Lo vidi salire sulla metro circondato da alcune persone, in maggioranza ragazze poco più piccole di me. Alto, magro, sui sessanta un po’ trasandato ma con l’aria spigliata e gli occhi vivaci, occhiali e berretto verde militare, intento a parlare, raccontare qualcosa che non riuscivo a sentire bene perchè ero un po’ più lontana. Mi avvicinai insieme ad altre persone, che di mattina presto un po’ per il sonno un po’ per tristezze varie che di solito ti accompagnano a quell’ora fino al primo sorriso della giornata, avevamo dei musi lunghissimi e quella persona così sveglia e vivace ci attirava molto. Capii presto il perchè. Era un vulcano di idee. Parlava di qualunque cosa gli venisse in mente, prendendo spunto guardandosi intorno, guardando quel piccolo gruppo che si era formato intorno a lui e alternandosi in abili complimenti alle ragazze che sorridevano illuminandosi visto che certe cose ormai nessuno le dice più, o almeno non più sinceramente. Sembrava che in quel momento stesse su un altro pianeta. Era spiazzante il modo in cui riusciva a catturare menti assopite e consumate sempre dagli stessi inutili e dannosi giri di pensieri. La sua era viva. Quando arrivai stava rassicurando tutti che non era stato pagato dal comune della città per intrattenere i viaggiatori stufi dei soliti ritardi, quel giorno particolarmente pesanti, ma che gli faceva solo piacere condividere e trasmettere ciò che gli passava per la testa. Poi iniziò a parlare della Grande Bellezza collegandosi alla bruttezza del dipinto del Cristo Morto passando per Dostoevskij che non ho afferrato cosa c’entrasse, si soffermò su quanto fossero belle le donne quando sorridono, sorriso generale, e sul fatto che le persone delle loro vite si fossero innamorate di loro quando per la prima volta le hanno viste con gli occhi tutti attaccati dal sonno, appena sveglie, e non grazie al trucco che sfoggiano ogni giorno. Continuò ancora un po’ nel suo monologo finchè non disse una cosa alla quale continuo a pensare non tanto per il concetto in sè, ma per l’effetto che fece su di me in quel momento.
Più o meno con queste parole disse: Ma io vi vedo preoccupati, avete delle facce così tristi… Ma è perchè siamo in ritardo? State pensando che arrivate tutti tardi, che il capo si arrabbia, che vorreste essere già arrivati. E invece secondo me è perfettamente normale. Non c’è alcun bisogno di preoccuparsi. Non mi credete ma è così. Arriveremo esattamente quando dovremmo arrivare.
A quelle parole io sbarrai gli occhi. Mi scosse. Tutti sorrisero scettici scambiandosi occhiate. Io continuai a guardarlo non sicura che stesse dicendo sul serio. Era una stupidaggine in fondo. Eravamo in ritardo, io sarei arrivata tardi alla lezione, qualcuno tardi ad un esame, ad un appuntamento, a lavoro… Come poteva essere così tranquillo lui? Continuai a guardarlo incredula, mentre sorrideva sereno, come se fosse a conoscenza di qualcosa che nessuno intorno a lui poteva immaginare, qualcosa che lo faceva star bene e in pace con il mondo. Poi ho smesso di rifletterci, lui è sceso dalla metro nel mezzo di un altro aneddoto promettendo al suo piccolo pubblico che avrebbe finito di raccontarlo l’indomani.
Dopo questo episodio mi venne in mente una risposta di Richard Bach ad un mio commento sul suo sito, prima dell’incidente, sito che ora ha riaperto e ne sono felicissima. Il post parlava di quando insieme al suo biplano Puff si trovò ad affrontare per la prima volta una tempesta, di quanto in loro ci fosse sia spavento, sia coraggio nei confronti di ciò che non potevano cambiare. Le nuvole all’orizzonte erano nere e cariche di pioggia e si stavano avvicinando sempre più. Io chiesi se la consapevolezza degli ostacoli che ci si pongono di fronte, dei problemi, di ciò che accade e che non possiamo governare, fosse il segreto per vincere e per uscirne fuori. Lui rispose che quanto più siamo lenti nel capire e intuire ciò che sta accadendo, quanto meno siamo consapevoli delle prove che ci troviamo ad affrontare, più sembra che sia la vita a pescare ostacoli e test generici dalla sua ‘scatola delle infinite possibilità’. E disse poi, non otterremmo più punti se definissimo noi stessi il campo da gioco invece?
Ci ho sempre pensato tanto a queste parole e ogni volta che nel capirle davvero mi sono sentita forte mi sono resa conto di quanto non sia così, o almeno, di quanto sia estremamente difficile che sia così. Perchè è all’improvviso che ti casca il terreno da sotto ai piedi, è in pochi istanti che le situazioni possono cambiare in peggio irrimediabilmente, è da un giorno all’altro che le persone vanno via dalle vite di altre, così velocemente da creare vuoti che distruggono ogni vecchio e nuovo sorriso. Com’è possibile allora che ci sia un modo per essere così saggi e forti da non lasciarsi colpire da ciò che cambia e non possiamo fermare? Come si può essere tanto consapevoli di sé da vivere senza ansia e paura ogni difficoltà? E’ come se davanti ad ognuno di esse ci presentassimo con l’aria corrucciata, l’espressione più feroce che possiamo disegnarci in viso per poi farle un occhiolino di nascosto in segno di intesa, nel momento in cui tutti si distraggono a guardare altre cose.
Come per dire ti ho cercata fin dall’inizio per affrontarti. Come un San Giorgio che non vede l’ora di guardare negli occhi il proprio drago. Coraggio nei confronti di ciò che non si può cambiare.
Eh si, in fondo ero in ritardo, ritardissimo. Ma all’improvviso non me ne importò più nulla. Non affrettai il passo scendendo dalla metro, camminai con la mia solita andatura. Quelle parole, pur non capite fino in fondo, mi avevano anestetizzata. Mi lasciai riscaldare dal sole, dopo il buio delle stazioni. Sorrisi alla solita piazza piena di gente e di auto che ogni giorno come faccio anch’io, corrono da un posto all’altro rispettando orari, sequenze di cose da fare, liste della spesa, il succedersi di giorni e stagioni. Avevo la sensazione che importasse altro, non sapevo e ancora adesso non so cosa. So solo che arrivai in aula, il prof aveva già iniziato, tolsi la giacca e trovai un ultimo posto in fondo e sedetti. Sorrisi al pensiero che ero lì proprio nel momento in cui dovevo arrivarci, non un momento prima, non un momento dopo.

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