Mai Abbastanza

Per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta. Perché hai una dimensione in più. Chi vuol vivere oggi e godere la vita non deve essere come te o come me. Chi pretende musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece di denaro, passione invece di trastullo, per lui questo bel mondo non è una patria.”

[Il lupo della steppa, Hermann Hesse]

Ho sempre trovato che ‘abbastanza’ fosse una parola decisamente strana. Riporta alla mente un concetto di quantità, ma indefinita. Abbastanza è …  abbastanza. Sufficiente, quanto basta per. Indica una quantità indeterminata, si, ma definisce comunque una specie di confine, di soglia al di sotto della quale non si può andare. Un po’ meno di abbastanza è ‘poco’.

Poco significa che bisogna ancora lavorarci su. Impegnarsi e far si che diventi abbastanza per rallentare, tirare un sospiro, fermarsi o comunque continuare ma con calma, che in abbastanza si può star comodi e allargare i gomiti per definire un nuovo spazio personale e sgranchirsi le gambe e le spalle facendo un po’ di stretching sul posto.

Un po’ più di abbastanza è … Non lo so cos’è, o meglio, può essere un mucchio di cose. L’umanità potrebbe essere divisa e classificata sulla base di cosa per ognuno di noi significa aver detto o fatto più di abbastanza. Sul serio. C’è chi si ferma perché ha già fatto abbastanza e si mette lì comodo a guardare gli altri affaccendarsi per fare di più, ottenere altro, qualcosa che sia meglio. Meglio può fermarsi in ‘giusto’. Cosa lo sia poi, chissà. Meglio è anche ‘ciò che merito’. In seri casi di megalomania meglio può arrivare ad essere ‘tutto’. Tutto comprende pure ciò che non serve o è di qualcun’altro, ma tutto è ancora più comodo di abbastanza, tutto è forza, potere. Autorità acquisita di decidere addirittura cosa può essere abbastanza per gli altri. Tutto è la perfezione, il gradino più alto da cui si deride quel vecchio abbastanza, proprio di chi si è arreso senza riempirsi le tasche di qualunque cosa gli passasse affianco.

A me sembra che ormai l’idea di abbastanza adesso, anche per colpa loro, sia in crisi. Non è mai abbastanza.

Non si lavora abbastanza per ricevere una degna pensione. Non si ha l’ultimo smartphone per essere abbastanza al passo con i tempi, non si è abbastanza social per tenersi sempre al corrente di tutto ciò che accade a chiunque, non si colgono mai abbastanza opportunità, non si hanno abbastanza esperienze per avere un curriculum figo o abbastanza contatti in LinkedIn, abbastanza mi piace su Instagram, non si è abbastanza come studente se non vai in Erasmus e non si sfrutta abbastanza la propria laurea se non si cerca lavoro all’estero, non si festeggia il 25 aprile perché l’Italia intera, così com’è, non è abbastanza affidabile come la Germania o efficiente come la Finlandia, l’economia non è abbastanza per le banche europee di conseguenza lo Stato non è abbastanza perché possiamo esserne fieri e sentirci protetti. Se non si girano abbastanza locali si è asociali e se nemmeno la testa gira abbastanza i problemi non schizzano mai via. Non si è mai abbastanza per gli altri perché non tiriamo dal cappello mai il coniglio giusto che risolverà tutti i loro problemi.

Mai abbastanza è un dito puntato contro il nostro tempo e le possibilità che abbiamo per impiegarlo al meglio e sentirci soddisfatti di noi stessi. Infatti io credo sia questo il punto: dobbiamo esser noi a decidere cosa significa ‘abbastanza’. E’ assurdo pensare che il mondo sia un filtro e che noi dobbiamo avere certi requisiti per passarci attraverso. Semmai è il contrario.

