Fotografie di silenzio

Lo ammetto, ogni tanto ho pensato a chi si trovava al mare o alle terme a fare beatamente niente, fermo, disteso al sole o lasciandosi cullare dalle onde o dall’idromassaggio. In particolare l’ho pensato quando i sentieri diventavano di una pendenza tale che mi serviva usare le mani per proseguire, aggrappandomi qua e là, quando mi sono accorta che avevo bisogno di tenere una mano, più per aiutare la mente che il fisico. L’ho pensato quando attaccata con due moschettoni dovevo superare un ponte sospeso a sette metri di altezza tra gli alberi camminando su una trave di legno larga quanto il mio piede e con un cavo di acciaio per mantenersi, ma soprattutto quando ho capito che quello era il ponte più semplice da superare. Di nuovo, quando le braccia mi hanno tradita, dopo un’ora buona di equilibrismi vari, sulla parete di corde e sono caduta rimanendo sospesa nel vuoto. Ho capito che può essere difficile accettare di aver bisogno di aiuto, ma anche che cadere alle volte è di un sollievo meraviglioso. Mi son detta davvero non doveva far così schifo rilassarsi sotto ad un ombrellone quando salendo su un albero a dieci metri di altezza mi son ritrovata assicurata con un solo moschettone, che l’altro si era sganciato da me mentre lo spostavo per salire.
Un bagno l’ho fatto, in un fiume, nell’acqua gelida camminando su un fondo scivoloso di ciottoli e fango dopo aver pagaiato tre quarti d’ora con le braccia ancora provate dalle arrampicate e per qualche minuto mi sono sdraiata, dietro un albero, durante la partita di soft air attenta a non muovere un muscolo e non pestare per sbaglio qualche foglia che avrebbe rivelato all’avversario la mia posizione.
Mi sono ritrovata più volte davanti al limite di non credermi capace di fare l’ultimo sforzo. Un limite vero, di quelli che ti fermano, di quelli che il cervello comanda al resto del corpo di fermarsi a valutare se continuare o no. C’era da concentrarsi per capire il giusto movimento per non rischiare di farsi male.
Poi in mezzo a tutti questi pensieri, alla percezione che la natura fosse più impervia di quanto immaginassi, ho trovato ciò che al mare, ecco, non avrei trovato. Il silenzio. Dopo aver scalato un sentiero di pietre o di foglie e ramoscelli o di fango alzavo lo sguardo ed ero circondata dalle montagne. Dopo aver superato le rapide del fiume il gommone scivolava sull’acqua liscia contenuta tra rive rigogliose. Dopo esser giunta sulla piattaforma di un altro albero mi fermavo ad osservarne i rami placidi e maestosi che mi circondavano. Insomma ogni volta, dopo la fatica e il cuore a mille e il respiro affannato mi aspettava il silenzio assoluto. Queste immagini in pochi attimi mi sono entrate dentro e quel silenzio che non avevo mai sentito prima si è connesso all’istante con qualcosa di molto profondo, come un bisogno, nell’anima.

Attraverso.

Con la testa poggiata sulla mano fisso la cella del foglio Excel come se li dentro ci fosse qualcosa di estremamente importante. Ne è solo una in mezzo a centinaia di altre, ma è così che la mente sceglie quei punti che in realtà sono dei portali aperti su tutti gli universi paralleli che coesistono nello stesso istante: a caso.

In genere accade con i muri. I muri sono i posti preferiti dalla regia che regna dietro i nostri occhi per i fermoimmagine. Di solito è meglio quando sono bianchi o di colore chiaro, ma vanno bene anche quelli con la carta da parati a fantasia, purché ci sia qualche linea morbida, tipo il bordo di un ghirigoro che di solito è perfetto per posarci lo sguardo a lungo. Niente pallini e figure geometriche che portano la mente su qualche tipo di ragionamento razionale. Lo scopo non è pensare, ma guardare attraverso quel punto e lasciare che appaiano immagini e sensazioni così, dal nulla.

Un po’ come ha fatto la Luna con le nuvole questa sera. Ero uscita sul balcone per buttare della plastica e alzando gli occhi ho avuto come un senso di vertigine, sembrava che la Luna si muovesse veloce. Ad un tratto si è impantanata in un gruppo di nuvole traslucide, la mente ha ritrovato i punti di riferimento e ovviamente ha rielaborato la situazione, erano state le nuvole a sovrapporsi allo spicchio luminoso che continuava a distinguersi nitidamente nonostante la loro presenza che in genere è oscurante. Stavo guardando la Luna attraverso le nuvole, o forse stavo fissando le nuvole e oltre riuscivo a scorgere la Luna.

