. Non mi aveva mai promesso niente ma diceva di avere dei sentimenti per me e io ne avevo bisogno, ma non mi accorgevo di quanto sacrificassi di me stessa ogni volta.

E’ stato come osservare un animale nel suo habitat naturale e allo stesso tempo chiuso in una gabbia e adesso non so più chi è la persona che riuscivo a sentire sulla pelle e nella mente attraverso una connessione unica, antica e solo nostra.

In compenso so meglio chi sono io. Perché finalmente sento di avere della terra sotto ai piedi, di essere più salda, di riuscire a ribellarmi senza pentirmi, di avere diritti e desideri. Dio solo sa quanto avrei voluto vivere con lui tutto questo. Quanto mi sarebbe piaciuto ancora essergli vicina, trascorrere ore a pensare a nuovi modi di parlare del mondo, che ancora non avevo finito di svolgere l’orizzonte che avevo scoperto con lui.

Dunque ci voleva una pandemia per ricevere le risposte che potevano liberarmi dalle domande che si erano intrecciate nella rete sotto la quale ero finita per tutto questo tempo.

Andrà tutto, beh.

Le volte che mi capita di vedere una gara di corsa con ostacoli non riesco a trattenermi dal provare una serie di sensazioni miste tra ansia, brividi e stupore. Un po’ come se nel mondo così come se lo aspetta il mio cervello non esistesse la possibilità di saltare così in alto, così tante volte, senza che l’atleta non incappi anche per un micrometro nell’ostacolo e non finisca per rotolarcisi insieme sulla pista in un susseguirsi di capriole scomposte che potrebbero coinvolgere anche gli altri partecipanti.

Spesso invece, quando chiudo gli occhi e provo ad immaginare qualcuno scendere una rampa di scale non riesco a non immaginarlo mentre mette un piede in fallo dopo il terzo o quarto gradino.

C’è invece quella cosa bellissima, di una bellezza unica, quella per cui le azioni e i pensieri, i sorrisi e le pause, il giorno e la notte si infilano uno dietro l’altro come perline ordinate nella linea del tempo. Nessuna ansia che accelera il meccanismo, nessuna paura che lo rallenta. Nessuno spargimento di perline qua e là che richiederà tempo extra per rimettere tutto a posto.Ripensare, capire, riunire frammenti di ricordi, catalogare, ordinare per data, riassegnare emozioni, motivazioni, scelte. Un casino.

Forse esiste una parola per descrivere questo, ma la stanchezza mi sta prendendo e non mi viene proprio in mente. In realtà ci sto pensando da giorni. Sapete, lo sforzo che porta al risultato, le pagine di un libro che si accumulano sul lato sinistro. I piccoli passi, i piedi messi bene uno avanti l’altro, senza fretta, senza perdere l’equilibrio e soprattutto, senza allontanarsi da sé.

Spero non siano state tutte le canzoncine e le pubblicità andrà tutto bene a fregarmi – non credo, la mia immaginazione continua beatamente ad incepparsi – però ecco, riscoprire che le cose possono corrispondersi, come i gradini e i piedi, i salti e gli ostacoli, l’impegno e i risultati sssth, senza urlarlo troppo in giro, mi ha fatto sentire bene, un bene semplice, fresco. Normale.

ComeDiari #17: Fiato sospeso

Mi accorgo del tempo che passa perché sul legno liscio dei mobili si è posata di nuovo la polvere. Se non fosse per quella direi che oggi è lo stesso giorno di ieri. Almeno dentro di me sembra essere così.
E se le luci della città non brillassero così tanto in lontananza non sarei nemmeno così sicura del fatto che, no, sui miei occhi non c’è nessun velo opaco e grigio. Fuori da me il mondo è acceso e la Luna mi prende alla sprovvista quando alzo un po’ di più lo sguardo, nel caso il concetto non mi sia abbastanza chiaro.
Le labbra mi bruciano e se così non fosse penserei ancora che la questione sia chiusa tutta in una bocca che non parla, un’assenza silente e una strada lunghissima cosparsa di briciole di parole e di sguardi.
Riesco a sentire l’Amore sotto ai polpastrelli e la musica bollire nelle orecchie nonostante a volte ancora mi precipitano dentro vorticando furiosamente cadendo dalla soglia della Paura e sprigionando immagini che arrivano alla mente senza passare dai sensi.
Succede allora che una mente affollata appesantisce il cuore e tutti gli altri organi e l’Anima trattiene il respiro per allontanare da sé il prossimo istante.