Esiste un diritto alla leggerezza? Qualcuno ne ha mai sentito parlare? C’è da qualche parte scritto che perdere tempo e fissare il vuoto è assolutamente necessario per decidere quale strada prendere, che bisogna salire ogni tanto su un treno senza destinazione così per il gusto di farlo o staccare internet e godersi un po’ di beato isolamento, amare senza per forza sentire di non meritarlo e lasciar perdere e far scivolare via tutto, tutto quanto, tutto ciò di cui non ci frega un bel niente ed è pesante tanto da tenerci bloccati sempre e irrimediabilmente con i piedi per terra.

What If You Fly … ?

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Ho provato a capire, e ho capito solo che avrei dovuto ancora sopportare. Ho provato a parlare, ma le mie parole si sono rese conto di andare incontro ad altre che credevano già di sapere, invece che ascoltare. Dicesi giudicare. Ho provato a difendermi e la tempesta allora ha alzato di più la voce e ho chiuso di nuovo gli occhi mentre mi bagnava il viso. Ho provato a scappare, ma mi avevano già vista. Figurarsi il tentativo di nascondermi come è andato. Poi ho capito che i sorrisi non possono che nascere da dentro se stessi. E che bisogna prendersene cura. Con calma, per conto proprio. Perché appunto, se proprio si tratta di scegliere allora preferisco volare.

*… Jonathan Va In Città …*

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“Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato.

A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata. Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per conto suo: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscio lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo… d’un paio… di centimetri… quella… penosa torsione e… D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù. I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.
Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.”

[incipit-Il Gabbiano Jonathan Livingston-Richard Bach; foto personale, Napoli-giugno 2014]

 

*…”Per Esempio Non E’ Vero Che Poi Mi Dilungo Spesso Su Un Solo Argomento”…*

Lo vidi salire sulla metro circondato da alcune persone, in maggioranza ragazze poco più piccole di me. Alto, magro, sui sessanta un po’ trasandato ma con l’aria spigliata e gli occhi vivaci, occhiali e berretto verde militare, intento a parlare, raccontare qualcosa che non riuscivo a sentire bene perchè ero un po’ più lontana. Mi avvicinai insieme ad altre persone, che di mattina presto un po’ per il sonno un po’ per tristezze varie che di solito ti accompagnano a quell’ora fino al primo sorriso della giornata, avevamo dei musi lunghissimi e quella persona così sveglia e vivace ci attirava molto. Capii presto il perchè. Era un vulcano di idee. Parlava di qualunque cosa gli venisse in mente, prendendo spunto guardandosi intorno, guardando quel piccolo gruppo che si era formato intorno a lui e alternandosi in abili complimenti alle ragazze che sorridevano illuminandosi visto che certe cose ormai nessuno le dice più, o almeno non più sinceramente. Sembrava che in quel momento stesse su un altro pianeta. Era spiazzante il modo in cui riusciva a catturare menti assopite e consumate sempre dagli stessi inutili e dannosi giri di pensieri. La sua era viva. Quando arrivai stava rassicurando tutti che non era stato pagato dal comune della città per intrattenere i viaggiatori stufi dei soliti ritardi, quel giorno particolarmente pesanti, ma che gli faceva solo piacere condividere e trasmettere ciò che gli passava per la testa. Poi iniziò a parlare della Grande Bellezza collegandosi alla bruttezza del dipinto del Cristo Morto passando per Dostoevskij che non ho afferrato cosa c’entrasse, si soffermò su quanto fossero belle le donne quando sorridono, sorriso generale, e sul fatto che le persone delle loro vite si fossero innamorate di loro quando per la prima volta le hanno viste con gli occhi tutti attaccati dal sonno, appena sveglie, e non grazie al trucco che sfoggiano ogni giorno. Continuò ancora un po’ nel suo monologo finchè non disse una cosa alla quale continuo a pensare non tanto per il concetto in sè, ma per l’effetto che fece su di me in quel momento.

Più o meno con queste parole disse: Ma io vi vedo preoccupati, avete delle facce così tristi… Ma è perchè siamo in ritardo? State pensando che arrivate tutti tardi, che il capo si arrabbia, che vorreste essere già arrivati. E invece secondo me è perfettamente normale. Non c’è alcun bisogno di preoccuparsi. Non mi credete ma è così.  Arriveremo esattamente quando dovremmo arrivare. 