Io non ci ho mai creduto a quella cosa dell’essere speciale che guarirà da ogni malattia solo perché qualcuno decide di prendersene cura, perché non funziona così. Alla fine qualcuno può sentire di non essere stato abbastanza speciale, qualcun altro di non aver dato abbastanza cure. Non si solleva una persona dai suoi sbalzi di umore, te li scansi se va bene, li prendi in pieno se va male e potendo gestire le onde gravitazionali al massimo si potrebbe viaggiare di più per tutta la vita, ma nulla impedirebbe di invecchiare.

Le persone non si lasciano attraversare dalla mente. Hanno spessori profondissimi, di materiali impenetrabili. Qualche volta puoi entrarci dentro, magari percorrere anche un bel tratto. Però non ci troverai mai la Luna dall’altro lato. In genere giri intorno alla loro superficie, mutevole. A volte trovi un po’ di punti comodi dove fermarti, incastrarti, fonderti. Perché forse siamo fatti per stare così, di fianco, di spalle o abbracciati e insieme fissare i muri e gli universi paralleli che si celano dietro di essi.

ComeDiari #18: Chilometri di tempo.

Non ricordo il giorno in cui l’ho deciso. Anzi, in realtà non è stata una decisione presa in un giorno soltanto, quindi ricordarlo sarebbe un esercizio inutile della memoria. E’ stato un po’ come quando sei in ritardo alla stazione, il treno è già fermo alla banchina e le porte stanno per chiudersi da un momento all’altro. Allora ti avvicini alla prima, che è l’ultima del convoglio, pronta per salire su. Poi pensi che se affretti il passo forse riesci a raggiungere la porta successiva con il vantaggio di evitare la folla che si è creata in fondo al treno. Arrivi alla penultima porta, ma di nuovo ti stuzzica l’idea che correndo un po’ ce la fai a salire sulla carrozza centrale dove aumentano le probabilità di trovare un posto a sedere. E così via, corri di porta in porta, finché il fischio del capotreno ti ricorda che devi prendere una decisione e salire.

Mi sono ritrovata a correre sulla linea del tempo, di giorno in giorno, senza fermarmi. Non è da me e sinceramente non credevo nemmeno di avere tutto questo fiato. Far mente locale per rendersi conto di quanto fiato sia rimasto nei polmoni è una cosa che di solito fa chi ha deciso da subito quanto lontano vuole andare. Insomma, lo fa chi ha una destinazione. E’ la differenza tra chi viaggia e chi invece scappa e io non avevo idea di dove sarei voluta arrivare.

Ho sempre trovato che la fuga sia un’alternativa tra le peggiori. Sono una che resta fino alla fine, il che però forse dipende più dal fatto che faccio fatica a riconoscerne una e questo è il motivo per cui il mio inconscio ce l’ha a morte con me e mi mette i bastoni tra le ruote in continuazione.

Giorno dopo giorno mi sono accorta di aver messo una distanza tra me e quella brutta sensazione. Una distanza temporale. Quella vera, fisica, c’era già e l’avevo già invano combattuta. Io non mi accorgo nemmeno di quando qualcosa mi ferisce nel profondo. Se me ne accorgo in genere ci metto tempo, altrimenti uso quei cieli neri per appenderci le stelle come più mi piace. Ieri ho fissato un punto azzurro sopra i palazzi della mia città e mi è preso un colpo quando mi sono resa conto che da quel punto l’Universo mi osserva una volta ogni ventiquattro ore e che quindi non è fisso, altroché, il cielo è l’inganno più riuscito della Natura.

La sensazione era ed è ancora che non sarebbe mai cambiato niente.

Sarei rimasta invisibile e incastrata in un eterno eccitante inizio a cui non seguiva niente. Avrei continuato a sperare di vedere, toccare, sentire quella persona così come si era presentata all’inizio. Mi ero ritrovata ad inseguire parole e gesti che esprimevano desideri e sentimenti per me, a dipendere da quelle brevi e intense felicità, intervallate da silenzi lunghissimi, incomprensibili, dolorosi. Mi dicevo ogni volta che forse non avevo usato le parole giuste, che dovevo amarlo meglio. Insomma, che era colpa mia se di nuovo se ne era andato.