Le cose che ‘non’.

Riepilogando, da questa mattina sono riuscita a non svegliarmi presto (male, male male), questione che in qualche modo devo risolvere al più presto, a non litigare con il funzionario dell’ASL che ha risposto male ad una signora che protestava per la scelta di non so chi di ritirare il distributore di numeri per la fila allo sportello solo perché mancava un quarto d’ora alla chiusura come se stessimo in cerca di chissà quale favore e non di esercitare un nostro diritto, a non comprare una bambolina di stoffa delle dimensioni di un tappo di sughero, con vestito natalizio e trecce bionde di cordoncino perché sennò avrei dovuto prendere anche le decorazioni in feltro a forma di campana, albero di Natale e stella e poi la tazza natalizia, al che ho posato tutto e ho tirato dritto con il carrello verso il reparto del riso, a non cedere alle lusinghe del divano dopo pranzo, a non sentirmi a disagio nella mia stessa vita, dopo aver capito che si tratta di una lotta contro i mulini a vento finché non si riconoscono i meccanismi attraverso cui ci si mette da soli i bastoni tra le ruote, da soli capite, e non ci si rende conto che abbandonarsi alla pigrizia e all’inerzia è come tradirsi e quindi oggi mi sono sentita serena finalmente perché sono riuscita a tendere una mano a quella me che qualche anno fa ho iniziato a seppellire sotto cumuli di impegni presi con chiunque tranne che con lei, e, tolti di mezzo i rimpianti, credo mi stessi chiudendo nella paura di averla persa e forse nella convinzione che non mi spettasse di esser padrona del mio tempo, come se avessi da aspettare di mettere ordine tra tutti i pensieri e le sensazioni sulla morte di mia mamma e portare a termine tutto ciò che questo ha lasciato in sospeso prima di ricominciare a vivere.

Tutto questo, però, per dire che è iniziata la settimana del Black Friday su Amazon e a quello no, oggi non riuscirò a resistere.

ComeDiari #16: Sensi vietati

foglia autunno pioggia

Com’è che aveva detto quella tipa alla tv? Ah si. La vita ad un certo punto ti mette davanti ad un bivio: devi decidere se restare nel passato o andare avanti.

Pure Paolo Fox mi ripete da settimane qualcosa del genere. Non sarà facile, dice. L’ambiente, le insidie. Venere opposta, tanto per cambiare. Una certa malinconia che ti fa sentire tutto più profondamente, ma sulla superficie di ricordi e sensazioni che stanno ancora più giù, ancora più indietro. Nel passato, appunto.

L’odore di nuovo mi piace e mi fa paura allo stesso tempo. Non so se è perché la vita è una zuppa, mentre io sono una forchetta, come recitava una massima letta da qualche parte su Facebook, per cui percepisco sbagliate le cose giuste e mi affeziono alle versioni obsolete di me stessa.

Non contenta sono andata a leggermi pure Brezny. Dice di immaginarmi come un essere che rompe un guscio, un germoglio che sboccia da un seme. Una cosa che in autunno va  un po’ controsenso.

E forse, sapete, è proprio questo ciò che non voglio. Scontrarmi con le gocce di pioggia che cercano il suolo per riposare abbracciate.

Allora va bene, dite, se risalgo la strada del nuovo e poi ogni tanto mi lascio andare su una foglia che volteggia nel senso opposto, anche solo per seguirla nel suo futuro che è il mio passato e vedere dove va e sentire che profumo ha e poi risalire ancora e ricominciare il giro daccapo senza che nessun guardiano del tempo mi multi per aver infranto l’ordine delle cose? Che poi non facevo nulla di male agente, sa, tolgo qualche virgola qua e là ma il mio pensiero non andava nemmeno così veloce.