A quelle parole io sbarrai gli occhi. Mi scosse. Tutti sorrisero scettici scambiandosi occhiate. Io continuai a guardarlo non sicura che stesse dicendo sul serio. Era una stupidaggine in fondo. Eravamo in ritardo, io sarei arrivata tardi alla lezione, qualcuno tardi ad un esame, ad un appuntamento, a lavoro… Come poteva essere così tranquillo lui? Continuai a guardarlo incredula, mentre sorrideva sereno, come se fosse a conoscenza di qualcosa che nessuno intorno a lui poteva immaginare, qualcosa che lo faceva star bene e in pace con il mondo. Poi ho smesso di rifletterci, lui è sceso dalla metro nel mezzo di un altro aneddoto promettendo al suo piccolo pubblico che avrebbe finito di raccontarlo l’indomani.

Dopo questo episodio mi venne in mente una risposta di Richard Bach ad un mio commento sul suo sito, prima dell’incidente, sito che ora ha riaperto e ne sono felicissima. Il post parlava di quando insieme al suo biplano Puff si trovò ad affrontare per la prima volta una tempesta, di quanto in loro ci fosse sia spavento, sia coraggio nei confronti di ciò che non potevano cambiare. Le nuvole all’orizzonte erano nere e cariche di pioggia e si stavano avvicinando sempre più. Io chiesi se la consapevolezza degli ostacoli che ci si pongono di fronte, dei problemi, di ciò che accade e che non possiamo governare, fosse il segreto per vincere e per uscirne fuori. Lui rispose che quanto più siamo lenti nel capire e intuire ciò che sta accadendo, quanto meno siamo consapevoli delle prove che ci troviamo ad affrontare, più sembra che sia la vita a pescare ostacoli e test generici dalla sua ‘scatola delle infinite possibilità’. E disse poi, non otterremmo più punti se definissimo noi stessi il campo da gioco invece?

Ci ho sempre pensato tanto a queste parole e ogni volta che nel capirle davvero mi sono sentita forte mi sono resa conto di quanto non sia così, o almeno, di quanto sia estremamente difficile che sia così. Perchè è all’improvviso che ti casca il terreno da sotto ai piedi, è in pochi istanti che le situazioni possono cambiare in peggio irrimediabilmente, è da un giorno all’altro che le persone vanno via dalle vite di altre, così velocemente da creare vuoti che distruggono ogni vecchio e nuovo sorriso. Com’è possibile allora che ci sia un modo per essere così saggi e forti da non lasciarsi colpire da ciò che cambia e non possiamo fermare? Come si può essere tanto consapevoli di sé da vivere senza ansia e paura ogni difficoltà? E’ come se davanti ad ognuno di esse ci presentassimo con l’aria corrucciata, l’espressione più feroce che possiamo disegnarci in viso per poi farle un occhiolino di nascosto in segno di intesa, nel momento in cui tutti si distraggono a guardare altre cose.

Come per dire ti ho cercata fin dall’inizio per affrontarti. Come un San Giorgio che non vede l’ora di guardare negli occhi il proprio drago. Coraggio nei confronti di ciò che non si può cambiare.

Eh si, in fondo ero in ritardo, ritardissimo. Ma all’improvviso non me ne importò più nulla. Non affrettai il passo scendendo dalla metro, camminai con la mia solita andatura. Quelle parole, pur non capite fino in fondo, mi avevano anestetizzata. Mi lasciai riscaldare dal sole, dopo il buio delle stazioni. Sorrisi alla solita piazza piena di gente e di auto che ogni giorno come faccio anch’io, corrono da un posto all’altro rispettando orari, sequenze di cose da fare, liste della spesa, il succedersi di giorni e stagioni. Avevo la sensazione che importasse altro, non sapevo e ancora adesso non so cosa. So solo che arrivai in aula, il prof aveva già iniziato, tolsi la giacca e trovai un ultimo posto in fondo e sedetti. Sorrisi al pensiero che ero lì proprio nel momento in cui dovevo arrivarci, non un momento prima, non un momento dopo.