Avevo arredato così bene quel cielo che quando sentivo la sua mancanza mi bastava guardare le stelle per sentirmi vicina a lui. Le ripassavo una ad una con lo sguardo, l’avrò fatto decine e decine di volte. Ogni tanto di notte mi capita di risentire la magia che pensavo ci unisse, che lui diceva ci unisse.

Quando mi sveglio però tutte le sensazioni implodono nel petto schiacciate dall’evidenza dell’esperienza. E fa male.

Quando la quarantena ci ha rinchiusi tutti ognuno nella propria tana ho potuto notare che la sua non faceva poi così schifo come raccontava. E la differenza tra ciò che è e ciò che pensavo che fosse si è fatta così evidente che non sono riuscita a fermarmi più. La dissonanza aveva un’unica spiegazione, quel che dice non coincide con quel che è. Lui non esiste. Ho corso ancora e cercando di non guardarmi indietro. In fondo sarebbe stato contro natura restare ancora a lungo immobile nel suo cielo.

La pasticceria

foto personale

“Sono rimasta nel traffico. Cazzo è tutto bloccato stasera! Va beh dai, sto arrivando.”

Ho messo le scarpe sbagliate oggi. Non sono adatte per aspettare in piedi, per strada, sui sanpietrini. E tira un vento che porcamiseria, non ho messo la sciarpa e nemmeno il cappello, domenica c’era la primavera, l’avete-vista-anche-voi, vero? E non so che fare adesso. Penso che potrei fare shopping. Entro in un negozio di abbigliamento. Mi sento troppo scocciata perfino per chiedere alla commessa il prezzo di quella giacca. Esco.

Ma si, quella pasticceria all’angolo. C’ha pure i posti a sedere. E’ proprio carina, ti metti lì, ti rilassi e poisaihovishiauialaosh.. La voce nella mia memoria si affievolisce. Non ricordo né dove l’ho sentita né da chi. Il vento continua a tirarmi giù dalla testa il cappuccio del cappotto. Attraverso la strada illuminata dalle luci gialle, bianche e rosse delle auto e proseguo sulla destra fino alla pasticceria. Mi affaccio dentro per vedere se ci sono posti liberi. La signora alla cassa mi invita ad entrare indicandomi l’ultimo tavolino in fondo. Mi siedo sulla poltroncina di pelle grigia chiara davanti ad un tavolino rettangolare che parte direttamente dal muro sotto la finestra alla mia sinistra. Le tende rosse sono raccolte ai lati della finestra e un pilastro dietro la poltroncina di fronte alla mia mi nasconde dal resto del locale. Dal mio posto posso sbirciare la vetrina lunghissima piena di dolci di tutti i tipi e buttare un occhio sulla strada da dietro al vetro che inizia a puntinarsi di gocce d’acqua microscopiche.

Non ho fame e ordino una tisana di un arancio carico che sa di mela, carota e zenzero. E poi, forse, devo essermi suggestionata come un’Alice che legge messaggi su bottiglie e su dolcetti dopo essere finita in una casetta cadendo in un pozzo profondissimo, mentre osservo invece sul talloncino alla fine della bustina della mia tisana la scritta Emozionami.

Pochi minuti e ho dimenticato il vento e il tempo e il vuoto che mi zavorra. Caspita, queste scarpe mi danno un’aria così sofisticata. Che belle le luci della città. Mi trovo in tutti i posti del mondo in un istante. Sono nell’Orient Express che sfreccia veloce di notte chissà attraverso quali terre, in un bar di Londra pieno di persone tutte sole e tutte parte comunque di qualcosa, in un caldo pub in Belgio e anche nel cuore di Napoli, ricordi quel posto? Dicemmo che ci saremmo tornate. E ovunque sto buttando giù idee su fazzoletti di carta con una penna trovata nella mia borsetta. Idee che diventeranno un racconto o magari un romanzo. E sono bella e forte e so stare con chiunque, se capita, altrimenti mi lascio cullare da una calda e sottile malinconia. Riesco a fare quello che mi piace e a non sentirmi in debito con la mia felicità quando faccio invece ciò che devo. Sto bene. Sto così bene.

“Ehi sono quasi arrivata”

L’ultimo sorso di tisana è freddo. Mi alzo, riprendo la borsa e lo zaino, pago ed esco. Una signora mi viene addosso mentre lotto con il vento per rimettermi il cappuccio. Scorgo da lontano le frecce d’emergenza e l’auto accostata al marciapiede. Il sogno si è infiltrato nelle trame della mia realtà e la città sembra più bella anche senza più quel vetro davanti.

Distanza

distanza

Distanza.

