Più semplice.

Sul gruppo Facebook della mia cittadina oggi si è scatenata una mezza rivolta, alcuni accusavano altri di esser diventati all’improvviso cristiani praticanti soltanto perché la Chiesa è l’unico posto oltre al supermercato dove si può andare in questo periodo, che così facendo non ne usciremo mai, che Dio ci ascolta pure dallo sgabuzzino di casa nostra e così via.

Sarà una Pasqua con pochi simboli. Pare non siano state distribuiti rami di ulivo benedetti, per non parlare dell’acqua. L’altro giorno volevo comprare qualche decorazione primaverile al negozio dei cinesi, come dei rami di ciliegio finti o qualcosa del genere, ma non erano considerati beni di prima necessità ed erano circondati da del nastro rosso e bianco come quello delle scene del crimine. Poco più in là una signora sulla settantina avvolta in un cardigan bianco peloso stava chiedendo al commesso senti, ce l’hai il ruoto per il tortano? Il tor-ta-no. Il commesso aggrottando la fronte le rispondeva ruoto per torta, no?
Il ruoto per il toorta-no.
Si, ruoto, no torta?
E più o meno sono andati avanti così per un tempo indefinito finché la signora non ha iniziato a chiedere del pelacarote stavolta affidandosi a dubbi gesti. Io mi sono regalata un uovo di cioccolata fondente e domani mi infilerò tra ricette, impasti, uova e mattarelli perché certi profumi ti fanno stare bene anche se hai solo, o già, trentanni.

Quando ricordo che si tratta della seconda Pasqua in lockdown non posso fare a meno di pensare che non solo questo della pandemia non è per niente quel problema che l’anno scorso credevamo passeggero, ma che sta lasciando un segno, da qualche parte, non saprei dire bene dove. Forse qualcosa che non ci sembrerà più naturale come prima. Quand’ero piccola e c’era la Via Crucis alla tv mi piaceva la parte in cui ripetevano le cose in tutte le lingue. Sembrava davvero di essere in compagnia di mezzo mondo mentre mia madre impastava il tortano e mio padre tagliava formaggi e salumi da metterci dentro. Tutto il resto della cerimonia lo ascolto ogni anno perché spero sempre di capirci qualcosa, di prendere alla sprovvista quel senso, quella sfumatura che penso dovrei saper cogliere ma mi sfugge.

Quest’anno sono andata alla ricerca delle origini precristiane della Pasqua. Il senso è sempre quello. In tutti i tempi gli uomini hanno cercato di celebrare questo momento in cui la Natura si risveglia, il Sole è più caldo e le giornate più lunghe. Ci sono leggende, dei e dee, uccelli feriti trasformati in conigli che regalano uova in segno di riconoscimento, uova che significano rinascita. Insomma storie semplici che per il momento mi bastano.

Delle storie complesse non ne posso più. Questa situazione di emergenza mi ha aiutata a semplificare. Persone che sono sparite perché si sono accorte di avere una famiglia, altre che erano lì per tutti i motivi fuorché quelli davvero importanti, consuetudini cancellate dalla necessità di distanziarci. Ho tolto chili, delusioni, attese, incomprensioni, abitudini e sto cercando di distanziarmi da altro ancora.

Intanto l’impasto lievita, il che non era scontato. Iuppiii.