*… CronacaDiUnBroncio …*

E d’accordo, immagino che non sia poi così tremendo. Dopo aver scoperto che l’influenza s’è portata via otto giorni che potevano esser sicuramente spesi meglio, due chili e un altro tono di colore dal viso, che in realtà il professore non aveva intenzione di tenermi in ostaggio al dipartimento ma semplicemente aveva già pranzato, lui, mentre io fino alle quattro non ho desiderato altro che divorare lui, le tavole del progetto, matite e scrivanie e che no, non mi stava prendendo in giro quando finalmente pensavo di poter andare via chiedendomi di calcolare l’area di terra da scavare per realizzare la strada in trincea soltanto per farmi notare che mi ero dimenticata di segnare un paio di misure sulla carta millimetrata. Dopo aver capito che con un po’ di impegno non è poi così vano sperare di riuscire a tornare a casa nonostante la sera prima avessi appreso dal tg che su 130 soltanto 20 sono i treni ancora in grado di portartici, tenuto conto che con te ogni giorno ci sperano altri 99.999 pendolari nell’arco di un’intera giornata.
Non è poi così tremendo scoprire, una volta arrivata a casa, che la canzone che avevo beccato alla radio, al mattino e continuato a canticchiare fino a sera, fosse poi dei Tiromancino. Che adesso pubblico un po’ in barba al titolo del mio blog, perchè ho un conto in sospeso con quel gruppo da quando anni fa imparai a memoria senza volerlo il ritornello di Per me è importante che non mi piaceva e non mi piacevano nemmeno loro. Un po’ come accade con la Pausini, di cui impari a memoria i testi senza mai averla ascoltata intenzionalmente. Per me è un complotto.
Nemmeno il video è male però.

*… Vita Alla Vita …*

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“Un’anima gemella è chi ha serrature ove entrano le tue chiavi, e chiavi che aprono le tue serrature. La nostra anima gemella è chi condivide le nostre più profonde aspirazioni, chi ha il nostro stesso orientamento. Quando siamo due palloni, e la nostra aspirazione è salir su, insieme, allora è probabile che abbiamo bell’e trovata la persona adatta. La nostra anima gemella è chi dà vita alla vita.”

[Un Ponte Sull’Eternità – Richard Bach]

*… Proprio Lì, Tra Un Sogno E L’Altro …*

E chi l’avrebbe mai detto che poi congedarsi da un sogno che ormai sta diventando realtà non è proprio semplice come schioccare le dita. Questa cosa mi ha sorpresa abbastanza. Non me l’aspettavo. Come vedere in un sorriso quella forza ed ingenuità ed euforia che anni prima erano già lì e non aspettavano altro che essere ritrovate ed accolte come vecchie amiche. O come l’affetto ricevuto da chi non avrei mai detto che si è aggiunto all’amore e alla forza di chi non è potuto esserci (e qualcuno sta pure contrattando su un replay della presentazione, ma resisto eroicamente).

Come si chiama quello spazio elegante, delicato e magico che si trova proprio lì, da qualche parte, tra un sogno e l’altro?

Me lo chiedevo questa mattina mentre mi svegliavo. E chissà quanto tempo passa di solito prima di proiettarsi in un sogno nuovo e quanto veloce vanno le idee da quelle parti e che forma hanno. E chissà quante volte ci sarà da cambiar domanda perché magari il problema è lei e non la risposta.