Ultimamente ogni aspetto importante della mia vita, purtroppo, ha a che fare con questa parola. Già di suo sembra avere sempre e comunque un’accezione negativa.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Significa pure però che quella cosa, persona, non la stiamo vivendo. Non è presente nella successione di spazi e di attimi che ci circondano, in alcun modo. Oppure. Non possiamo non ferirci le dita provando ad accarezzare i bordi di un obiettivo che non si incastra ancora perfettamente nei nostri giorni. Robe così.

Nonostante ciò io la distanza non l’ho mai demonizzata. Non mi ha mai spaventata. Forse perché di mio tendo ad uscire dalle definizioni, inventare significati per vedere quanto vanno lontani da soli senza dover correre a sorreggerli e ogni tanto mi guardo intorno attraverso un tulle colorato, di quelli delle bomboniere, per vedere di che colore diventa la realtà. Forse, invece, è perché da piccola ho imparato che non c’era persona amata distante abbastanza da non poter essere raggiunta con un treno o un auto e molti dei miei familiari vivevano dai trenta ai novecento chilometri da me.

Distanza per me non è separazione. Eppure, mi sono dovuta arrendere a quell’evidenza che per tante persone è normalità, per cui non ho avuto scampo. I miei giorni si sono riempiti di quel significato da cui sono fuggita tante volte e s’è preso tutto lo spazio schiacciandomi a terra.

Da lì ho percepito un altro aspetto della questione: la distanza è anche un filtro. Non la si attraversa senza i requisiti necessari. Motivazioni deboli e legami sottili non ce la fanno, soccombono quasi subito. Qualcuno direbbe che è anche una questione di mezzi e di risorse disponibili ed è vero, anche se questo vale solo dal punto di vista fisico. Si può essere vicini anche in altri modi che ognuno può immaginare da sé. Qualcun’altro sosterrebbe che in fondo questa è una cosa positiva: se una persona riesci a sentirla nonostante lo spazio -e magari il tempo- allora un legame c’è davvero.

Messa al tappeto dall’evidenza, dunque, ho pensato di arrendermi. E si. Basta. Tanto è inutile. Le circostanze hanno sempre la meglio. Ci sono rapporti, vite, alberi genealogici interi che si reggono su una o due di loro. Chi sono io mai per rivoltare l’ordine delle cose? Se mi spaventano le circostanze più delle distanze in fondo è un problema soltanto mio. Mi sono piantata lì a terra e ho iniziato a sentire freddo. Dentro. Un freddo strano.

Era trasparente. Limpido. Una sensazione che puliva via tutte le altre così ingarbugliate, dolorose, arrabbiate e tristi insieme. Sembrava libertà. Mi sono sentita come l’estremità di una distanza appena rotolata via chissà dove e di cui riuscivo a vedere solo alcuni tratti che ho capito avrei dovuto percorrere da sola. Mi sono alzata e ho iniziato a fare qualche passo. Non ho idea di dove si trovi l’altra estremità, ma di aspettare e di combattere le circostanze mi sono davvero stufata.

Se una cosa, una persona, un traguardo è distante, lontano, vuol dire che non è qui. Ovvio, sì.

Adesso, però, non ci sono più neanch’io.

Il Tao Nella Schiuma Del Caffé

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Non sopporto affatto quando mi si dice che non c’è bisogno di aspettare il momento giusto. 

Il momento giusto è l’intervallo di tempo durante il quale si realizzano le circostanze adatte per cimentarsi in una o più attività desiderate da Dio-solo-lo-sa quanti intervalli di tempo prima. Trattasi del momento in cui si hanno a disposizione -tutte insieme- le seguenti cose: voglia, motivazione, risorse e mezzi. Qualche volta anche l’appoggio delle persone per noi più importanti. Quando si presenta, l’attività viene svolta e portata a termine non senza complicazioni ma con ottime probabilità di buona riuscita. Il momento giusto può farti sognare e regalarti le esperienze migliori della tua vita.

Il momento giusto, però, va aspettato. Già. A lui non importano le innovazioni tecnologiche, la possibilità di compiere grandi spostamenti in poco tempo, l’opportunità di essere connessi con i propri cari, amici e con il resto del mondo pure, praticamente sempre e -quasi- in ogni luogo. Nonostante la tecnologia sia una fucina di risorse e occasioni, il momento giusto continua a pretendere che tu aspetti. Quella risorsa o quell’occasione. Se ne fa un baffo del fatto che siano ormai così numerose e a portata di mano.