ComeDiari #19: Il tempo dimenticato

Ci sono alcune cose che scrivo solo per me. Perché non le ritengo adatte al blog, perché non avrebbero alcun senso nel filo del discorso che uno cerca di mantenere. A volte non le scrivo nemmeno e allora rimangono come pensieri ingabbiati che a tratti diventano feroci, altre volte apatici e rassegnati. Altre volte mi nascondo dietro le metafore perché la realtà mi sembra priva di magia, ma è come far prendere a quel che ho dentro solo un’ora d’aria senza liberarlo davvero.
Vorrei poter riuscire a dire che ho paura.
Vorrei poter riuscire a dire che non credo più in un sacco di cose. E che a volte il mondo mi sembra irrimediabilmente un pericolo continuo, che mi piacerebbe vivere da sola, non sentire il rumore dell’insoddisfazione e del malessere degli altri, perché non lo voglio, non l’ho chiesto, perché mi distoglie da me stessa a tal punto che ancora non so chi sono e cosa voglio.
Non credo nella politica, non credo nella democrazia, la religione è perfino più inutilmente complicata. Gli unici progressi che la società può fare sono quelli che in qualche modo generano soldi. Ho paura di essere in difetto con qualche stupida regola burocratica, ho paura di perdere quello per cui ho lavorato. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e di meritare quello che ho ottenuto. Ho paura di dimenticare di essere stata brava e che posso esserlo di nuovo e non per piacere a qualcuno, ma perché lo sono e basta.
Vorrei star qui e prendere ogni trauma, ogni automatismo e raccontarlo, smontarlo e renderlo innocuo, impotente e fare le cose con consapevolezza, perché così voglio essere. Voglio sapere chi sono. Non voglio diventare qualcosa che non mi piace. Non voglio più sentirmi in colpa, rimandare la mia vita a quando i problemi spariranno, solo una settimana, solo un’altra ancora e alla fine non ricordavo nemmeno più come se ne era andato il tempo. Ho passato giorni a ricostruire gli ultimi anni guardando le foto sul cellulare, perché a me sembrava solo di essermi risvegliata senza memoria dopo un viaggio attraverso un buco nero.
Vorrei riuscire a raccontare del panico, quando qualcosa mi ha ricordato un momento orribile e all’improvviso non c’era più l’aria e non c’era più il futuro.
Vorrei poter parlare di me senza avere paura di sembrare sbagliata o di star facendo qualcosa di sbagliato.
Voglio ricominciare da quello in cui credo, dai i ritmi della natura che un fiore mi ha insegnato, da quelli della Luna e delle stagioni. Dal profumo di una torta o del pane caldo. Voglio uscire dal gioco umano di creare drammi e poi perdere il doppio del tempo per trovarne le soluzioni, che se ci pensate è follia. Il corpo ha una sua intelligenza, ma nessuno lo ascolta perché la mente ci distrae continuamente cercando il piacere. Vorrei ricordare tutto, tutto, perché il tempo vola ma solo perché abbiamo poca memoria e dimentichiamo la maggior parte dei giorni che ci lasciamo alle spalle. Il tempo non è perso, è dimenticato.

Vigilia

Arrivo sulle scale tra il secondo e il primo piano e la sento già.

Sembra suonata da un principiante che fa una nota per volta, senza accordi e riecheggia come le voci lontane e cupe che escono dagli altoparlanti delle stazioni.

La musichetta va a tempo con le lucine intermittenti dell’albero di Natale che sta nell’atrio del palazzo. In tutto sono tre melodie che si susseguono ventiquattrore su ventiquattro. Una proprio non capisco quale canzone sia. Rompono il silenzio e si insinuano tra i pensieri che si incantano a quel gracchiare che sembra venire da un tempo decisamente passato.

Chiudo il pesante portoncino e faccio un breve giro sotto casa per comprare le ultimissime cose che mancano per le tavole di questi giorni. La maggior parte dei negozi in questi giorni ha occupato i marciapiedi con delle bancarelle. Ogni persona che incrocio è presa da quell’impazienza tipica delle vigilie. I negozianti guardano di traverso sia me che l’orologio sul polso, andando su e giù tra i banchi esterni e gli ingressi dei negozi. Eppure questo è il momento che mi piace di più del Natale. Amo quella leggera ansia che pervade ogni singola cosa e che si percepisce ad ogni passo a poche ore dall’inizio dei cenoni. Alzo sulla testa il cappuccio del parka perché sta iniziando a piovere.