 

ComeDiari #14: Essere amore

fenice cenere amore

È una cosa abbastanza da narcisi, lo so, ma a volte mi perdo ad immaginare il momento in cui avrò da scrivere i ringraziamenti in calce alla mia tesi di laurea magistrale e penserò a delle frasi – che non mi azzarderò mai a riportare davvero tra quelle pagine – sugli esami di fronte ai quali si viene messi dalla vita, sui riferimenti che saltano, sui pomeriggi trascorsi con la mia migliore amica a fissare il fuoco del suo camino perché sembra l’unica cosa davvero presente e sicura di un mondo che all’improvviso si è messo a girare più velocemente, ma soprattutto perché nel rivolgere lo sguardo in un qualsiasi altro punto mi sono accorta di essere terribilmente miope, specie se si tratta del futuro.

Insomma, immagino un momento in cui, tirando le somme di ciò che ho e non ho fatto, in qualche modo il conto mi restituisca un’immagine di chi sono diventata, come sono cambiata in questi anni, in cosa sono migliorata e in cosa invece sono ancora pessima.

Mi sono resa conto, in questi giorni, che non c’è bisogno che io aspetti quel momento.

Un po’ come se la resa dei conti stesse accadendo adesso, proprio ora, mentre sto scrivendo. Un po’ come quando nei film accade che l’eroe ormai moribondo e sanguinante si sta lasciando andare alle proprie paturnie e d’un tratto arriva il suo aiutante con l’armatura speciale o l’arma più figa di tutte e gliela consegna, fiducioso che con questa tra le mani può finalmente rialzarsi ma soprattutto portare a termine la battaglia, essendo della potenza necessaria per distruggere il nemico. Ecco, in quel momento lo spettatore – ma anche l’eroe – si chiede perché diamine l’amico non è arrivato prima o perché non ha tirato fuori l’escamotage per vincere la battaglia fin dall’inizio. L’aiutante o l’amico gli rivolge uno sguardo saggio e gli dice qualcosa del tipo soltanto adesso sei pronto. L’eroe lì per lì annuisce ma non capisce davvero cosa vuol dire, ma afferra comunque l’arma e si rialza.

Allo stesso modo mi sento un po’ spiazzata. La mia vita sta cercando di restituirmi pezzi di me stessa adesso, prima degli ultimi esami. Vuole ricordarmi adesso dei gusci che ho rotto, dei cieli che ho tirato giù e dei prati nuovi di zecca che ho srotolato davanti ai miei piedi per andare in posti che non avevo visto ancora. Dei treni, dei litigi, delle cuffie nelle orecchie per non sentire cosa si dicevano nell’altra stanza, delle volte che ho capito e di quelle che non ho capito niente ma ho fatto finta di sì. Dei giorni in cui mi sono disperata inutilmente, delle lacrime, dei mai più, dei ci provo ancora. Delle cose che mi sono piaciute, ma poi ci ho ripensato. Di quelle che ho odiato e poi dopo amato alla follia.

In particolare mi sta ricordando di tutti gli specchi che ho trovato nelle persone che senza troppi complimenti hanno riflesso le parti peggiori di me e dei conti che ho dovuto fare con quelle immagini. Che mica sempre ci si può migliorare. Ho imparato a dire io sono fatta così. Se ti piaccio bene, altrimenti puoi anche andar via. Mi sono affezionata a qualcuno dei miei spigoli, perché sono la mia storia. A patto che segnino delle distanze, ma non facciano male a nessuno.

Mi sono confrontata con la ragione e con il torto – anche mio -, con la paura e con ciò che non avrei voluto ammettere mai.

La cosa più importante di tutte però l’ho capita da poco.

L’essere amore.

Chi è amore, fuori di me. Cosa è amore, dentro di me. Come si diventa amore, quando dentro e fuori non si distinguono più.

Il resto a confronto sbiadisce all’istante. Mi rifletto per qualche istante nella spada tirata a lucido.