Tuttavia, noi viviamo in ansia. Più siamo connessi, fisicamente e non, con il mondo, più occasioni abbiamo di relazionarci agli altri, di viaggiare, di realizzare i nostri desideri e più ci sembra di sprecarne in continuazione. Vediamo il tempo come un contenitore da riempire di esperienze, nozioni, aforismi, amicizie, soldi. Siamo perennemente insoddisfatti perché, per forza di cose, quel contenitore non ci sembra mai pieno abbastanza. Nel letto, di sera, aggiorniamo il conto dei minuti persi ad osservare un tramonto o a guardare un punto nel vuoto mentre la mente, frenetica, approfittava di quella specie di ipnosi per riorganizzare gli ultimi pensieri confusi.

Ecco perché si è diffusa la paura di aspettare.

Mentre aspettavi il momento giusto, infatti, qualcuno su Facebook aveva già postato una foto delle proprie vacanze ad Ibiza, vantandosi di una prova costume ampiamente superata. Qualcun’altro si stava sposando. Un altro ancora aveva perso il tuo numero allo stesso modo con cui si perde una moneta da 5 cent mentre si prende la lista della spesa dalla tasca dei jeans. Per alcuni continuerai ad essere importante come quel bicchiere di cristallo regalato dalla nonna, bellissimo e fragile, da mettere in vetrina per evitare possa rompersi.

Cosa aspetti allora? Vai!

Prendi la valigia dall’armadio e riempila di cose che non ti serviranno. Trascinala, con le forze che non hai a causa della stanchezza accumulata verso la porta e poi verso il treno. Scatta fotografie di paesaggi svestiti dei tuoi sorrisi e con il cuore pesante e la mente sovraffollata vai in giro per le strade a cercarti, a capire cosa vuoi davvero, a parte il tornare a casa. Riapri il pc e progetta daccapo un nuovo viaggio. Capisci che alla fine è questo ciò che lo renderà un vero viaggio. Più dell’offerta last minute, più dei likes sui social quel che ti serve è il tempo. Quel tempo che alla fine ti restituirà il senso del tutto.

Esiste un momento giusto anche per deglutire. Quando si mangia troppo in fretta, infatti, il piatto si svuota ma si ha ancora fame. Come se lo stomaco fosse preso alla sprovvista e non riuscisse ad organizzarsi per dare i giusti segnali al cervello affinché ci si possa sentire sazi. Sembra assurdo, ma è il tempo, più del cibo, che conta in realtà. In altri casi, al fine di sentirci soddisfatti e in pace con noi stessi. C’è chi potrebbe obiettare si, ma come si fa a sapere qual è il momento giusto? 

La risposta non la so, però mentre ci pensavo stavo giocherellando con la schiuma del caffè. Muovevo la stecchetta creando forme e sfumature. Insomma, perdevo tempo. Tempo tolto a cose molto più utili eppure ad un certo punto ho sorriso come una scema davanti al mio bicchierino, cosa che non sarebbe accaduta se avessi bevuto il caffé subito e di fretta. Nella schiuma avevo, senza volerlo, disegnato un piccolo tao. Non potrei giurarci, eppure, ho avuto come l’impressione che qualsiasi momento giusto, alla fine, coincide con quello in cui stai iniziando a ridere da sola e nessuno intorno a te può in nessun modo capirne il perché.

 

‘Ma Non Fa Niente’

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“Mi sentirei di dirti che il viaggio cambia un uomo
E il punto di partenza sembra ormai così lontano
La meta non è un posto ma è quello che proviamo
E non sappiamo dove né quando ci arriviamo
Trascorsi giorni interi senza dire una parola
Credevo che fossi davvero lontano
Sapessimo prima di quando partiamo
Che il senso del viaggio è la meta, è il richiamo
Perché ti voglio bene veramente
E non esiste un luogo dove non mi torni in mente
E avrei voluto averti veramente
E non sentirmi dire che non posso farci niente
Avrei trovato molte più risposte se avessi chiesto a te
Ma non fa niente
Non posso farlo ora che sei così lontano”
[Ti ho voluto bene veramente – M. Mengoni]