Arrivo alla pasticceria con le mani già occupate. In una ho la busta con i limoni per le insalate di pesce, nell’altra un foglio di carta regalo. La signora che assomiglia terribilmente alla mia prof di italiano del liceo finisce di incartare le mie cassatine al pistacchio. Ci scambiamo gli auguri ed esco. Ogni volta che passo di lì dimentico che c’è una chiesa su quella strada perché è sempre chiusa e da fuori sembra il normale ingresso di un’abitazione. Dovevo mancarci da molto giacché mi accorgo solo in quel momento che dietro ai cancelli chiusi qualcuno ha illuminato l’interno della nicchia che ospita la statua della Madonna con dei neon blu e l’esterno con delle lucine rosse che disegnano un arco seguendo l’architettura della nicchia. Da qualche parte appena dopo i cancelli c’è una stella cometa di lucine appesa in alto. Tutt’intorno è completamente buio.

Delle persone mi passano affianco e aspetto che si allontanino per fermarmi di nuovo a guardare. Cerco di immaginare chi e perché ha illuminato quella madonnina di una chiesa praticamente sempre chiusa. Mi vengono in mente immagini di chiese enormi, bellissime e piene di gente, nelle quali sono stata e in cui spesso ho faticato a tenere l’attenzione sulle cerimonie che si stavano svolgendo e nelle quali, in generale, non mi sono mai sentita molto a mio agio. Quella scena invece mi rapisce con una semplicità così ovvia. Quelle luci male assortite insieme mi attirano e mi danno fastidio allo stesso tempo. C’è qualcosa di sbagliato che però è anche assolutamente giusto e che somiglia ad un mucchio di cose insensate, dolorose eppure inevitabili che fanno parte della vita.

E in quel momento ho capito che quest’anno il bello poco mi interessa. Mi interessa di più l’imperfezione. Ho voglia di gioire con chi fa tutto sbagliato, di ribellarmi e di additare e dispiacermi di chi crede di sapere già tutto. Vorrei conoscere le storie di imperfezione di chiunque perché, sapete, è inutile aver paura delle note stonate. Non ci si salva tappandosi le orecchie, anzi. Ci si perde ancora di più.

Rientro nell’atrio del mio palazzo, la musichina strana mi accoglie come ormai succede da giorni. Questa volta, però, arriva di qualche palmo più vicina al mio cuore.

Un augurio di buone feste imperfette a tutti.

Il mio Halloween (e che fine ha fatto l’unicorno)

Ieri pomeriggio mi sono chiesta seriamente perché.

Perché stavo intagliando una zucca? Facile, era il giorno di Halloween. Sì, ma, il motivo?

L’avevo svuotata al mattino e poi mi ero presa il pomeriggio per disegnarne le fattezze da intagliare con un coltello da cucina più sottile possibile. Quest’anno ho avuto l’idea di creare una zucca di Halloween un po’ superstiziosa, che somigliasse ad una civetta. Sciò Sciò ciucciué. 

Mentre lavoravo ho cercato di ricordare il significato di questa ricorrenza che per la maggior parte delle persone è estranea alle nostre tradizioni, nonostante la storia dimostri effettivamente il contrario. E’ solo che la Chiesa un giorno ha deciso di far coincidere le proprie ricorrenze religiose con quelle pagane. Giustamente.

Immaginate secoli fa contadini riuniti per festeggiare la fine del raccolto, la fine dell’estate e l’inizio del periodo invernale freddo e buio che però sarebbe trascorso in maniera più confortevole grazie al lavoro che aveva fruttato scorte di cibo e risorse in abbondanza, anche se faceva paura. Le foglie cadevano, la natura si addormentava e a tutto ciò non poteva che venir associata la morte e il mistero che si porta dietro da sempre. E la notte di Halloween diventa il simbolo di tutto questo. Un giorno per ricordare chi non c’è più. Un momento in cui l’aldilà e la realtà terrena comunicano e si confondono l’uno nell’altra.

Se la Chiesa avesse spostato la commemorazione dei santi e dei morti in un altro periodo dell’anno -non so quale poi sarebbe stato più adatto di questo qui- ecco, non se la sarebbe cacata nessuno. Sorry. 

Sapete una cosa? Ho capito perché Halloween mi affascina così tanto.