Prometto a me stessa che difficilmente, ma molto difficilmente sarò meno di ciò che sono in questo momento.

Cronache Dal Condominio #6: La conversazione da ascensore

ascensore donna elevator

Da quando vivo in un condominio ho dovuto imparare in fretta a fronteggiare situazioni che nella palazzina bifamiliare di paese in cui abitavo prima non avevano assolutamente modo di delinearsi per mancanza di elementi che propriamente ne sono le cause.

Non c’era, ad esempio, l’ascensore. Soprattutto, però, non c’erano possibili interlocutori. Di conseguenza, nessun pericolo di rientrare dopo aver portato fuori la spazzatura e trovare davanti all’ascensore qualcun altro in attesa dello stesso. Decisamente, non potevano crearsi imbarazzanti momenti del tipo entro-prima-io-no-meglio-prima-tu dovuti al fatto che non sempre si riesce a riconoscere all’istante la persona che ci è di fronte e ad associare in due nanosecondi il relativo piano d’appartenenza. Che si sa, l’ordine di entrata nell’ascensore deve essere contrario a quello di uscita, per evitare di incastrarsi nel tentativo di scambiarsi il posto o, peggio, di dover uscire fuori tutti per consentire al condomino giunto al proprio piano di raggiungere la porta di casa.

Sembra una cosa stupida, ma trovatevici e poi me lo raccontate.

In fondo pure Einstein l’aveva già detto. Parlando della relatività del tempo una volta affermò: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora“. Si immagini quanto può sembrare lungo il tempo chiusi in ascensore con un estraneo durante il viaggio che porta dal piano terra al quarto piano.

A questo punto, confesso.

Devo dire che ho tentato, a costo di sembrare fuori di testa, ma l’ho fatto.

Eh si perché per evitare di trovarsi in situazioni del genere, specie quando l’umore non è dei migliori, i modi ci sono.

ascensore piano pulsanteUna volta vidi con la coda dell’occhio qualcuno che stava per varcare la soglia del portoncino d’entrata. Per evitare di condividere la corsa col suddetto ho accelerato il passo verso l’ascensore, ho aperto in fretta le porte e mi ci sono infilata dentro senza troppi complimenti. Mi sono sentita in colpa per aver costretto l’altro ad aspettare che io liberassi l’ascensore, ma un po’ anche soddisfatta, ecco.

Qualche altra volta mi è andata peggio. Alla domanda “Deve salire?” ho risposto che no, non avevo bisogno dell’ascensore e che io e le mie due buste della spesa avremmo potuto senza problemi prendere le scale. Aehm.

Poi ci sono quei momenti in cui proprio non puoi defilarti in nessun modo. E ti tocca.

La conversazione da ascensore.

Cosa, ditemi, di cosa si può parlare mai in una manciata di secondi? Di niente. Ecco. Fosse per me starei zitta. Il silenzio però è poco amico del tempo e lo fa sembrare ancora più lungo e imbarazzante. Allora bisogna inventare.

Se ci si trova in periodi di feste, l’argomento è facile da trovare. Pasqua e Natale offrono diversi spunti per considerazioni di pochi secondi, così come se c’è Ferragosto o qualche lungo weekend alle porte. In maniera simile, si può parlare del meteo. L’altro giorno, ad esempio, ho annunciato all’inquilino del secondo piano dell’arrivo di Burian, la perturbazione di origini russe che ha portato la neve OVUNQUE tranne che nella mia città. Il tempo di traumatizzarlo e ci siamo congedati.

Spesso si può prendere spunto dal look, da qualche gossip da condominio, dalla lampadina al terzo piano che è fulminata da due giorni e nessuno è andato ancora a cambiarla e cose così.

Insomma, si sopravvive.

Una volta, però, ne ho proprio approfittato.

Ho condiviso la corsa in ascensore con la vicina di casa. Lì, chiuse nella scatola elevatrice, condividendo poco più di un metro quadrato di spazio e pochi secondi di tempo, senza che potesse fuggire da nessuna parte o avesse la possibilità di cambiare argomento o trovare un qualsiasi motivo per evitarmi, gliel’ho detto.