La questione è che nei sogni non si sta mai fermi. E d’accordo, c’è il giorno che non hai la maledetta voglia di far niente. E quello in cui non ti riesce niente, nemmeno una frase di senso compiuto. E quel giorno ti appoggi alla ringhiera del balcone e guardi altra vita, che va ad altri ritmi, magari anche più lenti, come quello di una foglia che ti accorgi stava ingiallendo solo quando la trovi a terra caduta. E quella terribile sensazione di esserti persa qualcosa. Ma nemmeno in quel momento sei ferma. Rallenti, rasenti lo stallo come un gabbiano che prova a volare lentamente o un aereo che mentre passi con l’auto in tangenziale sembra sospeso nell’aria proprio sopra la tua testa e sai benissimo che non è possibile  e che si sta solo muovendo pianissimo. E capisci allora che la velocità la decidi tu. Corri per non perdere un treno oppure con la mente, per non perderti un’idea. E da quanto vai veloce determini anche cos’è che può fermarti. Ops, rallentarti. Se diventi brava salti perfino l’ostacolo in corsa, ma capita anche che lo prendi alla grande. Tanto sei in un sogno e non puoi fermarti. Pensi sempre a cosa fare dopo.

Poi, ti trovi in quello spaziò lì ed è una sensazione così diversa e bella. Mille cose che ti frullano per la testa. Mentre sei ferma in un punto che non sai dove sia e ti guardi indietro. E sbirci in avanti.

Giusto per prendere ispirazione. Giusto il tempo di tracciare una rotta nuova…

((:

*… Back To Life …*

Quando camminiamo fino al limite di tutta la luce che abbiamo, e facciamo un passo nell’oscurità del non conosciuto, dobbiamo credere che accada una di queste due cose. Ci sarà qualcosa di solido su cui mettere il piede, o ci verrà insegnato a volare.

[Patrick Overton]

Silenzio. Solo e soltanto silenzio. Nessuna parola, nessun suono, nessun pensiero. Niente di niente.
Doveva tacere tutto. Zitte le parole scritte sulle pagine che porto con me ovunque. Mute quelle conservate in quello spazio piccolo tra i circuiti e le cuffiette dell’mp3. Anche lui sempre con me, nella borsa. Se ci sono loro nessun posto è troppo freddo o troppo buio o troppo triste. Troppo affollato o estraneo. Da nessun angolo della testa partono proposte di azioni sovversive. E non c’è mai silenzio. Non c’è mai uno di quei cartelli con su scritto stiamo lavorando per voi a scusarsi della mancanza delle solite attività. No. Qualcuno che vaga nei corridoi lo si trova sempre. Un pensiero solo o in compagnia di qualche amica idea balorda. Certi amano passare in schieramenti, ordinati e precisi, qualcun’altro aspetta dietro l’angolo che finisca la parata per godersi un po’ di tranquillità. E per passare senza esser visto. Magari in penombra, con passo felpato. Magari non avrebbe nemmeno chissà cosa da temere, ma adora i film d’azione e non ci si può far niente, solo assecondarlo.

Stavolta però non c’era davvero nessuno. Tutti al sicuro nascosti dietro le loro porte. I corridoi erano deserti. Ampi, freddi e deserti. Lunghissimi. Provo un po’ a controllare ai vari piani. Quando si aprono le porte dell’ascensore sono più o meno tutti uguali, se non ci fosse il numerino luminoso in alto a destra nemmeno sapresti dove sei. Soltanto il ‘meno uno’ è proprio come nei film. Più buio, più desolato, con l’intonaco un po’ staccato dai muri. Nemmeno scendo e premo di nuovo un pulsante a caso dal tastierino.

Mi chiedevo quanto sarebbe durato. Avrei voluto sapere com’è che funziona. Se c’è un segno da aspettare, se c’è un tempo prestabilito o si può fare di testa propria. Perchè origliando vicino alle porte ho scoperto che tutti sapevano quale fosse la prossima mossa. Tutti sapevano cosa fare. Non sapevano quando però. Bel rompicapo.