Mi ci sento legata perché ha origini profonde e vere. Non ci sono obblighi, regole da rispettare. Credenze imposte, cerimonie con un protocollo ben preciso da seguire.

Quando si osserva una foglia arrossita sull’asfalto grigio fuori al portone di casa la connessione con il mistero che ci fa perdere la testa dalla notte dei tempi è semplice e immediata.

Allora mi sento vicina a tutto questo forse anche semplicemente intagliando una zucca, come si faceva in tempi lontani e antichissimi. Rispetto con tutto il cuore la cultura religiosa che mi è stata insegnata e nella quale sono cresciuta, ma a volte mi sembra troppo. A volte credo basti molto molto meno per rimettersi in equilibrio con il mondo e questo meno penso abbia un sacco a che fare con il poter essere semplicemente se stessi.

 

E Gaetano? Come chi. Gaetano, l’unicorno. Un po’ di pazienza, c’è stato qualche problema tecnico, ma arriva. L’intervista arriva. Stay tuned 🙂 

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Ecco, appunto, i problemi tecnici. 

 

 

Deliri Post-Pasquali

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“[…] Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
[E. Hemingway]

Il fatto che il recarsi in chiesa ogni domenica per essere un buon cristiano fosse un obbligo non mi è mai piaciuto. Ho sempre creduto che servisse qualcosa di più per farlo, come un bisogno, una necessità di qualsiasi tipo. L’idea che ho della religione è abbastanza complicata, ma un po’ si basa su questa idea qui, semplice e logica e negli anni ho cercato di esserle fedele. Le ricorrenze sono alcune di quelle occasioni in cui ci vado, magari per l’atmosfera di festa o anche soltanto per ricordare certi principi che al di là di ogni credo sono sempre validi e coincidenti con quelli delle festività pagane che un tempo erano al posto di quelle religiose che conosciamo di più. La Pasqua, ad esempio, dovrebbe ricordarci che alla fine la luce vince sul buio. Anche questa un’idea semplice, confortante, attorno la quale si possono costruire dei discorsi immensi, usando giri di parole sempre nuovi e diversi.

Questa cosa non valeva per il prete del paese in cui vivevo prima. No. Lui, al momento dell’omelia, ripeteva sempre, ogni benedetto anno, lo stesso discorso. Non credo mancasse di fantasia, anzi, ero arrivata a credere che lo facesse apposta per far si che quei pochi e necessari concetti potessero davvero restare nelle teste distratte di chi, a detta sua, si trovava lì trascinato più dalla coscienza collettiva del paese che dalla propria volontà. Per cui quando la scorsa Pasqua mi sono ritrovata in un’altra chiesa, con un nuovo prete e l’occasione di ascoltare un discorso diverso, sono stata tutta orecchie, in cerca di una sfumatura, un guizzo geniale da portare via con me.

Adesso, ripeto, ci sono tanti modi diversi di spiegare un’idea e altrettanti di recepirla. Quella che non mi aspettavo e su cui spesso sono tornata a riflettere in questi giorni è stata la sensazione di perplessità e disagio che ho provato nonostante il messaggio in generale fosse positivo e rassicurante. In pratica, il cuore del discorso riguardava il dolore fisico e quello dell’anima. Di quanto fossero diversi. Quello fisico ha un limite in quanto il corpo stesso, ad un certo punto sviene, per difendersi. Il dolore dell’anima invece sarebbe infinito, non esiste un limite, un fondo, un meccanismo di sicurezza che interviene al nostro posto per salvarci, no. Ci si deve salvare da soli prendendo coscienza del fatto che essere felici è un diritto. Punto. Tutto qui. Ciò equivale a dire che si possono trascorrere le giornate a pensare che nulla va come dovrebbe o, al contrario, che tutto è esattamente al suo posto o che comunque lo sarà nei tempi e nei modi più giusti. Tutto dipende dal nostro atteggiamento mentale che condiziona tantissimo il modo in cui osserviamo la realtà. Un evento positivo può diventare ai nostri occhi negativo così come può accadere il contrario, per cui se stiamo male, in fondo, è un po’ colpa nostra.