La scala che ha nel balcone adiacente a quello della mia camera da letto sbatte tutta la notte contro il muro quando c’è vento e non mi fa chiudere occhio.

E che cavolo.

ascensore piani

Il passato nel posto sbagliato

passato futuro media

Credo che sia meglio agire e sbagliare, piuttosto che restare immobili a guardare o peggio subire.

Pertanto sono una che sbaglia. Commetto degli errori e l’ho sempre ammesso.

Qualche tempo fa lessi una cosa sconvolgente. A causa della fotografia digitale e di tutti i sistemi per archiviare e condividere foto e immagini, ci stiamo lasciando dietro un deserto digitale. Non stampiamo quasi più le fotografie e i ricordi, per non parlare di documenti di qualsiasi genere. La tecnologia avanza, i software si aggiornano di continuo e anche i formati in cui vengono salvati tutti questi files, quindi è possibile che tra decenni non si potrà più accedere a ciò che oggi pensiamo sia al sicuro nella nostra pen drive o cloud. E sarà il vuoto perché non ci saranno più testimonianze storiche ‘cartacee’ di questo periodo. Secondo gli esperti infatti alla lunga il cartaceo sarebbe comunque più affidabile del digitale. Insomma, una foto per quanto sbiadita, stropicciata e strappata qua e là è sempre meglio di un file che non si apre più.

Per contro, si verifica un altro fenomeno abbastanza strano. Il virtuale ci nega il diritto di dimenticare. O almeno lo rende alquanto difficile.

Dicevo, anch’io faccio errori. Non mi mai capitato però di non mettere il cuore in qualsiasi tipo di frase io abbia mai pronunciato. Non ci riesco. Se il più piccolo livello di apprezzamento nei riguardi di una persona si può definire stima, beh io non riesco a separarla dall’affetto. Questo forse fa di me una persona del tutto normale o forse è più probabile che sia vero il contrario. Fatto sta che se non provo almeno stima, e quindi affetto, non mi applico nel pronunciare nessun tipo di frase.

Tutti quelli con cui ho condiviso momenti della mia vita, per me, hanno un valore che sono disposta a proteggere in tutti i modi che riesco a concepire. Niente effetti speciali. E’ solo la verità.

Due o tre volte è mi capitato di trovarmi di fronte invece persone che non hanno la più pallida idea di cosa intendo. Persone rancorose che non sono disposte a mettersi in discussione e che creano intorno a sé un mondo finto fatto di false amicizie e di rapporti superficiali pur di svegliarsi al mattino, guardarsi allo specchio e sentirsi convinte di non aver mai sbagliato.

E’ difficile, ma proprio difficile, ma alla fine rinuncio. Perché c’è un limite a tutto. Non si può subire il rancore di qualcuno per sempre.

E il valore? Un momento, quello resta. Anzi, è l’unica cosa che resta e che ho il diritto di conservare e proteggere. Per conto mio. Nella mia testa. Nei miei ricordi.

E’ a questo punto che il virtuale non aiuta. Gli algoritmi del volemose bene fanno sì che nella timeline ti ritrovi sempre e ancora quelle persone o qualcuno che le conosce e granelli finissimi delle loro vite continuano a finire nella tua perché purtroppo i social network sono materiali permeabili a meno che non si adottino misure forse anche troppo drastiche.

Invece io non voglio sapere. Non voglio guardare, ascoltare, leggere niente. Non mi riguarda. Ho il diritto di dimenticare e di liberarmi di quei granelli che tolgono spazio al nuovo, a chi nella mia vita c’è davvero e mi capisce e mi vuole bene e condivide i miei stessi valori, la mia idea di amicizia, di amore, di tempo condiviso. Chi da’ valore alle mie parole, alle mie intenzioni, al mio affetto e alle mie attenzioni.

Rischiamo di avere un presente pieno di passato e un futuro che ne sarà praticamente privo. Un deserto digitale lo vorrei, sì, ma alle mie spalle e a proposito delle vite che non riguardano più la mia.