Vieni In Libreria Con Me

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Appena entrata mi sono fermata, giusto un attimo prima di decidere da che parte andare. Soltanto quando sono arrivata più o meno al centro della libreria, tra tutti gli scaffali, mi sono accorta che i miei due compagni-di-passeggiata-approfittiamo-del-coupon-sconto erano spariti. Mio padre, alla mia sinistra, era già immerso nel reparto Gialli, mia madre invece era partita dritta verso Filosofia Orientale. Entrambi già presi, concentrati. Io ho cercato Bach, tanto per cambiare. Ormai è una specie di rito, una visita di cortesia al pezzo di mensola che reca il suo cognome. Puntualmente non trovo quei due-tre libri che non ho e prima o poi mi deciderò ad ordinare su internet direttamente, ma ci vado lo stesso.
Di solito non entro mai in una libreria senza avere già in mente un titolo, un libro che desidero in particolare. Finisco per perdermi. Spesso invece mi capita di cercarne una per il gusto di passeggiare tra gli scaffali, prendere qualche opera che attira la mia attenzione, leggere trame, lasciarle gironzolare nella testa. Il profumo della carta fa tepore in inverno, ma ti abbraccia dentro comunque, in qualsiasi altro momento.
Un piccolo punto di partenza l’avevo però, iniziare da uno degli ultimi autori che ho letto. Non proprio l’ultimo perché di solito non riesco a leggere due libri dello stesso autore uno dietro l’altro. E’ come se rischiassero di mischiarsi, contaminarsi. La lettura di un libro non termina mai con l’ultima pagina. Per qualche giorno ancora la storia vive nelle immagini di luoghi, nelle sensazioni provate. Ogni viaggio quando finisce pretende ancora un po’ di tempo per sé, prima di lasciarti tornare a casa.
Ho raggiunto Dostoevskij. Alla mia sinistra mio padre era già sparito, alla mia destra il Dalai Lama mi guardava di traverso. Dimmi in quale reparto della libreria ti piazzi e ti dirò chi sei. Invece di concentrarmi sulla mia ricerca, guardavo le altre persone, su quali scaffali indugiavano, quali libri sfogliavano. Come se il posto in cui si cercano risposte dicesse tutto di sé. Aleggia una strana sensazione di rispetto, cortesia, ognuno preso a specchiarsi in qualche copertina e attento a non disturbare la ricerca di altri. Ho cercato di nuovo con lo sguardo i miei compagni di serata, si erano già ritrovati. Non sono sicura di quale sia stata la reazione di Osho alla vista di Simenon, ma poco dopo s’è posto Il Giocatore in mezzo, a separarli. Che avrebbero potuto avere qualcosa da ridire sul finire insieme sullo stesso scaffale dopo una vita intera trascorsa ad osservare due mondi completamente diversi, ai lati opposti di una grande libreria.

 

Il Mio Demian

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  La dj alla radio porse una domanda all’ascoltatrice al telefono, cogliendo la mia attenzione che fino a quel momento doveva essere stata altrove. Non ricordo a cosa pensavo prima, a parte il tizio che da dietro lampeggiava, ma ricordo abbastanza bene tutta la serie di riflessioni che presero a ronzarmi per la testa, finché non giunsi a destinazione.

E allora quand’è iniziato il vostro amore? 