Tutte queste belle cose non sono una novità, spesso se ne perde consapevolezza, ma tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo già sentito parlare. Ricordare che la felicità è un diritto lì per lì mi ha fatta sentir meglio. Poi, si sa, quando viene spinta da un impulso diverso la mente parte, va senza freni tra pensieri impervi e disastrati ed è impossibile fermarla. Mi sono sentita in colpa. Terribilmente. Per tutte le volte che non mi sono salvata e ho preferito pensare a me stessa come la persona che non sono e a quel che non stavo facendo, soffrendo inutilmente.

Non so, forse ci sta anche questo. Rientra nella normalità dell’eterno scontro tra bene e male che avviene dentro di noi ogni giorno prima che in qualsiasi altra parte del mondo, nell’ovvietà del fatto che le vittorie vanno all’uno o all’altro alternandosi e che nonostante tutto la vita va presa con le giuste dosi di responsabilità e leggerezza, sempre. Chissà allora se non esiste da qualche parte anche un certo diritto al dolore, perché come mi disse una persona qualche tempo fa, è inutile crucciarsi quando non si è pronti, per una cosa qualsiasi, fosse pure semplicemente la felicità.

ComeDiari #7: Le Storie Che Nessuno Racconterà Più

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Sai quand’è che una storia non la racconti più?

Penso sia nel momento in cui ti accorgi che ne hai perso l’essenza, il fulcro intorno al quale ruotavano i ricordi e i fatti, rattoppati in qualche punto da scene immaginate e qualche opinione. Allora non ne vale nemmeno più la pena sprecare la fantasia, ce ne vorrebbe tanta, troppa, per combattere i grigiori mattutini di certi cieli che vogliono solo esser lasciati in pace così come sono, nella loro ignavia.

Una storia non si racconta più quando i personaggi si sbiadiscono a tal punto che non sai nemmeno più chi sono, o meglio quel che sai basta giusto a definirne lo scheletro per farli restare in piedi. Ti accorgi che l’indifferenza ha divorato la voglia di scoprire e il tempo ha assegnato loro, d’ufficio, un modo d’essere pur di liberare la scrivania da scartoffie impolverate. Sono rimasti nello scatolo frammenti dei loro pensieri che a fatica riesci a rimettere insieme. Del cuore ricordi il battito ma ti manca il petto su cui poggiare l’orecchio ancora una volta. Non c’è più il maglione, non c’è più la pelle e il suono è solo quello registrato dalla tua mente. Nemmeno io sono più la stessa e sto cercando di ricordare com’ero mentre dovrei invece impegnarmi a capire chi sono. Io che mi ritrovo a raccontare storie più grandi di me e poi mi ci perdo dentro. Ho smarrito i desideri lì dove i confini del raggiungibile sono sottili e si possono ancora modellare. Che sia un fine o una necessità non lo so più, ma li spingo sempre oltre.

La società non lascia più in eredità un posto, o almeno uno soltanto, per ognuno di noi cosicché finiamo per avere poche radici e tantissimi rami, lunghi e ricchi di foglie. Che tipo di albero è questo, penserai. Non lo so e l’identità ha a che fare un po’ anche con questo. Sulle teste abbiamo tutti lo stesso cielo grigio e tra le mani un mucchio di fantasia. Qualcuno, spaventato, va a barattarla con deserti di regole e l’illusione di appartenere a qualcosa. L’odio diventa una soluzione allo smarrimento e alla paura, assegna un nome, un fucile e uno scopo che, chissà, appare più giusto e gratificante del sentire di essere un nessuno qualunque, a casa propria. Quando è morto dicono l’abbiano ritrovato con le radici ormai avvizzite circondato da più foglie di quelle che i suoi rami potevano sostenere. Porca miseria dico io, davvero valevano tanto quelle maledette foglie? Non diventeranno medaglie al valore, ma marciranno come i loro nomi nella memoria di una storia che nessuno racconterà più. 