E avrei voluto sapere com’è che accade. Come appare il mondo dopo. Che si prova in quell’attimo di onniscienza, nel quale ci si guarda dentro, da fuori. Iniziava a fare anche un po’ freddino. Sarebbe durato poco, lo so, perchè quel silenzio si faceva sempre più luminoso. E con la luce arriva il calore. Le ombre fuggono e il tepore sulla pelle sembra quasi un abbraccio. Mi guardo ancora un po’ intorno. In fondo c’è pace e non sembra poi così male, se non fosse che vorrei sapere che diavolo di fine hanno fatto tutti.

Mi scoccio di aspettare e provo a bussare. Hai visto mai che aspettassero un segno proprio da me.
Dopo tutto quel tempo le cuffiette s’erano ben attorcigliate. Premo il tasto play. Il suono fuoriesce timido come il battito di un cuore stanco. Dopo tutto quel silenzio vorrei ben dire… Sembra stonarmi le orecchie già così, ma almeno il silenzio inizia a diradarsi. Anzi, nemmeno il tempo di rendermene conto che si fa giorno. Il sole riappare tra le poche nuvole bello come un sorriso su un viso triste, tra visi amici.

Ormai sono tornati quasi tutti. Le parole dei libri hanno finalmente chi presta loro la voce. Che è perfino un ottimo rumorista. Estremamente versatile, non potrei fare a meno di lui. Tra qualche giorno le attività prenderanno anche un ritmo più serrato. Serve proprio che ci si organizzi.

Eppure qualcosa non torna ancora. Capita che, anche senza volerlo, guardo in un sorriso e in un rocabolesco salto all’indietro rivedo tutte quelle nubi, sento tutto quel silenzio. Capita che ancora mi chiedo com’è che accade. E in quanti modi diversi. Ancora mi chiedo com’è che, ecco, si torna alla vita.

*… Ti E’ Mai Successo? …*

Ti è mai successo di sentirti al centro
Al centro di ogni cosa al centro di quest’universo
E mentre il mondo gira lascialo girare
Che tanto pensi di esser l’unico a poterlo fare

Sei così al centro che se vuoi lo puoi anche fermare
Cambiarne il senso della direzione per tornare
Nei luoghi e il tempo in cui hai perso ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so volare

Ti è mai successo di sentirti altrove
I piedi fermi a terra e l’anima leggera andare
Andare via lontano e oltre dove immaginare
Non ha più limiti hai un nuovo mondo da inventare

Sei così altrove che non riesci neanche più a tornare
Ma non ti importa perché è troppo bello da restare
Nei luoghi e il tempo in cui hai trovato ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so viaggiare

Oltre questa stupida rabbia per niente
Oltre l’odio che sputa la gente
Sulla vita che è meno importante
Di tutto l’orgoglio che non serve a niente

Oltre i muri e i confini del mondo
Verso un cielo più alto e profondo
Delle cose che ognuno rincorre
E non se ne accorge che non sono niente
Che non sono niente

Ti è mai successo di guardare il mare
Fissare un punto all’orizzonte e dire:
”È questo il modo in cui vorrei scappare
andando avanti sempre avanti senza mai arrivare”

In fondo in fondo è questo il senso del nostro vagare
Felicità è qualcosa da cercare senza mai trovare
Gettarsi in acqua e non temere di annegare
A me è successo e ora so volare

Ti è mai successo di voler tornare
A tutto quello che credevi fosse da fuggire
E non sapere proprio come fare
Ci fosse almeno un modo, uno, per ricominciare

Pensare in fondo che non era così male
Che amore è se non hai niente più da odiare
Restare in bilico è meglio che cadere
A me è successo, amore, e ora so restare.