  Sono certa che la tipa rispose qualcosa riguardo l’inizio della relazione con il suo uomo, ma non l’ascoltai per niente perché mi arenai sulle parole “iniziato” e “amore” convinta che fossero accostate in modo strano, che nella stessa frase facessero un po’ a botte, che non suonassero bene insieme. Adesso scrivendolo mi rendo conto di quanto questa sia solo una pignoleria, che tante volte si usano le parole in maniera che insieme rendano un concetto più generico e intuitivo, eppure quella stranezza mi attraeva e mi portava lontana dalle loro voci.
L’amore è davvero qualcosa che inizia? Esiste un giorno, un istante specifico in cui ci si sente innamorati? Direi che si, esiste ed è più o meno quando gli occhi si aprono un po’ di più e il cuore aggiunge battiti a quelli già schierati, ma è più una consapevolezza che un inizio. Non è che un momento prima non ne avessimo affatto dentro e quello dopo lo si sente guidare i passi, le parole.
  Sono i rapporti ad iniziare, come i viaggi, ma l’amore sa dedicarsi anche a giornate di sole, onde di un mare. Se non inizia, dunque, non finisce. Non si lascia uccidere, tormentare, smontare o ingannare. Sa proteggersi. Avrei potuto sbottonare mille corazze e spogliarti di altrettante paure e ancora non baciare la tua pelle davvero. Si lascerebbe accarezzare appena, un giorno e poi cercarsi un’altra casa, quello dopo. Vagherebbe per giorni in completa solitudine pur di trovare un nuovo arcobaleno dal quale tuffarsi. Anche sapendo di questa sua proverbiale costanza, mi son dovuta ripetere più di una volta che non si parte per scappare. Che scappando non esiste posto in cui poi si possa dire di arrivare. Credo di aver barato chiudendo questa convinzione in valigia pochi minuti prima di andare, per portarla con me, si, ma senza averla in continuazione tra i piedi. Avevo camminato sul fondo sconnesso di un fiume in secca e non avevo più idea di cosa significasse essere trasportati dall’acqua, galleggiare senza opporsi alla corrente, non ferirsi ad ogni passo. Mi sono chiesta come avrei potuto sentire ancora quella sensazione di libertà, di vita. In che modo quel fiume che non ha né inizio né fine avrebbe potuto investirmi ancora, anche soltanto per sentire il profumo del cielo e chiamare amica ogni nuvola che coprendo il sole bisbiglia tenerezze di un autunno anticipato, piuttosto che tristezza. Allora ho aperto un libro. Ho osservato a lungo persone che avevo intorno, l’affetto nelle mani, l’amore negli occhi, la solitudine nei passi e i sorrisi rivolti al sole. Non so come tutto ciò si legava al libro che leggevo o come quest’ultimo tirasse fuori da ogni immagine proprio ciò di cui avevo bisogno. E’ come se qualche volta dei libri non capitino tra le mani per caso. Hanno con sé risposte, spunti, idee nuove, idee che si collegano alle tue e le ampliano, le abbelliscono. Mi sono trovata in un turbinio di parole e sogni notturni, strette di mano e sguardi che superavano distanze di gran lunga maggiori di quanto sembrasse. Come quelle che per tanto tempo ho guardato, analizzato e combattuto per niente. E’ stato diverso e meno coinvolgente, ma affascinante come pochissime altre cose di cui sono stata circondata negli ultimi mesi.
  Sono i viaggi a finire, come i rapporti, ma l’amore siede accanto a te al ritorno e saltella tra foto e cartoline memorizzando dettagli, luci e proiettandosi a sua volta su cose ancora non dette, ancora non viste. Sento la testa piena di un mucchio di cose nuove adesso, frasi iniziate e da finire, pezzi di idee che aspettano di essere seguite. E’ un nuovo punto di partenza questo, un fermento, uno slancio in cui spero di trasformarmi, per viaggiare ancora.

 

*…”Per Esempio Non E’ Vero Che Poi Mi Dilungo Spesso Su Un Solo Argomento”…*

Lo vidi salire sulla metro circondato da alcune persone, in maggioranza ragazze poco più piccole di me. Alto, magro, sui sessanta un po’ trasandato ma con l’aria spigliata e gli occhi vivaci, occhiali e berretto verde militare, intento a parlare, raccontare qualcosa che non riuscivo a sentire bene perchè ero un po’ più lontana. Mi avvicinai insieme ad altre persone, che di mattina presto un po’ per il sonno un po’ per tristezze varie che di solito ti accompagnano a quell’ora fino al primo sorriso della giornata, avevamo dei musi lunghissimi e quella persona così sveglia e vivace ci attirava molto. Capii presto il perchè. Era un vulcano di idee. Parlava di qualunque cosa gli venisse in mente, prendendo spunto guardandosi intorno, guardando quel piccolo gruppo che si era formato intorno a lui e alternandosi in abili complimenti alle ragazze che sorridevano illuminandosi visto che certe cose ormai nessuno le dice più, o almeno non più sinceramente. Sembrava che in quel momento stesse su un altro pianeta. Era spiazzante il modo in cui riusciva a catturare menti assopite e consumate sempre dagli stessi inutili e dannosi giri di pensieri. La sua era viva. Quando arrivai stava rassicurando tutti che non era stato pagato dal comune della città per intrattenere i viaggiatori stufi dei soliti ritardi, quel giorno particolarmente pesanti, ma che gli faceva solo piacere condividere e trasmettere ciò che gli passava per la testa. Poi iniziò a parlare della Grande Bellezza collegandosi alla bruttezza del dipinto del Cristo Morto passando per Dostoevskij che non ho afferrato cosa c’entrasse, si soffermò su quanto fossero belle le donne quando sorridono, sorriso generale, e sul fatto che le persone delle loro vite si fossero innamorate di loro quando per la prima volta le hanno viste con gli occhi tutti attaccati dal sonno, appena sveglie, e non grazie al trucco che sfoggiano ogni giorno. Continuò ancora un po’ nel suo monologo finchè non disse una cosa alla quale continuo a pensare non tanto per il concetto in sè, ma per l’effetto che fece su di me in quel momento.