Penso avessero la mia età più o meno e oggi io sono ancora qui a chiedermi chi sono. Loro, ormai, non possono farlo più.

 

Chi Sei, Charlie?

L’altro giorno ho visto una vignetta, c’era un Maometto visibilmente preoccupato seduto sul lettino dello psicologo che si chiedeva com’è che gli altri profeti hanno followers con più senso dell’umorismo e lui no.

La cosa che preoccupa me, invece, è l’enorme confusione che regna tra tutti noi che siamo stati spettatori di quel che è successo. Da chi ha sentito gli spari fino a tutti quelli che come me hanno appreso il fatto ad esempio alla radio, tra una canzone e l’altra, tornando a casa a fine giornata. Tutti d’accordo sul non si uccide, specie chi è disarmato. Poi però le opinioni viaggiano su sensazioni diverse.

C’è che così, d’istinto, in tanti si sentono Charlie, come se di fondo fosse stata ucciso il potere, anche potenziale, di ognuno a dire ciò che vuole su chiunque. Da qui c’è il comunque non lo farei oppure satira si, ma non si offende. 

Chi stabilisce se una cosa è offensiva o meno? Chi decide se chi si offende lo fa a ragione o a torto?

Poi, guardando bene, in controluce, c’è pure il voglio sia la libertà di esprimermi che quella di offendermi. Sarebbe lo stesso dire che una religione è più rispettabile di un’altra. Siamo proprio sicuri che se ad esser preso di mira fosse il cattolicesimo, la Curia non avrebbe proprio, ma proprio niente niente da ridire?

C’è chi pensa che il problema sia il terrorismo e non la religione perché non tutti gli islamici sono criminali, altri per cui si, non sono tutti criminali ma alcuni sono integralisti e quindi è pure peggio. E’ vero che tutti i terroristi sono estremisti o che tutti gli estremisti pur non essendo terroristi cercano in un modo o nell’altro di imporre la propria cultura emarginando gli occidentali, alla faccia dell’integrazione?

Qualche voce d’altro canto afferma io non sono Charlie, che c’ho il mutuo da pagare, guardiamoci bene in faccia per favore. Sul web, sotto al viso di un poliziotto ucciso compare la frase si però io sono morto per difendere la libertà d’espressione di chi prendeva in giro la mia stessa religione. Poi magari da chissà quale aldilà starà imprecando perché quello gli è toccato e basta, che aveva mutuo e famiglia pure lui.

Una cosa soltanto ho capito, ed è che questi attentati hanno spogliato miriadi di false convinzioni e tutti nudi, adesso, si corre qua e là per provare a ripararsi dietro le poche spiegazioni rimaste in piedi, dopo uno scossone del genere. E’ questo che mi par di vedere. Confusione pazzesca. Quel senso di smarrimento e disillusione nei confronti di politica, religione e società occidentali che ha portato alcuni in Europa ad arruolarsi tra le fila di guerre sante. A me tutto questo fa spavento.

M’è preso quasi da piangere guardando tutte quelle matite alzate al cielo, ma se sono o no Charlie sinceramente non lo so. E non so nemmeno se sono una follower con più senso dell’umorismo d’altri, che alla fine il livello di fastidio lo percepiamo tutti ad altezze diverse. Diverse come le emozioni che questa storia ha suscitato in ognuno, come le religioni, come le convinzioni, come le culture, come i confini tra libertà e rispetto…

Davvero, ma come si trova un metro di giudizio unico in tanta diversità?

Vorrei riprendere dall’inizio tutto, e capire sul serio Charlie chi è.

Non C’è 2 (Novembre) Senza Jack

Che importa dove abitano i santi
dove fanno i loro bei cerchi
guarda che gran firmamento
accompagna una stella.