[Ti è mai successo – Negramaro]

*… I Trust In You …*

In un altro post parlai già del forum che Richard Bach aprì circa un anno e mezzo fa per tenersi in contatto con le persone che avrebbero avuto piacere di condividere con lui pensieri e riflessioni giornaliere, alimentate sia dai suoi libri che da nuovi spunti che la sua mente sempre pronta e vivace tirava fuori, compresi, anzi, soprattutto, quelli provenienti da una delle sue più grandi passioni, il pilotare aerei (l’altra è ovviamente la scrittura). L’amore che ha per il volo è smisurato, è la sua vita. Ho scoperto che è anche membro onorario del Biplano Club Italia. Ha avuto tanti aerei, compreso il relitto del P-51 Mustang, uno dei più importanti aerei della Seconda Guerra Mondiale (da giovane è stato anche pilota dell’aviazione americana). Quando dico ‘amore’ non esagero. Il suo ultimo libro, Travels With Puff, è una raccolta risistemata di una specie di diario di viaggio che aveva sul forum. Un viaggio dalla Florida a Washington State a bordo del suo Searey, un biplano, la dolce, acuta e sensibile Puff. Perchè il suo biplano ha un nome, pensa ed è una femmina? Questo si scopre leggendo il libro (: Diciamo che se sei in viaggio, quasi completamente da solo, per tanto tempo, non si tratta soltanto di pilotare un aereo, ma è anche l’aereo stesso che insegna qualcosa al pilota. Una connessione profonda, d’amore e di fiducia.

La mia amica Jennifer voleva convincermi a prenderlo in lingua originale, come ha fatto lei, le dissi però che avrei preferito aspettare l’edizione italiana, perchè in effetti in inglese l’ho già letto. Convenimmo sul fatto che, in effetti, leggere qualcosa nella tua lingua madre ti permette di goderne appieno, le emozioni arrivano in maniera più diretta e più forte, perchè in certi casi non si tratta di capire e basta. Jennifer è americana ma vive in Belgio, l’ho conosciuta proprio attraverso il forum ed è una persona stupenda. Intelligente, intraprendente, simpatica, da poco compiuti i 50 e ha uno spirito da ragazzina, sa darmi prospettive della vita interessanti e, una volta, anche un’ottima ricetta per i waffle che feci con l’aiuto di A. organizzando un waffle-party per il mio ultimo compleanno. In cambio le diedi la ricetta per la pizza, mi farà sapere 😛 Quando sua figlia andò in gita a Firenze mi chiese che tempo faceva da quelle parti, per sapere se doveva farle portare maglioni o no e le passai un buon portale meteo, ovviamente non poteva riferirsi al mettere giusto un attimo il naso fuori.

Questa sera parlavamo della scomparsa improvvisa di Kerry Sim, marito di Kristelle, la figlia di Bach. Un attacco di cuore appena dopo aver posato per l’ultima volta il suo aereo nell’hangar, di ritorno da uno dei suoi soliti voli. Anche se da lontano, ha sentito l’amore e il rispetto da parte del piccolo gruppo sopravvissuto alla chiusura del forum, successiva all’incidente che Bach ebbe proprio con Puff. Jenn mi ha detto che sarebbe grandioso se decidesse di riaprirlo, sorretto da nuove energie e nuove cose da condividere in seguito appunto a ciò che è successo. Pensiamo che potrebbe non appena troverà le parole giuste.
Abbiamo riflettuto sul fatto che è incredibile come grazie a lui, e lui lo sa, si sono intrecciati una serie di rapporti tra persone diversissime per età e nazione e che ormai vanno avanti da soli. Alcuni si sono incontrati superando anche due o tre stati di differenza. Persone che hanno trovato una serie di affinità e arricchiscono le reciproche vite. Ho imparato che nonostante mille differenze si può partecipare ad una gioia, provare dolore o paura. Trasmettere energie positive e poter dire io credo in te, lo so che ce la farai. Ci si può fidare di un sentimento sincero. E tutto ciò vale ugualmente in tanti altri contesti. Il web permette di creare cose così belle. Purchè ci sia sempre rispetto e attenzione. Ci sono tante cose che funzionano esattamente come dal vivo.
Mentre pensavo a queste cose e salutata Jenn, ho ritrovato questa:

Se ti eserciterai ad essere immaginario per qualche tempo, capirai che i personaggi immaginari sono talora più reali delle persone con un corpo e i battiti cardiaci.
[Illusioni – Richard Bach]

Sembra in contrasto con ciò che ho detto prima. Sembra, soltanto.