Più o meno con queste parole disse: Ma io vi vedo preoccupati, avete delle facce così tristi… Ma è perchè siamo in ritardo? State pensando che arrivate tutti tardi, che il capo si arrabbia, che vorreste essere già arrivati. E invece secondo me è perfettamente normale. Non c’è alcun bisogno di preoccuparsi. Non mi credete ma è così.  Arriveremo esattamente quando dovremmo arrivare. 

A quelle parole io sbarrai gli occhi. Mi scosse. Tutti sorrisero scettici scambiandosi occhiate. Io continuai a guardarlo non sicura che stesse dicendo sul serio. Era una stupidaggine in fondo. Eravamo in ritardo, io sarei arrivata tardi alla lezione, qualcuno tardi ad un esame, ad un appuntamento, a lavoro… Come poteva essere così tranquillo lui? Continuai a guardarlo incredula, mentre sorrideva sereno, come se fosse a conoscenza di qualcosa che nessuno intorno a lui poteva immaginare, qualcosa che lo faceva star bene e in pace con il mondo. Poi ho smesso di rifletterci, lui è sceso dalla metro nel mezzo di un altro aneddoto promettendo al suo piccolo pubblico che avrebbe finito di raccontarlo l’indomani.

Dopo questo episodio mi venne in mente una risposta di Richard Bach ad un mio commento sul suo sito, prima dell’incidente, sito che ora ha riaperto e ne sono felicissima. Il post parlava di quando insieme al suo biplano Puff si trovò ad affrontare per la prima volta una tempesta, di quanto in loro ci fosse sia spavento, sia coraggio nei confronti di ciò che non potevano cambiare. Le nuvole all’orizzonte erano nere e cariche di pioggia e si stavano avvicinando sempre più. Io chiesi se la consapevolezza degli ostacoli che ci si pongono di fronte, dei problemi, di ciò che accade e che non possiamo governare, fosse il segreto per vincere e per uscirne fuori. Lui rispose che quanto più siamo lenti nel capire e intuire ciò che sta accadendo, quanto meno siamo consapevoli delle prove che ci troviamo ad affrontare, più sembra che sia la vita a pescare ostacoli e test generici dalla sua ‘scatola delle infinite possibilità’. E disse poi, non otterremmo più punti se definissimo noi stessi il campo da gioco invece?

Ci ho sempre pensato tanto a queste parole e ogni volta che nel capirle davvero mi sono sentita forte mi sono resa conto di quanto non sia così, o almeno, di quanto sia estremamente difficile che sia così. Perchè è all’improvviso che ti casca il terreno da sotto ai piedi, è in pochi istanti che le situazioni possono cambiare in peggio irrimediabilmente, è da un giorno all’altro che le persone vanno via dalle vite di altre, così velocemente da creare vuoti che distruggono ogni vecchio e nuovo sorriso. Com’è possibile allora che ci sia un modo per essere così saggi e forti da non lasciarsi colpire da ciò che cambia e non possiamo fermare? Come si può essere tanto consapevoli di sé da vivere senza ansia e paura ogni difficoltà? E’ come se davanti ad ognuno di esse ci presentassimo con l’aria corrucciata, l’espressione più feroce che possiamo disegnarci in viso per poi farle un occhiolino di nascosto in segno di intesa, nel momento in cui tutti si distraggono a guardare altre cose.

Come per dire ti ho cercata fin dall’inizio per affrontarti. Come un San Giorgio che non vede l’ora di guardare negli occhi il proprio drago. Coraggio nei confronti di ciò che non si può cambiare.

Eh si, in fondo ero in ritardo, ritardissimo. Ma all’improvviso non me ne importò più nulla. Non affrettai il passo scendendo dalla metro, camminai con la mia solita andatura. Quelle parole, pur non capite fino in fondo, mi avevano anestetizzata. Mi lasciai riscaldare dal sole, dopo il buio delle stazioni. Sorrisi alla solita piazza piena di gente e di auto che ogni giorno come faccio anch’io, corrono da un posto all’altro rispettando orari, sequenze di cose da fare, liste della spesa, il succedersi di giorni e stagioni. Avevo la sensazione che importasse altro, non sapevo e ancora adesso non so cosa. So solo che arrivai in aula, il prof aveva già iniziato, tolsi la giacca e trovai un ultimo posto in fondo e sedetti. Sorrisi al pensiero che ero lì proprio nel momento in cui dovevo arrivarci, non un momento prima, non un momento dopo.