[Emily Dickinson]

 

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Indovinate chi si è divertita come una bambina ad intagliar zucche, la sera di Halloween 😀

Ne ho lette come ogni anno di tutti i colori su questa ricorrenza che non è nostra, mentre mi chiedevo nostra cosa significa, se ci si riferisce al fatto che nei decenni che ci hanno preceduti non si è mai festeggiato alcunché il 31 ottobre o a quello che per i cristiani le vere ricorrenze sono quelle dei due giorni successivi e non questa. Tralasciando poi la questione pretesto per divertirsi che in fondo non toglie e non mette nulla al senso della ricorrenza in sé per sé perché è di consumismo che si parla, non di altro, del quale si può esser vittime in tanti altri modi pur avendo declinato l’invito al più cool degli Halloween-party, io non riesco a non farmi affascinare da leggende e credenze che possono anche non esser parte della mia cultura ma nelle quali trovo il tentativo di altri uomini e tempi di dare un senso a cose che tutti più o meno percepiamo ancora come misteriose e che spaventano come la morte e tutto ciò che la riguarda.

Ad esempio, come si fa a restare impassibili leggendo la storia di Jack O’ Lantern? Uno un po’ fuori dal perbenismo, pure falso, della società, che in vita s’era diviso tra osterie e lavoretti poco onesti ma scaltro da fregare per ben due volte il diavolo finito poi ad esser rifiutato sia dal Paradiso che dall’Inferno e condannato a vagare eternamente alla ricerca di un posto dove stare alla flebile luce di un carbone ardente donatogli pure con stizza e pietà. Fuori da questo mondo, fuori dall’aldilà, intrappolato in un non luogo che si estende ben poco oltre la sua stessa anima.

Ditemi se davvero sentite così lontana da voi una storia come questa.

Di altri esempi me ne vengono in mente diversi, che con la religione c’entrano poco, eppure hanno radici che affondano in paure che accompagnano gli uomini da sempre e che questa festa che di base ha a che fare con la fine, la morte, la chiusura di cicli naturali, con il buio e il sonno momentaneo della vita sta qui a ricordare.

Ciò che vorrei sottolineare è che perfino restando fedeli a tradizioni  e credenze cristiane, spesso noto che le persone, tra cui mi ci metto anch’io, pur di fronte a delle spiegazioni o comunque indicazioni provenienti direttamente da lassù, fanno lo stesso un po’ come gli pare. Davvero. Si creano credenze nelle credenze, abitudini, interpretazioni che hanno un fascino tutto loro e che esorcizzano in qualche modo il timore, la mancanza dei propri cari, la voglia di sentirsi vicini a loro nonostante tutto.

A me piace osservare. E’ quello che faccio praticamente sempre quando qualcuno della famiglia mi trascina al cimitero. Da piccola mi annoiavo abbastanza, che la maggior parte delle tombe che si andavano a visitare (e ancora oggi, eh) appartenevano a persone che nemmeno avevo mai visto, come i bisnonni, o a stento sentito nominare. Così mi perdevo a guardare quelle degli altri, a leggere epitaffi Tizio qui depose gli avanzi di sua suocera, che “avanzi” forse nel 1800 aveva un’accezione meno offensiva (forse), a guardare foto, immaginare vite, a cercare di ricordare con tutte le mie forze qual’era la preghiera che al catechismo avevano detto avesse a che fare con i defunti e a chiedermi se dinanzi ai loro resti ci fosse qualcosa da dover dire o pensare di più giusto delle mie riflessioni strambe.

Oggi guardo mia madre affannarsi a cambiare fiori, pulire, mettere ordine, badare a dettagli come fossero sfumature del più ampio concetto di prendersi cura, anche di chi non c’è più. Allo stesso modo vedo come si adoperano gli altri. Ognuno a modo proprio. Non credo ci sia scritto da qualche parte come si fa a voler bene. Come si supera il gap che inevitabilmente si crea quando qualcuno va via. Come si riempie il vuoto. Credo però nel rispetto e nella responsabilità che ognuno ha nei confronti dei propri sentimenti e bisogni come fosse una continua ricerca delle risposte ancora non scritte da nessuno, men che meno dentro di noi, alla luce di una candela che può alimentarsi di qualsiasi cosa secondo me, purché sia bella.